Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 13205 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 13205 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 19/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 23181/2021 R.G. proposto da :
RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME ed elettivamente domiciliata presso lo studio legale di quest’ultimo, in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente-
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui Uffici è elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO
-controricorrente-
per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 623/13/2021, depositata il 17 febbraio 2021.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
-L’Agenzia delle entrate -Ufficio controlli della Direzione provinciale I di Milano, notificava in data 2 gennaio 2018 alla società RAGIONE_SOCIALE gli avvisi di accertamento n. T91303FF02697/2017 e n. T91306FF02697/2017 con i quali recuperava maggiori imposte a fini IRES, IVA e IRAP per gli anni 2014 e 2015. In particolare, l’Ufficio accertava maggiori ricavi non dichiarati, costi non deducibili e conseguente IVA illegittimamente detratta. Dalla verifica del modello Unico presentato dalla società per l’anno d’imposta 2014 e mergeva la non congruità e la non coerenza dei dati dichiarati e dall’applicazione degli studi settore risultava un sottodimensionamento dei ricavi conseguiti dalla società. Pertanto l’Ufficio, ricorrendo al metodo analitico -induttivo di cui all’art. 39, comma 1, lett. d, d.P.R. 600/1973, procedeva alla ricostruzione dei ricavi complessivamente ottenuti dalla contribuente.
La società impugnava gli avvisi di accertamento con due distinti ricorsi dinanzi alla Commissione provinciale di Milano che, previa riunione dei ricorsi, con sentenza n. 4947/02/2019, depositata il 22 novembre 2019, accoglieva parzialmente il ricorso n. 3698/2018 relativo all’avviso di accertamento n. T91303FF02697/2017, con riferimento ai maggiori ricavi, e rigettava il ricorso n. 5090/2018 relativo all’avviso di accertamento n. T91306FF02697/2017.
-Avverso tale pronuncia, l’Ufficio proponeva atto di appello.
La Commissione tributaria regionale, con sentenza n. 623/13/2021 depositata il 17 febbraio 2021, accoglieva l’appello dell’Ufficio e rigettava l’appello incidentale della società.
-La contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi.
L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.
-Il ricorso è stato avviato alla trattazione camerale ai sensi dell’art. 380 -bis .1 c.p.c.
Parte ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
-Con il primo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., 39, comma 1, lett. d) d.P.R. n. 600/1973, in relazione all’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c., per aver la Commissione tributaria regionale ricostruito i maggiori ricavi con il metodo analitico-induttivo, violando i principi in materia di onere probatorio a fronte dell’assenza di presunzioni gravi precise e concordanti. Con l’ulteriore profilo di illegittimità in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c., per assenza di motivazione riguardo alla gravità, precisione e concordanza del ragionamento presuntivo.
Con il secondo motivo si prospetta la violazione dell’art. 3 60, comma 1, n. 5 c.p.c., per aver la Commissione tributaria regionale fatto ricorso a un ragionamento presuntivo fondato su un presupposto fattuale erroneo. Con l’ulteriore profilo di illegittimità in relazione all’art. 360 , comma 1, n. 4 c.p.c., per assenza di motivazione in ordine all’applicazione del ragionamento presuntivo.
Con il terzo motivo si deduce l’illegittimità della sentenza in relazione all’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c. per aver la Commissione tributaria regionale reso una pronuncia affetta da motivazione contraddittoria in riferimento alla percentuale di sfrido della farina.
1.1. -I motivi, da trattarsi congiuntamente, sono in parte infondati e in parte inammissibili.
Nella prova per presunzioni, la relazione tra il fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi come conseguenza del fatto noto alla stregua di canoni di ragionevole probabilità.
In tema di prova civile conseguente ad accertamento tributario, gli elementi assunti a fonte di presunzione non debbono essere necessariamente plurimi – benché l’art. 2729, comma 1, c.c., l’art. 38, comma 4, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e l’art. 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 si esprimano al plurale – potendosi il convincimento del giudice fondare anche su un elemento unico, preciso e grave, la valutazione della cui rilevanza, peraltro, nell’ambito del processo logico applicato in concreto, non è sindacabile in sede di legittimità ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (Cass., Sez. V, 28 aprile 2021, n. 11162; Cass., Sez. I, 26 settembre 2018, n. 23153; Cass., Sez. V, 15 gennaio 2014, n. 656).
La giurisprudenza ritiene, costantemente, che anche un solo elemento noto possa condurre all’accertamento induttivo come nel caso di specie, ove ci si è basati sul quantitativo di farina, fatto noto e non contestato.
Pertanto, in tema di accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, è stato ritenuto legittimo l’accertamento che ricostruisca i ricavi di un albergo-motel sulla base delle fatture relative al lavaggio degli asciugamani, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun cliente, si adoperi tendenzialmente un certo numero di asciugamani al giorno e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei clienti che usufruiscono dei servizi alberghieri (Cass., Sez. V, 19 febbraio 2010, n. 4017).
Cass., Sez. V, 23 luglio 2010, n. 17408 – in tema di accertamento tributario, sia presuntivo del reddito d’impresa, a norma dell’art. 39, comma 1, lett. d del d.P.R. 29 settembre 1973,
n. 600, sia induttivo in materia di IVA, ai sensi dell’art. 55 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 – ha considerato legittima la ricostruzione dei ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo di acqua minerale, costituendo lo stesso un ingrediente fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni effettuate.
Cass., Sez. V, 8 luglio 2002, n. 9884 ha ritenuto legittimo l’accertamento presuntivo del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che ricostruisca i ricavi di un’impresa di ristorazione sulla base del consumo unitario dei tovaglioli utilizzati, costituendo dato assolutamente normale quello secondo cui, per ciascun pasto, ogni cliente adoperi un solo tovagliolo e rappresentando, quindi, il numero di questi un fatto noto capace, anche di per sé solo, di lasciare ragionevolmente e verosimilmente presumere il numero dei pasti effettivamente consumati (pur dovendosi, del pari ragionevolmente, sottrarre dal totale i tovaglioli normalmente utilizzati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti, l’uso da parte dei camerieri e simili).
Risulta, dunque, legittima la ricostruzione dei ricavi basata su calcoli oggettivi, di cui la motivazione tiene puntualmente conto.
Anche sul calcolo dello sfrido vi è una articolata motivazione, non censurabile in questa sede, attenendo i rilievi formulati nei motivi di ricorso alla richiesta di una nuova valutazione del merito, non consentita in sede di legittimità. È inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., Sez. VI-3, 4 aprile 2017, n. 8758).
2. -Con il quarto motivo si contesta l’illegittimità della sentenza per violazione dell’art. 109 TUIR, in relazione all’art. 360 , comma 1, n. 3 c.p.c., per aver la Commissione tributaria regionale deciso in modo contraddittorio, sostenendo la mancanza di inerenza con riferimento alla parte relativa all’indeducibilità dei costi e indetraibilità dell’IVA.
2.1. -Il motivo è infondato.
In tema di IVA, la detrazione dei costi richiede la loro inerenza all’attività di impresa, da intendersi come necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, secondo una valutazione qualitativa e non quantitativa o utilitaristica, la cui prova, in caso di contestazioni dell’amministrazione finanziaria, è a carico del contribuente, dovendo egli provare e documentare l’imponibile maturato e, quindi, l’esistenza e la natura del costo, i relativi fatti giustificativi e la sua concreta destinazione alla produzione, quale atto di impresa perché in correlazione con l’attività di impresa e non ai ricavi in sé (Cass., Sez. V, 13 febbraio 2025, n. 3747).
La Commissione tributaria regionale ha motivatamente escluso l’inerenza delle fatture ricevute dalla RAGIONE_SOCIALE, ritenendola non provata, mancando la documentazione di supporto dalla quale possa ricavarsi, oltre all’importo, la ragione della spesa in funzione della strumentalità del bene o del servizio. L’onere della relativa prova spettava al ricorrente, non essendo a tal fine sufficiente la mera regolarità contabile. Sul punto, avendo la Commissione tributaria regionale respinto l’ appello incidentale, vi è una “doppia conforme”, senza la deduzione di alcuna differenza tra il giudizio di primo e di secondo grado, per cui risulta precluso l’esame di eventuali fatti omessi.
-Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 8.200,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis , del d.P.R. n. 115 del 2002, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 27 marzo 2025.