Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 25105 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 25105 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 12/09/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 6758-2020, proposto da:
RAGIONE_SOCIALE c.f. P_IVA, in persona del legale rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO presso e nello studio dell’avv. NOME COGNOME dal quale è rappresentata ed difesa –
Ricorrente
CONTRO
RAGIONE_SOCIALE , cf NUMERO_DOCUMENTO, in persona del Direttore p.t. elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende –
Controricorrente della sentenza n. 8402/08/2018 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 30 novembre 2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9 luglio 2025
dal Consigliere dott. NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Dalla sentenza e dagli atti difensivi delle parti si evince che l’Agenzia delle entrate, rilevata l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi,
Op. ogg. inesistenti e cessioni intracomunitarie -Operazioni in frode -Poteri di verifica della DRE -Acquisizione di prove
notificò alla RAGIONE_SOCIALE avviso d’accertamento ex art. 39 comma 2 dpr n. 600/1973 con cui recuperò imponibile ai fini Ires, Iva e Irap, relativamente all’anno d’imposta 2007.
I rilievi traevano genesi da una verifica condotta da funzionari dell’Agenzia delle entrate, Direzione Generale dell’Abruzzo, relativa alle annualità 2005, 2006 e 2007, eseguita presso i locali destinati all’attività di call-center, siti in Avezzano. I dati così raccolti erano stati poi trasmessi alla Direzione provinciale di Roma, competente in ragione della sede legale della società. Le pretese erariali, avevano una duplice fonte. Per un verso l’Agenzia aveva rilevato che la società, esercente attività di call -center in subappalto, risultava a sua volta aver subappaltato parte dell’attività a società terze, tra esse la RAGIONE_SOCIALE e la società rumena RAGIONE_SOCIALE, entrambe amministrate da COGNOME Roberto, di esse anche socio con una partecipazione del 95%, ossia dalla persona che sino al 13 novembre 2006 aveva ricoperto la carica di legale rappresentante della stessa RAGIONE_SOCIALE. Le operazioni tra le suddette società erano state ritenute inesistenti. La RAGIONE_SOCIALE inoltre risultava aver acquistato macchinari, poi formalmente esportati in Paesi intracomunitari senza applicazione dell’iva, ex art. 41 d.l. 30 agosto 1993, n. 331, operazioni anche queste da ritenersi inesistenti.
L’Ufficio pertanto determinò i maggiori ricavi e le maggiori imposte ai fini Ires ed Irap, nonché il maggior debito d’imposta ai fini Iva, irrogando inoltre le sanzioni, il tutto per il complessivo importo di € 1.421.373,00.
Avverso l’atto impositivo la società propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Roma, che con sentenza n. 30149/35/2016 ne respinse le ragioni. La contribuente impugnò la decisione dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che con sentenza n. 8402/08/2018 ha rigettato l’appello.
Il giudice regionale ha ritenuto che il giudice di primo grado aveva esaminato le eccezioni sollevate dalla società, disattendendole correttamente sulla base delle puntuali ragioni rappresentate dall’ufficio. Ha ritenuto legittima la motivazione del provvedimento impositivo, ancorché operata per relationem al pvc redatto all’esito della verifica per gli anni precedenti (2005 e 2006). Nel merito poi ha evidenziato che la società non aveva presentato la dichiarazione dei redditi, così che l’ufficio legittimam ente
aveva proceduto ad un accertamento induttivo, con utilizzo di qualunque elemento probatorio. Ha in ogni caso rilevato che l’ufficio aveva fondato l’accertamento su una serie di riscontri oggettivi, mediante fatti circostanziati e gravi, illustrando le anomalie riscontrate nei rapporti con le altre società, con le quali la RAGIONE_SOCIALE aveva posto in essere operazioni inesistenti. Parimenti ha riconosciuto l’attività frodatoria posta in essere con la commercializzazione di macchinari destinati al mercato intracomunitario al solo fine di non versare l’iva, generando ad un tempo un credito iva per le operazioni passive.
La società ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato ad undici motivi, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
All’esito dell’adunanza camerale del 9 luglio 2025 la causa è stata riservata e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo la società ha lamentato la violazione e falsa applicazione dell’art. 47 e 52, d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c. La sentenza d’appello non avrebbe tenuto conto che né il giudice di primo gra do, né lo stesso collegio d’appello si erano mai pronunciati sull’istanza cautelare di sospensione dell’efficacia esecutiva del provvedimento impugnato.
Il motivo è infondato, quando non inammissibile, dovendo farsi applicazione del principio secondo cui, in tema di contenzioso tributario, il giudice che, senza ritardo, decide il merito della causa, omettendo di pronunciarsi sull’istanza di sospensione dell’atto impugnato, non viola il diritto di difesa del contribuente in quanto, ai sensi dell’art. 47, comma 7, del d.lgs. n. 546 del 1992, gli effetti della sospensione cessano alla data di pubblicazione della sentenza di primo grado, per cui non sussiste alcun pregiudizio per la mancata decisione sull’istanza cautelare che, pur se favorevole, viene meno con la decisione di merito (Cass., 17 gennaio 2025, n. 1149; 9 aprile 2010, n. 8510).
Nel caso di specie, a parte l’inammissibilità della questione per difetto d’interesse rispetto alla denunciata omissione di pronuncia della Commissione provinciale, che già respinse le ragioni di merito, la difesa del contribuente non ha neppure evidenziato i tempi intervenuti tra la mancata trattazione della richiesta di sospensione e quelli entro i quali la causa è stata
decisa nei gradi di merito, mentre nessun richiamo specifico è stato operato all’istanza di sospensione della esecutività della sentenza impugnata, che in sede di gravame è l’unico provvedimento cautelare che può chiedersi ai sensi dell’art. 52, comma 2, d .lgs. n. 546 del 1992.
Con il secondo motivo ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c.
Il giudice regionale avrebbe pronunciato una sentenza nulla, per apparenza della motivazione; avrebbe omesso di pronunciarsi sulle eccezioni sollevate dalla contribuente, quali la nullità dell’ordine di servizio emesso dalla Direzione Regionale dell’Abruzz o, laddove la sede legale della società era ubicata in Roma, ed a firma di un funzionario e non del Direttore della Direzione Regionale dell’Abruzzo; non avrebbe neppure tenuto conto che la verifica era stata eseguita da due funzionari dell’ufficio di Avez zano, applicati alla suddetta DRE, con la conseguente nullità del pvc redatto da organi e direzioni regionali, prive di potere accertativo, per essere questo demandato ai soli uffici territoriali provinciali. Conseguentemente, la società lamenta che la Commissione non si sarebbe pronunciata sulla eccepita illegittimità dell’avviso d’accertamento perché illegittimo l’atto istruttorio, proveniente da ufficio territorialmente incompetente, ed inoltre privo di poteri per l’effettuazione di accessi, ispezioni e verifiche.
Con il terzo motivo la ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione del d.P.R. n. 600 del 1973, della l. n. 241 del 1990 e della l. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 3, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c. La Commissione regionale non si sarebbe pronunciata sulla eccepita nullità dell’atto impugnato per incompetenza territoriale della Direzione Regionale dell’Abruzzo, senza dunque avvedersi che l’accertamento fiscale effettuato da un ufficio dell’Agenzia non territorialmente incompetente determi na un atto illegittimo.
I due motivi, che possono essere trattati congiuntamente perché logicamente collegati, sono infondati.
Intanto è infondata la denuncia della apparenza della motivazione.
RGN 6758/2020 Consigliere rel. NOME Questa Corte ha chiarito che sussiste l’apparente motivazione della sentenza ogni qual volta il giudice di merito ometta di indicare su quali elementi abbia fondato il proprio convincimento, nonché quando, pur
indicandoli, a tale elencazione ometta di far seguire una disamina almeno chiara e sufficiente, sul piano logico e giuridico, tale da permettere un adeguato controllo sulla correttezza del suo ragionamento (Sez. U, 3 novembre 2016, n. 22232; cfr. anche 23 maggio 2019, n. 13977; 1 marzo 2022, n. 6758). In sede di gravame, non è viziata la decisione quando motivata per relationem ove il giudice d’appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione proposti, sì da consentire, attraverso la parte motiva di entrambe le sentenze, di ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto, ovvero purché il rinvio sia operato così da rendere possibile ed agevole il controllo, dando conto delle argomentazioni delle parti e della loro identità con quelle esaminate nella pronuncia impugnata. Essa va invece cassata quando il giudice si sia limitato ad aderire alla pronuncia di primo grado senza che emerga, in alcun modo, che a tale risultato sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (cfr. Cass., 19 luglio 2016, n. 14786; 7 aprile 2017, n. 9105). La motivazione del provvedimento impugnato con ricorso per cassazione è apparente anche quando, ancorché graficamente esistente ed eventualmente sovrabbondante nella descrizione astratta delle norme che regolano la fattispecie dedotta in giudizio, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento decisorio, così da non attingere la soglia del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass., 1 marzo 2022, n. 6758; 30 giugno 2020, n. 13248; cfr. anche 5 agosto 2019, n. 20921). È altrettanto apparente ogni qual volta evidenzi una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio (Cass., 14 febbraio 2020, n. 3819), oppure quando carente nel giudizio di fatto, così che la motivazione sia basata su un giudizio generale e astratto (Cass., 15 febbraio 2024, n. 4166).
Nel caso di specie, per quanto già riportato nei ‘fatti di causa’ sulle ragioni per le quali la Commissione regionale ha inteso respingere l’appello, la motivazione era completa e ben motivata.
Quanto poi alle doglianze che nel ricorso seguono l’illustrazione del secondo motivo, e che nella sostanza si collegano alla denuncia articolata
RGN 6758/2020 Consigliere rel. NOME
con il terzo motivo, l’essere cioè l’atto impositivo viziato da nullità radicale perché emesso da un ufficio dell’agenzia territorialmente incompetente, esso è del tutto privo di pregio.
Le ragioni addotte dalla difesa della società, per molti aspetti confuse, sovrapponendo numerose questioni senza un concreto filo logico, sono in ogni caso infondate perché l’attività di verifica nei locali ubicati in Avezzano doveva essere eseguita da operatori degli uffici territorialmente competenti nella zona, che infatti, compiute le suddette operazioni, si sono limitati a trasmettere alla direzione provinciale competente, quella di Roma, i risultati della verifica al fine della elaborazione dei dati e d emissione dell’atto impositivo, come infatti avvenuto.
Quanto poi alla denunciata illegittimità delle operazioni di verifica perché eseguite da una Direzione Regionale, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che « 5.2. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, ribadito con numerose pronunce (v. Cass. n. 20915 del 03/10/2014; Cass. n. 24263 del 27/11/2015; Cass. n. 848 del 19/01/2016; Cass. n. 20856 del 14/10/2016; da ultimo Cass. n. 33289 del 21/12/2018), il d.lgs. n. 300 del 1999, in sede di istituzione delle Agenzie fiscali, ha espressamente attribuito un potere di autoregolamentazione all’Agenzia delle entrate. L’art. 57, comma 1, in particolare, ha previsto che ‘alle agenzie fiscali sono trasferiti i relativi rapporti giuridici, poteri e competenze che vengono esercitate secondo la discipli na dell’organizzazione interna di ciascuna agenzia’. L’art. 61, comma 2, ha poi aggiunto che ‘in conformità con le disposizioni del presente decreto legislativo e dei rispettivi statuti, le agenzie fiscali hanno autonomia regolamentare, amministrativa, patrimoniale, organizzativa, contabile e finanziaria’, indicazione poi ripresa dal successivo art. 66, il cui comma 1 ha previsto che ‘Le agenzie fiscali sono regolate dal presente decreto legislativo, nonché dai rispettivi statuti deliberati da ciascun comit ato di gestione’, il comma 2 ha aggiunto che ‘gli statuti … recano principi generali in ordine all’organizzazione e al funzionamento dell’Agenzia’ e, al comma 3, che ‘l’articolazione degli Uffici a livello centrale e periferico, è stabilita con disposizioni interne che si conformano alle esigenze della conduzione aziendale’. In base a tale quadro normativo, quindi, il Regolamento di amministrazione dell’Agenzia delle entrate ha previsto che le Direzioni Regionali ‘…esercitano, nell’ambito della risp ettiva regione
RGN 6758/2020
o provincia, funzioni di programmazione, indirizzo, coordinamento e controllo nei confronti degli uffici, curano i rapporti con gli enti pubblici locali e svolgono attività operative di particolare rilevanza nei settori della gestione dei tributi, dell’acc ertamento e del contenzioso.’. In base a ciò, con provvedimento 23 febbraio 2001, n. 36122 (pubblicato nella G.U., serie generale n. 151 del 2 luglio 2001, parimenti richiamato dall’Agenzia in controricorso) il Direttore dell’Agenzia delle entrate ha stabilito esplicitamente la competenza anche delle Direzioni regionali all’attività di verifica. Tale esito, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, non si pone in contrasto con i principi costituzionali in tema di riserva di legge in materia fiscale, riservatezza e inviolabilità del domicilio sanciti dall’art. 14 Cost. – il cui terzo comma, a tutela del domicilio, ammette ispezioni e accertamenti fiscali alle condizioni stabilite da leggi speciali – posto che la ripartizione delle competenze degli organi operata dal Direttore dell’Agenzia delle entrate costituisce diretta attuazione dei poteri conferiti dal d.lgs. n. 300 del 1999. Ne deriva, inoltre, che l’espressa abrogazione dell’art. 62 sexies d.l. n. 331 del 1993 – da ritenersi necessaria in ragione dell’originaria collocazione delle Direzioni regionali nel Ministero delle Finanze – non può in alcun modo avere amputato i poteri delle Direzioni regionali regolati dal Direttore dell’Agenzia delle entrate, risultando i poteri di accesso, ispezione e verifica già ex lege in capo all’Agenzia delle entrate nel suo complesso e già attribuiti in via generale dagli artt. 52 d.P.R. n. 633 del 1972 e 33 d.P.R. n. 600 del 1973 e dalla medesima esercitati secondo la disciplina adottata nell’ambito dei poteri di autorganizzazione. Da ultimo, va sottolineato, quanto all’intervento operato con l’art. 27 d.l. n. 185 del 2008, che il legislatore non ha inteso attribuire ‘alle Direzioni Regionali delle Entrate una competenza in materia di accertamento fiscale prima inesi stente’, ma solamente ‘fondare su norma di fonte primaria il riparto delle competenze relative all’attività di verifica fiscale, istituendo una riserva esclusiva di competenza, in relazione alla rilevanza economico fiscale del soggetto accertato, a favore della Direzione regionale, già titolare, per disposizione regolamentare, della competenza a svolgere attività istruttoria, utilizzabile dalle Direzioni provinciali ai fini della emissione degli atti impositivi’ (v. Cass. n. 33289 del 21/12/2018 cit.). Da ciò, in conclusione, la legittimità
dell’attività d’indagine e dell’avviso di accertamento emesso in base a
processo verbale della Direzione regionale delle entrate.» (così, Cass., 8 ottobre 2020, n. 21694; vedi anche 21 dicembre 2018, n. 33289).
In definitiva, le ragioni rappresentate dalla contribuente con i due motivi ora vagliati, tanto sotto l’aspetto della omessa pronuncia del giudice d’appello, quanto sotto il profilo della interpretazione della disciplina, si rivelano del tutto destituite di fondamento.
Con il quarto motivo la società si duole della violazione e falsa applicazione della l. 212 del 2000, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4 c.p.c. La decisione della Commissione regionale non si sarebbe pronunciata sulla mancata attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, e sulla nullità conseguente dell’atto impugnato.
Il motivo è infondato.
Intanto la stessa ricorrente espone che l’atto impugnato, emesso in data 29.11.2013, «scaturisce» da un processo verbale di constatazione effettuato in data 25.7.2008 (v. pag. 1 del ricorso); inoltre, per la verifica, che aveva riguardato più annualità, la parte era stata già interessata a presentarsi per i precedenti anni d’imposta, aderendo all’invito (ciò sin dal 2011), mentre, quanto al processo verbale dell’anno interessato dal presente contenzioso, l’ufficio ha evidenziato che alla consegna dello stes so alla contribuente, questa aveva formulato istanza di accertamento con adesione ex art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 218 del 1997; infine, la stessa CTR, con accertamento in fatto incensurabile nel giudizio di legittimità, dà atto « che la parte aveva partecipato alla redazione del pvc (..) e che gli atti erano conosciuti dalla parte..».
Ma, anche a prescindere da tali elementi, questa Corte, con riguardo alla disciplina ratione temporis vigente – e dunque nella disciplina applicabile prima dell’entrata in vigore dell’art. 6 bis della l. n. 212 del 2000, come introdotto dall’art. 1, comma 1, lett. e) del d.lgs. n. 219 del 2023, a sua volta richiamato e interpretato ex artt. 7 e 7 bis del d.l. n. 39 del 2024, convertito con mod. in l. n. 67 del 2024- ha affermato che, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente
pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito (Sez. U, 9 dicembre 2015, n. 24823). Si tratta di un orientamento ormai consolidato, secondo la legislazione ratione temporis vigente, ribadito dalla giurisprudenza di legittimità (da ultimo Sez. U, 25 luglio 2025, n. 21271), e al quale anche questo collegio intende dare continuità.
Dal perimetro dell’obbligo del contraddittorio restano dunque fuori le imposte non armonizzate, salvo una espressa prescrizione legislativa e, quanto all’iva e a quelle armonizzate, le fattispecie in cui il contribuente non superi la prova di resistenza, ossia quando sia evidente che le ragioni che il contribuente lamenta di non aver fatto valere in occasione di un contraddittorio endo-procedimentale -qualora attuatonon avrebbero comunque determinato l’annullamento dell’atto adottato al termine del procedimento amministrativo, rivelandosi pertanto meramente dilatorie. Il che, può aggiungersi, non vuol significare che alle parti del procedimento amministrativo (Amministrazione e contribuente) debba richiedersi nella fase endo-procedimentale capacità di critica e valutazione delle complessive allegazioni documentali, pari a quelle demandate all’organo giudiziario in sede processuale, ma che la serietà e pertinenza delle allegazioni del contribuente, qualora vagliate dall’Amministrazione finanziaria all’esito della verifica e prima della notificazione dell’atto impositivo, avrebbero potuto incidere sul se e sul contenuto di questo, se celebrato il contraddittorio. Ciò che infatti rileva è la prova che la celebrazione del contraddittorio “avrebbe potuto comportare un risultato diverso” (cfr. Corte di Giustizia UE, 3 luglio 2014, in causa C-129 e C-130/13, RAGIONE_SOCIALE).
Peraltro, è utile chiarire che, se il contraddittorio endo-procedimentale è obbligatorio per le imposte armonizzate, e comunque ogni qual volta esso si riveli necessario, ciò tuttavia non implica l’insorgenza di un obbligo dell’Agenzia delle entrate di ‘audizione’ del contribuente, cioè non implica un obbligo di convocazione, soprattutto se mancano del tutto i presupposti da cui l’organo accertatore possa evincere l’intenzione del contribuente di contraddire sugli esiti della verifica. Quello che invece risulta indispensabile
è che il contribuente sia reso edotto delle emergenze della verifica, prima
della emissione dell’atto impositivo, per l’emissione del quale l’ufficio deve attendere i termini prescritti dall’art. 12, comma 7, della l. 212 del 2000.
Con il quinto motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 42, d.P.R. 600 del 1973, dell’art. 56, d.P.R. n. 633 del 1972, dell’art. 97 Cost., dell’art. 7, l. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c. La Commissione regionale erroneamente non avrebbe rilevato la nullità dell’atto impositivo, del tutto carente di motivazione.
Il motivo è contraddetto dalla motivazione della sentenza impugnata, di cui questo collegio ha dato atto nella sintesi riportata nella parte dedicata ai ‘fatti di causa’. Al contrario di quanto assume la difesa della contribuente, il giudice d’appello ha i nvece motivato esaustivamente le ragioni di rigetto delle censure della società, e in particolare, oltre che esaminare specifiche questioni e chiarire i presupposti per i quali l’Agenzia aveva proceduto alla determinazione dell’imponibile mediante accertam ento induttivo, ha anche evidenziato che lo stesso atto impositivo era stato correttamente motivato per relationem alla documentazione acquisita nel corso della verifica, con ciò mostrando attenzione ad ogni aspetto delle critiche già -inutilmentesollevate dalla ricorrente.
Con il sesto motivo la società ha censurato la decisione ora al vaglio della Corte per violazione e falsa applicazione dell’art. 12, l. n. 212 del 2000, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c. Il giudice d’appello non si sarebbe pronuncia to sulla nullità dell’atto impositivo per inutilizzabilità degli elementi di prova raccolti nell’ambito di una verifica conclusasi ad oltre un anno dal suo inizio.
Il motivo è infondato, sia perché la violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dall’art. 12, comma 5, della l. n. 212 del 2000, non determina la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo, né l’invalidità degli atti compiuti o l’inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del contribuente costituzionalmente tutelati (Cass., 1 marzo 2022, n. 6779; 27 gennaio 2017, n. 2055), sia, soprattutto, perché il comma 5 dell’art. 12 della l.
n. 212 del 2000, nel
fissare agli
operatori civili
o
militari
RGN 6758/2020
dell’Amministrazione finanziaria il termine di trenta giorni lavorativi (successivamente prorogabile) di permanenza presso la sede del contribuente, si riferisce ai soli giorni di effettiva attività lavorativa ivi svolta, escludendo, quindi, dal computo quelli impiegati per verifiche ed attività eseguite in altri luoghi (Cass., 12 maggio 2017. N. 11878; 11 novembre 2011, n. 23595).
Con il settimo motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c. La pronuncia non avrebbe fatto applicazione del principio dell’onere della prova, che nel caso di specie ricadeva sull’amministrazione finanziaria, e che imponeva a quest’ultima l’onere di provare in giudizio il fondamento delle contestazioni elevate nei confronti della società.
Il motivo, per quel che si comprende, pone in dubbio che l’Agenzia abbia dato prova delle ragioni erariali in sede processuale, e ciò a prescindere dalla ritualità e completezza dell’avviso d’accertamento.
Esso è destituito di ogni fondamento perché la sentenza impugnata, per quanto già chiarito, mette in rilievo nella sua motivazione esaustiva, le ragioni e le prove per le quali il giudice regionale ha ritenuto di condividere le contestazioni elevate dall’A genzia delle entrate.
Con l’ottavo motivo la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 e 167 c.p.c., e dell’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c. Il giudice regionale non avrebbe tenuto co nto che, con riferimento all’anno d’imposta 2006, pur riconducibile alla medesima verifica, la commissione provinciale aveva annullato l’atto impositivo.
La censura è priva di pregio, attesa la consolidata giurisprudenza in tema, cui questo collegio intende dare continuità, secondo la quale la sentenza del giudice tributario, con la quale si accertano il contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato anno d’imposta fa stato, nei giudizi relativi ad imposte dello stesso tipo dovute per gli anni successivi, ove pendenti tra le stesse parti, solo per quanto attiene a quegli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi di imposta, assumano carattere tendenzialmente permanente, mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando l’accertamento relativo ai diversi anni si fondi su presupposti di fatto relativi
a tributi differenti ed a diverse annualità. Infatti, l’efficacia di giudicato della pronuncia definitiva, resa tra le stesse parti in relazione ad una determinata annualità d’imposta, estende i suoi effetti anche alle altre, nel caso in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno durata pluriennale e sono idonei a produrre effetti lungo un arco temporale che comprende più periodi d’imposizione, potendo perciò essere trattati come un unico periodo d’imposta (Cass., 8 aprile 2015, n. 6953; 7 dicembre 2021, n. 38950; 24 maggio 2022, n. 16684).
Al di là della assorbenza dei principi enunciati nei precedenti richiamati, è qui appena il caso di evidenziare che la difesa della contribuente ha menzionato, quale precedente che a suo dire avrebbe dovuto essere tenuto in considerazione dalla Commissione regionale, una sentenza emessa dalla Commissione di primo grado per l’anno d’imposta precedente, di cui non si rileva neppure se passata o meno in giudicato.
Con il nono motivo si denuncia la nullità della sentenza ex artt. 36, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, 112 c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. La sentenza emessa dal giudice regionale sarebbe nulla, perché viziata da extrapetizione e da omessa pronuncia per non aver motivato su punti essenziali della controversia e non aver espresso le ragioni di fatto e di diritto della decisione; in particolare, non era stato rilevato che l’Ufficio aveva emesso un accertamento induttivo puro in assenza dei presupposti di legge acquisendo dati in modo errato e parziale (non tenendo conto del costo del personale desumibile dal mod. 770 già in suo possesso).
Il motivo va disatteso per svariate ragioni. Intanto, è inammissibile, sia per la sua estrema genericità e la carenza di specificità e autosufficienza in ordine agli asseriti vizi di extrapetizione ed omessa pronuncia, sia perché tenta di rimettere in dis cussione l’apprezzamento in fatto, laddove denunzia (sempre genericamente) vizi di merito dell’accertamento. Inoltre, il motivo è infondato per quanto già chiarito con la trattazione, ed il rigetto, dei motivi secondo, quinto e settimo, a cui può aggiungersi che la decisione impugnata non ha travalicato i limiti del tema sottoposto al suo esame, confermando l’operato dell’Ufficio, che «a fronte dell’omessa tenuta delle scritture contabili prescritte dall’art. 1, comma 4, lett. c, ha proceduto ad accertare i l reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie raccolte o venute a
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conoscenza con facoltà di prescindere il tutto dalle risultanze di bilancio e dalle scritture contabili esistenti o di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lett. ‘d’ del citato art. 39 del dpr 600/73».
Con il decimo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione della l. 241 del 2000 e dell’art. 97 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La commissione regionale ha omesso di rilevare che nessuno degli atti citati nelle motivazio ni dell’avviso d’accertamento fosse stato allegato al medesimo, né prodotto nel corso del giudizio.
Il motivo, che è già inammissibile perché, ai fini della sua specificità, manca ogni riferimento al grado di merito e all’atto difensivo in cui la questione avrebbe dovuto essere eventualmente sollevata (e cioè sin dal primo grado di giudizio), è in ogni caso infondato per le ragioni espresse in riferimento al rigetto del quinto motivo.
Con l’undicesimo motivo ci si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, dell’art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4, c.p.c. l’accertamento induttivo posto in essere dall’ufficio sarebbe illegittimo perché l’Agenzia delle entrate si sarebbe limitata a estrarre dati parziali dall’anagrafe tributaria quantificando costi e ricavi in maniera apodittica e illogica.
Il motivo è intanto inammissibile sia perché con esso si tenta di sollecitare nel concreto un accertamento in fatto dinanzi alla Corte di legittimità, sia perché non è neppure specificato quando la questione sia stata mai sollevata nei gradi di merito.
In ogni caso e per completezza, ove con la critica elevata con questa censura si sia voluto invocare un cattivo governo delle prove presuntive, va ribadito che sulla modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, deve innanzitutto ribadirsi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 cod. civ. alla fattispecie concreta, poiché se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 cod. civ. per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso
del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (Cass., 26 gennaio 2007, n. 1715; 5 maggio 2017, n. 10973; 15 novembre 2021, n. 34248; cfr. anche, 13 ottobre 2005, n. 19984). Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertati dalla amministrazione (Cass., 8 aprile 2009, n. 8484; 15 gennaio 2014, n. 656; 26 settembre 2018, n. 23153; 28 aprile 2021, n. 11162), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.
La giurisprudenza di legittimità ha comunque tracciato il corretto procedimento logico che il giudice di merito deve seguire nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorché preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perché è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento ( ex multis , cfr. Cass., 16 maggio 2017, n. 12002; 12 aprile 2018, n. 9059; 25 ottobre 2019, n. 27410). Ciò che pertanto rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.
Ebbene, nel caso di specie il giudice regionale, a fronte degli elementi addotti dall’Agenzia delle entrate, che per quanto già sottolineato nelle precedenti pagine sul contenuto della motivazione della sentenza d’appello, si concretizzavano in più indizi e non in uno solo, ha ritenuto provate le contestazioni elevate nei confronti della società.
Anche questo motivo, dunque, è del tutto privo di riscontri e va rigettato. In definitiva il ricorso va rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono le regole della soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.
La Corte, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso; condanna la società ricorrente al pagamento delle spese processuali, che liquida in favore dell’Agenzia delle entrate in € 10.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’a rt. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, all’esito dell’adunanza camerale del 9 luglio 2025
Il Presidente