Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 20411 Anno 2024
Civile Sent. Sez. 5 Num. 20411 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 23/07/2024
SENTENZA
sul ricorso n. 25911/2016 proposto da:
COGNOME NOME, rappresentato e difeso, congiuntamente e disgiuntamente, dall’AVV_NOTAIO e dall’AVV_NOTAIO, presso il cui studio è elettivamente domiciliato, in Roma, INDIRIZZO, in forza di delega in calce al ricorso per cassazione.
-ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’RAGIONE_SOCIALE, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla INDIRIZZO.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 2164/16, depositata in data 12 aprile 2016, non notificata;
udita la relazione della causa udita svolta nella pubblica udienza del 12 marzo 2024, dal Consigliere NOME COGNOME;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore RAGIONE_SOCIALE, AVV_NOTAIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
FATTI DI CAUSA
La Commissione tributaria provinciale di Bergamo, con sentenza n. 123/2013, aveva rigettato il ricorso proposto da COGNOME NOME, titolare dell’impresa individuale RAGIONE_SOCIALE, avverso l’avviso di accertamento, con il quale , per l’anno di imposta 20 07, l’Ufficio aveva rideterminato con metodo induttivo il reddito di impresa a seguito dell’inattendibilità della documentazione contabile e dell’emissione di fatture per operazioni inesistenti .
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello del contribuente sulla base RAGIONE_SOCIALE seguenti considerazioni:
-) l’avviso di accertamento risultava validamente motivato sotto ogni aspetto e conteneva l’indicazione dettagliata degli elementi assunti a riferimento della pretesa impositiva, individuati nella discrepanza risultante a livello contabile e di dichiarazione dei redditi tra . il volume di affari dichiarato dalla RAGIONE_SOCIALE e quello risultante dal controllo eseguito attraverso gli elenchi clienti e fornitori, nelle movimentazioni bancarie prive di giustificazione, nella incompatibilità tra l’elevato volume d’affari emerso e nella realtà aziendale della ditta individuale, che non aveva dichiarato dipendenti e con beni strumentali indicati negli studi di settore per euro 18.609,00;
-) era motivata la ragione dell’utilizzo RAGIONE_SOCIALE strumento dell’accertamento induttivo, individuata dall’RAGIONE_SOCIALE nel fatto che dai dati raccolti e sopra descritti risultava l’inesistenza di una
struttura tale da poter realizzare un volume di affari pari a quello emerso dagli elenchi dei clienti o comunque dalle movimentazioni bancarie;
-) era motivato il ragionamento che aveva portato l’Ufficio a determinare induttivamente il reddito di impresa in misura pari al 50% del risparmio di imposta conseguito dai destinatari RAGIONE_SOCIALE fatture fittizie; -) era motivato il recupero ai fini IVA, con la determinazione della base imponibile in misura pari all’ammontare RAGIONE_SOCIALE operazioni risultanti dagli elenchi clienti, in applicazione dell’art. 21, comma settimo, del d.P.R. n. 633 del 1972, norma anch’essa richiamata nell’avviso di accertamento; -) sussistevano i presupposti per l’accertamento induttivo e, nel caso di specie, per il 2007, a fronte di un volume d’affari dichiarato in euro 21.650,00, risultavano fatturate prestazioni per euro 6.078.341,00, nonché movimenti bancari per euro 13.192.995,97 e prestazioni compiute in assenza di dipendenti e con beni strumentali inferiori ai ventimila euro; -) sussistevano, inoltre, anche i presupposti per operare ai sensi del del d.P .R. n. 600 del 1973, in quanto l’avviso di accertamento scaturiva dal controllo
combinato disposto degli artt. 39 comma secondo e 41 bis eseguito nei confronti di altra società, la RAGIONE_SOCIALE;
-) era legittimo che mediante lo strumento accertativo induttivo il reddito di impresa fosse stato determinato nel risparmio di imposta derivante dall’emissione RAGIONE_SOCIALE fatture e che detto risparmio fosse stato imputato ad emittente e destinatario nella misura del 50% ciascuno, stante l’assenza di prova da parte del contribuente di pattuizioni che consentivano una attribuzione non paritaria dei proventi;
-) il criterio adottato dall’RAGIONE_SOCIALE rispettava evidenti criteri di proporzionalità al punto che l’impugnazione del contribuente appariva carente di reale interesse, considerato che una riforma sul punto portava a conseguenze più gravose; ed invero, accogliendo la tesi dell’appellante che «unici elementi invero utilizzabili» potevano essere i movimenti bancari, ne scaturiva un accertamento dieci volte superiore a quello
operato dall’Ufficio, in quanto il reddito accertabile non poteva essere determinato nella differenza tra entrate ed uscite perché l’art. 32 del d.P .R. n. 600 del 1973 introduceva una presunzione legale in base alla quale sia le somme prelevate che quelle versate su conti e depositi riconducibili ad esercenti attività imprenditoriale costituivano di per sé compensi assoggettabili a tassazione se non erano annotati contabilmente;
-) l’applicazione di tale presunzione avrebbe portato ad imputare al contribuente ricavi per euro 13.192.995,97 (pari alla somma di versamenti e prelevamenti), rispetto a quella determinata induttivamente per euro 1.862.688,98).
La Commissione tributaria regionale, con riferimento all’Iva, ha affermato che, ai sensi dell’art. 21, comma settimo, d.P .R. n. 633 del 1972, l’imposta era dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura e che era infondata l’eccezione di incostituzionalità del citato comma settimo dell’art. 21 del d.P .R. n. 633 del 19722, in quanto la correlazione tra prelievo e detrazione era determinata dalla introduzione della fattura (recante dati non corrispondenti alla effettiva realtà della operazione) nella operatività del sistema dell’IVA, che non tollerava che la medesima fattura, una volta «emessa», potesse legittimare l’esercizio del diritto alla detrazione d’imposta, ma non anche la riscossione della imposta.
COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
L’RAGIONE_SOCIALE resiste con controricorso.
La Procura RAGIONE_SOCIALE ha depositato memoria con la quale chiede il rigetto del ricorso.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il primo motivo deduce la violazione e falsa applicazione di legge, con riferimento agli artt. 39 e 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973.La Commissione tributaria regionale non aveva valutato
correttamente la portata RAGIONE_SOCIALE censure mosse dal COGNOME sia in primo grado che in grado di appello, avverso l’avviso di accertamento opposto, che vertevano e vertono, non già sull’utilizzo dell’accertamento induttivo del reddito da parte dell’Amministrazione Finanziaria (per quanto nemmeno correttamente motivato), bensì (oltre che sulla esistenza RAGIONE_SOCIALE operazioni poste a base RAGIONE_SOCIALE fatture ritenute fittizie), anche sulle modalità di calcolo del presunto maggior reddito in aperta violazione degli artt. 39 e 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, con ciò addossando al COGNOME l’onere probatorio, teso a provare l’inesistente, in quanto mai verificatosi. Ed invero, l’attività svolta era vera e reale e anche le fatture emesse lo erano, come poi era stato riconosciuto dalla stessa RAGIONE_SOCIALE per gli anni d’imposta successivi (2008 e 2009). L’Ufficio, invero, nel presumere un reddito sulla base di ipotetiche logiche spartitorie ed in percentuale paritaria tra soggetto emittente le fatture e soggetto beneficiario, non aveva fatto corretta applicazione della norma di cui all’art. 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, non essendosi avvalso di elementi rilevabili dall’anagrafe tributaria o da accertamenti svolti dagli uffici e che, in automatico, comportavano la determinazione induttiva di un determinato reddito imponibile non dichiarato, ma, più semplicemente, di un mero ragionamento basato su presunzioni giustificate ex art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, ma del tutto sfornite di qualsivoglia suffragio. Laddove l’Amministrazione finanziaria avesse considerato (come poi aveva fatto per gli anni successivi), le fatture emesse dal COGNOME riferite ad operazioni esistenti, il reddito che ne sarebbe stato determinato induttivamente, avrebbe dovuto tenere conto anche RAGIONE_SOCIALE componenti negative del reddito. Non era affatto vero che la diversa modalità di calcolo determinata sulle fatture emesse e tutte riscontrate dall’Amministrazione finanziaria sarebbe stata peggiorativa per il contribuente COGNOME, in particolar modo se si
consideravano i prelievi operati sui rapporti di conto corrente, quali componenti negative del reddito, che, come detto, per la stessa Amministrazione finanziaria avevano un’incidenza, nell’ambito dell’attività del COGNOME, ben superiore al 90% del fatturato. Non si poteva, dunque, ritenere legittima una determinazione reddituale fondata su asseriti e fantasiosi accordi spartitori tra emittente e beneficiario RAGIONE_SOCIALE fatture ritenute fittizie, non potendo certamente rientrare una tale modalità in quell’ambito di ragionevolezza e prudenza che non poteva mai mancare. Né si potevano operare indebite inversioni dell’onere della prova a carico del contribuente, in particolar modo in riferimento a pattuizioni date per presunte da parte dell’Ufficio.
1.1 Il motivo è infondato.
1.2 Va precisato che, come emerge dal ricorso per cassazione, la violazione contestata dall’Ufficio nell’avviso di accertamento impugnato in questa sede, ai fini RAGIONE_SOCIALE imposte dirette, è stata quella di « presentazione di dichiarazione infedele per l’indicazione di un reddito imponibile inferiore a quello accertato o di un’imposta inferiore a quella dovuta » e, ai fini Iva, la presentazione di « dichiarazione con imposta inferiore a quella dovuta ». Nello specifico, l’Ufficio aveva accertato che, a fronte di un volume di affari dichiarato di euro 19.900,00, avesse emesso fatture per un importo di euro 5.680.853,00 per l’anno 2006, mentre per l’anno 2007, a fronte di un volume d’affari IVA di euro 21.650,00, un importo fatturato per euro 6.078.341,00, come da RAGIONE_SOCIALE che i titolari di partita IVA erano allora tenuti a trasmettere telematicamente agli uffici dell’RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE. Dopo avere invitato sia il COGNOME che sua moglie, NOME COGNOME, a presentarsi presso i propri uffici al fine di fornire le loro deduzioni in merito ai rapporti e alle operazioni bancarie trasmesse dai vari istituti di credito, entrambi i coniugi, con diverse motivazioni, si erano dichiarati non disponibili all’incontro,
cosicché l’Ufficio, a norma dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, ai fini dell’imposizione diretta e dell’art. 51 del d.P.R. n. 633/72 ai fini IVA, aveva posto a base del suo accertamento, tutti i prelevamenti e tutti i versamenti non idoneamente giustificati, complessivamente assommanti ad euro 13.192.995,97. Inoltre, l’Ufficio aveva desunto la sussistenza di elementi gravi, precisi e concordanti per affermare l’inesistenza di una struttura tale da poter realizzare un volume di affari pari a quello emergente dagli RAGIONE_SOCIALE dei RAGIONE_SOCIALE o da quello risultante dai conti bancari per cui aveva ritenuto che le prestazioni poste in essere dalla RAGIONE_SOCIALE COGNOME si riferivano senz’altro ad operazioni inesistenti e aveva determinato un reddito ai fini Irpef e Irap, non dichiarato, pari ad euro 1.862.688,98, ipotizzando una ripartizione paritaria (50%), tra il predetto e i soggetti beneficiari RAGIONE_SOCIALE suddette fatture, del beneficio d’imposta conseguito da questi ultimi, e ai fini IVA, la relativa imposta che tali soggetti avevano omesso di versare per effetto RAGIONE_SOCIALE compensazioni di riferimento.
1.3 Ancora deve osservarsi che il ricorrente ha chiarito che le censure che erano stato formulate nei giudizi di merito non vertevano sull’utilizzo dell’accertamento induttivo del reddito da parte dell’Amministrazione Finanziaria, ma riguardavano, piuttosto, sia l’esistenza RAGIONE_SOCIALE operazioni poste a base RAGIONE_SOCIALE fatture ritenute fittizie, sia le modalità di calcolo del presunto maggior reddito in aperta violazione degli artt. 39 e 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, in quanto le fatture emesse erano reali e così l’attività svolta. Inoltre, l’Ufficio non aveva fatto corretta applicazione della norma di cui all’art. 41 bis del d.P.R. n. 600 del 1973, presumendo un reddito sulla base di ipotetiche logiche spartitorie ed in percentuale paritaria tra soggetto emittente le fatture e soggetto beneficiario, in quanto non si era avvalso di elementi rilevabili dall’anagrafe tributaria o da accertamenti svolti dagli uffici. Laddove l’Ufficio avesse
considerato le fatture emesse dal COGNOME riferite ad operazioni esistenti, il reddito che ne sarebbe stato determinato induttivamente, avrebbe dovuto tenere conto anche RAGIONE_SOCIALE componenti negative del reddito. Come si legge nel ricorso per cassazione, il COGNOME con il primo motivo di appello aveva censurato la motivazione di primo grado « con riferimento alle modalità di determinazione del presunto suo reddito » e aveva riproposto le eccezioni già svolte in primo grado « sulle modalità utilizzate dall’Ufficio per la determinazione presuntiva del reddito, tutt’altro che scrutinate dal primo Giudice con riferimento alla arbitraria ripartizione al 50% dell’asserito e fantasioso beneficio d’imposta dei destinatari RAGIONE_SOCIALE fatturazioni ritenute prive di rapporto sottostante». Si legge, poi, a pag. 2 della sentenza impugnata che « Appella il contribuente precisando che la contestazione della mancanza di motivazione dell’atto impositivo è riferita all’iter giuridico seguito dall’RAGIONE_SOCIALE per pervenire alla pretesa impositiva. Rileva non essere esplicitato perché se le fatture vengono considerate fittizie i ricavi vengono considerati reali. In ogni caso, sostiene di avere provato l’effettività RAGIONE_SOCIALE prestazioni erogate e di conseguenza il reddito andava rideterminato ex art. 41 bis DPR 600/73, che non consente di ricorrere a determinazioni presuntive. Priva di motivazione era anche l’individuazione dei maggiori ricavi nella misura del 50% del risparmio di imposta dei fruitori RAGIONE_SOCIALE fatture che si reputano inesistenti».
1.4 Tutto ciò premesso, deve rilevarsi che l’accertamento induttivo puro o extracontabile opera quando la rettifica del reddito d’impresa prescinde in tutto o in parte dalle risultanze contabili. Come è stato precisato dalla dottrina, il metodo induttivo è basato su un procedimento logico diretto a costruire l’imponibile globale senza analizzarne le singole parti semplici, bensì impiegando nella costruzione tutte le notizie, le prove ed i dati anche soltanto extracontabili comunque raccolti e proprio perché tale strumento legittima l’Ufficio alla rettifica del reddito con un minor rigore rispetto
all’accertamento analitico o a quello misto, l’induttivo è potenzialmente il metodo più lesivo dei diritti del contribuente ed il suo utilizzo è legittimo solo se ricorrono le condizioni tassative previste dall’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, al verificarsi RAGIONE_SOCIALE quali il reddito può essere determinato: 1) sulla base dei dati e RAGIONE_SOCIALE notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza dell’ufficio, con la facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e RAGIONE_SOCIALE scritture contabili; 2) utilizzando presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
1.5 Questa Corte, in particolare, ha precisato che il discrimine tra l’accertamento con metodo analitico-induttivo e quello con metodo induttivo puro sta, rispettivamente, nella parziale o assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, l’incompletezza, falsità o inesattezza degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, in quanto l’Ufficio accertatore può solo completare le lacune riscontrate, utilizzando ai fini della dimostrazione dell’esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all’art. 2729 c.c., ovvero gravità, precisione e concordanza (c.d. presunzioni qualificate); nel secondo caso, invece, le omissioni o le false o inesatte indicazioni risultano tali da inficiare l’attendibilità -e dunque l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), sicché l’Amministrazione finanziaria può prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e RAGIONE_SOCIALE scritture contabili in quanto esistenti ed è legittimata a determinare l’imponibile in base a elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva, c.d. presunzioni supersemplici (Cass., 9 maggio 2022, n. 14676; Cass., 1 aprile 2022, n. 10583; Cass., 16 marzo 2020, n. 7290; Cass., 18 dicembre 2019, n. 33604). La ricorrenza dei presupposti per l’accertamento induttivo (anche nell’ipotesi di inattendibilità dell’intera contabilità), peraltro, non
comporta l’obbligo dell’Ufficio di avvalersi di tale metodo di accertamento, ma costituisce una mera facoltà che non preclude la possibilità di procedere a una valutazione analitica dei dati comunque emergenti dalle scritture contabili dell’imprenditore (Cass., 8 marzo 2022, n. 7604). In sostanza, la scelta di ricorrere a un metodo accertativo piuttosto che a un altro spetta al Fisco, in presenza dei presupposti di legge, senza che il contribuente abbia titolo a dolersi della scelta operata, in assenza di peculiari situazioni pregiudizievoli (Cass., 3 febbraio 2017, n. 2872).
1.6 Tuttavia, per quel che rileva specificamente in questa sede, questa Corte ha affermato che la scelta del metodo accertativo incide sul regime probatorio dei costi relativi ai maggiori componenti positivi accertati ed infatti, con l’adozione del metodo induttivo puro, l’Ufficio è tenuto a determinare i costi forfettari/induttivi afferenti ai ricavi accertati e che, in tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo puro ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario (Cass., 10 gennaio 2022, n. 394; Cass., 26 marzo 2021, n. 8613; Cass., 9 giugno 2020, n. 10968). Pertanto, solo in relazione all’accertamento globale induttivo del reddito d’impresa vale sempre la regola che il Fisco deve ricostruire il reddito, tenendo conto anche RAGIONE_SOCIALE componenti negative emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinandole induttivamente e/o presuntivamente, al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva, venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto (Cass., 23 ottobre 2018, n. 26748; Cass., 26 giugno 2019, n. 17189; Cass., 30 giugno
2020, n. 13119). Il che, ben si raccorda, come ha detto questa Corte, con le stesse indicazioni di prassi del fisco, secondo cui, in queste fattispecie, « l’ufficio non può non tener conto, … , di un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei … ricavi accertati… e il riconoscimento di costi deve essere livellato – anche in misura percentualistica – in ragione dei … ricavi accertati… » (Circolare dell’Ageniza RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE, n. 32/E/2006) e «… sul piano RAGIONE_SOCIALE fonti internazionali, con l’art. 7 (§3) del MoRAGIONE_SOCIALE OCSE e con l’art. 7 (§3) della Conv. Italia-Egitto, laddove si precisa che nella determinazione del reddito della stabile organizzazione vanno considerati anche gli oneri per gli scopi perseguiti (es. direzione, spese generali), e con il Comm. OCSE, sub art. 7 (§ 15), laddove si effettuano talune esemplificazioni estimative » (Cass., 4 febbraio 2021, n. 2581). Né a ciò è di ostacolo l’articolo 109 del d.P.R. n. 917 del 1986), in base al quale i costi sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano imputati al conto economico, in quanto la norma non è applicabile in caso di rettifica induttiva, in cui alla ricostruzione dei ricavi deve corrispondere un’incidenza percentuale dei costi (Cass., 30 novembre 2017, n. 28740 e così anche la Circolare della RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE RAGIONE_SOCIALE 32/E/2006).
1.7 Più in particolare, questa Corte ha osservato che le norme sulla imposizione diretta, ispirata al principio costituzionale della capacità contributiva, non contemplano ipotesi di responsabilità fiscale «oggettiva», indipendente dall’esistenza di un reddito effettivo. Tale ipotesi, invece, si rinviene nella disciplina dei tributi indiretti, come l’Iva, che è dovuta per l’intero ammontare della fattura, anche se emessa per operazione inesistente, ai sensi dell’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, o l’imposta di registro, dalla quale non è dispensato l’autore di atto nullo o annullabile ex art. 38 del d.P.R. n. 131 del 1986 e che, inoltre, in presenza di una società che svolge attività di «cartiera», oggetto della imposizione diretta non sono i
ricavi, pacificamente inesistenti, risultanti da una contabilità riconosciuta fittizia, ma il reddito illecito può essere determinato sinteticamente, in base ai dati ed alle notizie comunque venuti in possesso dell’Ufficio che, in tal caso, è autorizzato a prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e RAGIONE_SOCIALE scritture contabili, e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (Cass., 20 novembre 2008, n. 27569, richiamata anche dal ricorrente).
1.8 E’ stato anche precisato che, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, devono essere applicate le presunzioni «super semplici», ai sensi dell’art. 41 del d.P.R. n. 600/1973, prive quindi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, con la conseguenza che deve presumersi che la società abbia avuto un vantaggio economico corrispondente all’importo di cui all’emissione RAGIONE_SOCIALE fatture (Cass., 17 luglio 2019, n. 19191, in motivazione).
1.9 Costituisce, infatti, principio consolidato di questa Corte quello per cui, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, i cui poteri trovano fondamento non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nell’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973 (cd. accertamento d’ufficio), può ricorrere a presunzioni cd. supersemplici, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 109 del d.P.R. n. 917 del 1986 in tema di accertamento dei costi, disciplinando tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente (Cass., 20 gennaio 2017, n. 1506) e che lo stesso principio di valorizzazione dei costi si applica anche alle
ipotesi di accertamento induttivo «puro» (come quella in esame), ai sensi dell’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, quando trovano applicazione le presunzioni prive dei requisiti di cui all’art. 39, comma 1, lettera d), del d.P .R. n. 600/1973 (in termini, Cass., 23 ottobre 2018, n. 26748, proprio tenendo conto del principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., e Cass., 19 febbraio 2009, n. 3995). 1.10 Pertanto, dei costi si deve tenere conto anche quando il reddito viene accertato con il metodo induttivo «puro» o, comunque, in conseguenza della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, in entrambi i casi utilizzandosi le presunzioni supersemplici. Ancor più di recente, è stato ribadito che, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, il potere -dovere dell’Amministrazione è disciplinato non già dell’art. 39, bensì dall’art. 41 del d.P.R. n. 600 del 1973, ai sensi del quale, sulla base dei dati e RAGIONE_SOCIALE notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, l’Ufficio determina il reddito complessivo del contribuente medesimo; a tal fine, esso può utilizzare qualsiasi elemento probatorio e può fare ricorso al metodo induttivo, avvalendosi anche di presunzioni cd. supersemplici cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 38, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, le quali determinano un’inversione dell’onere della prova, ponendo a carico del contribuente la deduzione di elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito (risultante dalla somma algebrica di costi e ricavi) non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (Cass., 17 giugno 2021, n. 17244, che richiama Cass., 18 luglio 2014, n. 16477 ed anche Cass., 17 luglio 2019, n. 19191, citata; Cass., 15 giugno 2017, n. 14930).
1.11 La Commissione regionale, dunque, ha fatto corretta applicazione dei principi suesposti con specifico riferimento alle modalità di determinazione del reddito imponibile, avuto riguardo anche al regime probatorio dei costi relativi ai maggiori componenti positivi accertati.
Infatti, come già detto, soltanto con l’adozione del metodo induttivo puro, l’Ufficio è tenuto a determinare i costi forfettari/induttivi afferenti ai ricavi accertati. Ed invero, il ricorso al metodo induttivo di cui all’art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, stante la valutazione di inattendibilità RAGIONE_SOCIALE scritture contabili operata dall’Ufficio, è stato correttamente ritenuto legittimo dal giudice d’appello, sicché, ai fini della determinazione del reddito, dovevano essere riconosciuti anche i costi, pure sulla base di presunzioni supersemplici, ovvero prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (comportanti, come già detto, l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente) e i giudici di secondo grado hanno ritenuto corretto il criterio adottato dall’RAGIONE_SOCIALE che aveva determinato il reddito di impresa nel risparmio di imposta derivante dall’emissione RAGIONE_SOCIALE fatture, imputando detto risparmio ad emittente e destinatario nella misura del 50% ciascuno, stante l’assenza di prova da parte del contribuente di pattuizioni che consentivano una attribuzione non paritaria dei proventi. Ne consegue che, nella vicenda in esame, ritenuto il carattere fittizio RAGIONE_SOCIALE operazioni fatturate, la determinazione del maggior reddito accertato (ovvero della materia imponibile occultata) correttamente è stata operata dall’Ufficio, come ritenuto dai giudici di merito, sulla base della presunzione che ha fatto riferimento al vantaggio fiscale che il contribuente aveva ottenuto mediante la deduzione dei costi inesistenti e ragionevole è stata, altresì considerata dai giudici di secondo grado, la distribuzione paritaria al 50% ciascuno di tale vantaggio fiscale tra tutti coloro che avevano partecipato alla realizzazione RAGIONE_SOCIALE operazioni oggettivamente inesistenti in danno dell’Erario. Né è dato comprendere, concordemente alla Procura RAGIONE_SOCIALE, come possano essere dedotti costi nella misura eguale ai prelevamenti bancari accertati, posto che gli stessi, contribuiscono alla formazione dei ricavi occultati ai sensi dell’art. 32 del d.P .R. n. 600 del 1973. Ed invero questa Corte, in proposito, ha affermato che «In tema di accertamento
RAGIONE_SOCIALE imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche RAGIONE_SOCIALE componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente, dovendosi, peraltro, escludere l’automatica inclusione, fra le componenti negative, RAGIONE_SOCIALE operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili» (Cass., 28 dicembre 2017, n. 31024; Cass., 28 novembre 2014, n. 25317, richiamate anche dalla Procura RAGIONE_SOCIALE). Dunque, la Commissione tributaria regionale, anche sotto questo specifico profilo, ha correttamente rilevato che un accertamento fondato esclusivamente sulla sommatoria di conferimenti e prelevamenti bancari sarebbe stato ancora più oneroso per il contribuente, posto che esso avrebbe determinato un recupero di base imponibile di gran lunga superiore a quello effettivamente operato.
2. Il secondo motivo deduce la violazione e falsa applicazione di legge, con riferimento all’art. 21, settimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, per non essersi correttamente applicata, da parte della Commissione tributaria regionale, tale normativa, nonostante la lettura costituzionalmente orientata proposta dal ricorrente e, ad abundantiam, la prospettata questione di legittimità costituzionale della stessa, non essendosi tenuto conto dell’IVA frattanto riscossa dalla Amministrazione finanziaria dai soggetti beneficiari RAGIONE_SOCIALE contestate fatture, con conseguente indebita duplicazione dell’imposta ritenuta evasa e illegittima pretesa nei confronti dell’odierno ricorrente. Poiché la contestazione dell’Ufficio
concerneva l’emissione di fatture fittizie per operazioni inesistenti, si doveva dare per certo che, analoghe contestazioni, fossero state mosse nei confronti di tutti i soggetti beneficiari RAGIONE_SOCIALE suddette fatture, con attività di recupero già avviate. Ciò peraltro inficiava la tesi della Commissione tributaria regionale secondo cui, la questione era irrilevante atteso il mancato pagamento dell’IVA da parte dell’odierno ricorrente, cosa che certamente valeva solo nell’ipotesi della rivalsa di quest’ultimo in relazione alle somme corrisposte a detto titolo e già analogamente corrisposte dai suoi coobbligati. La Commissione tributaria regionale aveva totalmente trascurato la portata della questione siccome prospettata, che ovviamente non concerneva più l’obbligo impositivo posto a carico del COGNOME, bensì e più semplicemente, il suo diritto (nel presupposto della pur contestata natura fittizia RAGIONE_SOCIALE fatture emesse), a vedere ridurre dalla pretesa impositiva di cui all’avviso di accertamento impugnato, tutte le somme frattanto versate dai suoi coobbligati solidali, non essendo previsto dalla norma alcun corrispondente obbligo di automatica riduzione e/o informativa da parte dell’Ufficio. Ciò che si era altresì omesso di considerare era che, nella fattispecie, la pretesa impositiva si connotava per il suo peculiare effetto dinamico, legato alle riscossioni che man mano venivano effettuate da parte dell’Ufficio a carico dei coobbligati, senza che tuttavia vi fosse un automatismo che permetteva al contribuente COGNOME di conoscere l’effettiva entità del proprio debito, così da poterlo finanche estinguere.
3. Il terzo motivo prospetta, in via subordinata, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, settimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, con riferimento agli artt. 3, 23, 53 e 97 della Carta Costituzionale, anche sulla base RAGIONE_SOCIALE norme di loro attuazione cd. Statuto del Contribuente (legge n. 212 del 2000) ed in particolare, dell’art. 2 rubricato « Chiarezza e trasparenza RAGIONE_SOCIALE disposizioni
tributarie». In assenza di previsione sanzionatoria dell’art. 21, comma 7, del d.P.R. n. 633 del 1972, il non prevedere alcuna automatica riduzione della pretesa impositiva per effetto di eventuali pagamenti effettuati dai coobbligati solidali si poneva in contrasto con le norme di rango costituzionale, violando il principio della trasparenza RAGIONE_SOCIALE norme tributarie e il diritto del contribuente ad estinguere il proprio debito, ove opportunamente ridotto di tutte – le somme frattanto riscosse dall’Ufficio nei confronti dei coobbligati solidali. Una lettura costituzionalmente orientata di tale norma doveva, Era corretto, sul piano del diritto e della tecnica tributaria, prevedere una sorta di beneficio della preventiva escussione a carico dei soggetti ritenuti beneficiari RAGIONE_SOCIALE fatture ritenute fittizie, in quanto legate ad operazioni inesistenti, cosicché l’Ufficio, prima di poter rivendicare la pretesa impositiva ai fini IVA, dal soggetto emittente tali fatture, doveva quantomeno avere esaurito l’ iter istruttorio (ed eventualmente contenzioso) RAGIONE_SOCIALE posizioni che avevano beneficiato del relativo credito IVA, così da dimostrare di avere effettivamente patito un danno.
3.1 I motivi, che vanno trattati unitariamente perché connessi, sono infondati.
3.2 L’art. 21, settimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, dispone che « Se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, ovvero se nella fattura i corrispettivi RAGIONE_SOCIALE operazioni o le imposte relativi sono indicate in misura superiore a quella reale, l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura ». Si tratta di una norma concorda con l’art. 21, § 1, lett. c), della direttiva n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977 (sesta direttiva), secondo cui l’IVA è dovuta da « chiunque indichi l’imposta sul valore aggiunto in una fattura o in una altro documento che ne fa le veci », disposizione quest’ultima che è stata ribadita dall’art. 203 della direttiva n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006.
3.3 Questa Corte ha rilevato che « In virtù dell’art. 21, settimo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, sul punto corrispondente all’art. 21, n. 1, lettera c) della sesta direttiva, chiunque esponga l’Iva in una fattura o in ogni altro documento che ne fa le veci è debitore di tale imposta. La previsione mira ad eliminare il rischio di perdita di gettito fiscale, che può derivare dall’esercizio del diritto di detrazione; rischio che, secondo la Corte di giustizia, sussiste «fintantoché il destinatario di una fattura che espone una Iva non dovuta possa utilizzarla al fine di siffatto esercizio» (Corte di Giustizia, sentenza 19 settembre 2000, in C454/08, RAGIONE_SOCIALE e RAGIONE_SOCIALE, punto 57) » e che « Il sistema, del resto, prevede come rimedio per il cessionario il diritto alla restituzione dell’importo pagato al cedente o prestatore a titolo di rivalsa, per cui l’Iva pagata va retrocessa al titolare del diritto al rimborso, comprendendo tale diritto l’intera prestazione ricevuta e divenuta indebita » (cfr. Cass., 30 giugno 2020, n. 13091, in motivazione).
3.4 Come è stato precisato dai giudici unionali, tale meccanismo di rettifica è parte integrante del sistema di detrazione dell’Iva poiché esso, nel favorire la precisione RAGIONE_SOCIALE detrazioni, garantisce la neutralità dell’Iva, così da assicurare che le operazioni compiute a monte seguitino a consentire l’esercizio del diritto di detrazione soltanto nei limiti in cui servano a fornire prestazioni – o concretino cessioni soggette a tale imposta. Né sull’obbligo di rettifica gravante sul cessionario o sul committente può incidere la circostanza che l’Iva dovuta dal fornitore non sia stata essa stessa rettificata. L’emittente della fattura, difatti, è debitore dell’Iva indicata in fattura anche in mancanza di un’operazione imponibile, a norma dell’art. 203 della direttiva 2006/112/CE (cfr. Corte di Giustizia, 3 marzo 2014, in causa C-107/13, Firin 00D; Corte di Giustizia, 31 gennaio 2013, in causa C643/11, Stroy trans EOOD; Corte di Giustizia, 18 giugno 2009, in causa
C-566/07, Stadeco) e, dunque, dell’art. 21, settimo comma, d.P.R. n. 633 del 1972 .
3.5 Ancora, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia della UE, gli Stati membri possono concedere la rettifica RAGIONE_SOCIALE imposte indebitamente fatturate, ma unicamente nel caso in cui chi ha emesso la fattura dimostri la propria buona fede (Corte di Giustizia, 13 dicembre 1989, in causa C-342/87, RAGIONE_SOCIALE; Corte di Giustizia 11 aprile 2013, in causa C-138/12, RAGIONE_SOCIALE) o, comunque, anche in assenza di buona fede, di avere completamente eliminato in tempo utile il rischio di perdita di gettito fiscale (Corte di Giustizia, 8 maggio 2019, in causa C-712/17; Corte di Giustizia, 2 luglio 2020, in causa C835/2018). In ogni caso, ben possono gli Stati membri ritenere che la redazione di fatture fittizie con l’indicazione della relativa IVA integra un tentativo di frode fiscale, applicando in tal caso ammende e sanzioni (Corte di Giustizia, 19 settembre 2000, in causa C-454/98).
3.6 Il tema del rapporto tra principio di cartolarità e principio di neutralità dell’IVA è stato vagliato anche nella giurisprudenza di questa Corte di legittimità, che ha affermato che « In tema di IVA, nel caso in cui sia erroneamente emessa fattura per operazioni oggettivamente inesistenti, il contribuente non può avvalersi della procedura di cui all’art. 26, comma 2, del d.P.R. n. 633 del 1972, che consente la regolarizzazione solo ove si tratti di operazioni effettive e reali, anche se venute meno in tutto o in parte, ma, in base al principio di cartolarità, di cui all’art. 21, comma 7, RAGIONE_SOCIALE stesso decreto, è tenuto a versare l’imposta per l’intero ammontare indicato, fermo restando il diritto del contribuente al rimborso dell’imposta versata qualora venga accertato dal giudice di merito che sia stato eliminato in tempo utile qualsiasi rischio di perdita del gettito fiscale, derivante dall’utilizzo della fattura ai fini della detrazione da parte del destinatario, quando la fattura non possa ritenersi emessa ai sensi dell’art. 21, comma 1, RAGIONE_SOCIALE stesso decreto, ovvero quando sia stata emessa, ma tempestivamente
ritirata dal destinatario, senza che quest’ultimo abbia potuto utilizzarla per finalità fiscali, o ancora quando l’Amministrazione abbia disconosciuto il diritto alla detrazione del destinatario con provvedimento definitivo o ritenuto legittimo con sentenza passata in giudicato » (cfr. Cass., 26 settembre 2018, n. 22963; Cass., 18 aprile 2019, n. 10974; Cass., 12 marzo 2020, n. 2020; Cass., 30 settembre 2021, n. 26515).
3.7 In tema, è utile anche ricordare che dal compimento di un’operazione imponibile discendono tre rapporti fra di loro autonomi, l’uno tra l’amministrazione finanziaria e il cedente, relativamente al pagamento dell’imposta, l’altro tra il cedente ed il cessionario, in ordine alla rivalsa e il terzo tra l’amministrazione ed il cessionario, per ciò che attiene alla detrazione dell’imposta assolta in via di rivalsa e che tale autonomia presuppone che rimanga salvo il principio della neutralità dell’IVA, il quale postula l’esclusione, in concreto, dell’eventualità di una perdita di gettito tributario (Cass., 17 marzo 2020, n. 7325).
3.8 In conclusione, dunque, la giurisprudenza della Suprema Corte richiamata, recependo l’orientamento della Corte di giustizia, ha affermato che il fatto stesso dell’emissione di una fattura per operazioni inesistenti implichi l’obbligo di pagamento della relativa IVA, fatti salvi l’esistenza della buona fede (che, ovviamente, non può mai sussistere in caso di operazioni oggettivamente inesistenti: cfr. Cass., 14 settembre 2016, n. 18118), ovvero l’obbligo di eliminare il pericolo di perdita di gettito per l’Erario, il cui onere probatorio spetta al contribuente (cfr. Corte di Giustizia, 8 maggio 2019, in causa C712/17; Corte di Giustizia, 2 luglio 2020, in causa C-835/2018, citate). In questa prospettiva, la fattispecie individuata dall’art. 21, settimo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972 è, dunque, del tutto speciale ed esula dalla applicazione del regime ordinario dell’IVA, in quanto il legislatore, in caso di «operazione inesistente», ha, infatti, inteso privilegiare la rappresentazione cartolare del rapporto rispetto alla
effettiva irrealtà della operazione sottostante, assoggettando comunque ad imposizione detto rapporto; si tratta di una previsione normativa che opera specificamente dal lato del debito d’imposta gravante sull’emittente, quale soggetto passivo nei confronti dell’Erario; mentre dal lato del cessionario/destinatario della prestazione di servizi, in difetto di alcuna disciplina normativa speciale, rimane confermato il meccanismo ordinario dell’IVA, per cui, in difetto di verificazione del presupposto impositivo (attesa la inesistenza di una reale cessione di beni/prestazioni di servizi in cambio di corrispettivo), alcun diritto alla detrazione/rimborso può sorgere dall’utilizzo di una fattura passiva che è stata emessa per una operazione che in realtà non esiste. E sul punto va richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui in tema di IVA, una volta che l’Amministrazione finanziaria dimostri, anche mediante presunzioni semplici, l’oggettiva inesistenza RAGIONE_SOCIALE operazioni, spetta al contribuente, ai fini della detrazione dell’IVA e/o della deduzione dei relativi costi, provare l’effettiva esistenza RAGIONE_SOCIALE operazioni contestate, non potendo tale onere ritenersi assolto con l’esibizione della fattura, ovvero in ragione della regolarità formale RAGIONE_SOCIALE scritture contabili o dei mezzi di pagamento adoperati, in quanto essi vengono di regola utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass., 18 ottobre 2021, n. 28628, in motivazione, citata; Cass., 5 luglio 2018, n. 17619).
3.9 Ciò posto, la Commissione tributaria regionale ha fatto corretta applicazione dei superiori principi, avendo affermato che l’imposta Iva era dovuta, anche in presenza di operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto la fattura era stata emessa dal ricorrente e, alla luce dei principi sopra richiamati, non sussistono nemmeno le condizioni per la rimessione della questione di costituzionalità al Giudice RAGIONE_SOCIALE leggi, come chiesto dal ricorrente con il terzo motivo di ricorso, dovendosi escludere la lesione dei plurimi parametri costituzionali evocati (artt. 3, 23, 53 e 97 della Costituzione), peraltro assai genericamente, tenuto
conto del principio di cartolarità richiamato dalla giurisprudenza di legittimità, che regola la fattispecie in esame, conformemente anche alla normativa e alla giurisprudenza unionale.
Per le ragioni di cui sopra, il ricorso deve essere rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento RAGIONE_SOCIALE spese processuali, sostenute dalla RAGIONE_SOCIALE controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della RAGIONE_SOCIALE controricorrente, RAGIONE_SOCIALE spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 18.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , RAGIONE_SOCIALE stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 12 marzo 2024.