Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 8753 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 8753 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 02/04/2025
ORDINANZA
sul ricorso (iscritto al n. 7521/2022 R.G.) proposto da:
RAGIONE_SOCIALE (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall ‘ Avvocatura Generale dello Stato e domiciliata presso gli uffici di quest ‘ ultima, siti in Roma, alla INDIRIZZO (indirizzo p.e.c.: EMAIL) ;
-ricorrente –
contro
COGNOME FABIO (Codice Fiscale: CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliato in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell ‘ avv. NOME COGNOME unitamente all ‘ avv. NOME COGNOME che lo rappresenta e difende, giusta procura speciale allegata al controricorso (indirizzo p.e.c. del difensore: ‘ EMAIL ‘) ;
-controricorrente –
n. 7521/2022 R.G.
COGNOME
Rep.
C.C. 28 gennaio 2025
Tributi -Avviso di accertamento IVA, IRPEF e IRAP Accertamento induttivo.
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Puglia n. 3177/2021, pubblicata il 6 dicembre 2021;
udita la relazione della causa svolta, nella camera di consiglio del 28 gennaio 2025, dal Consigliere relatore NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
1.- Nell ‘ ambito dell ‘ attività di controllo sostanziale effettuata, per l ‘ anno di imposta 2011, a carico della società RAGIONE_SOCIALE, personale verificatore dell ‘ Agenzia delle Entrate rinveniva nove (9) fatture emesse dall ‘ impresa con ditta RAGIONE_SOCIALE di Sagarriga Visconti Fabio, esercente: « Altre attività di servizi alle imprese n.c.a. », per un imponibile complessivo per € . 20.230,00 (euro ventimiladuecentotrenta/00), con relativa IVA per € . 4.105,30 (euro quattromilacentocinque/30). Poiché dal sistema informativo dell ‘ Anagrafe tributaria risultava che il Sagarriga, titolare della suddetta impresa con ditta RAGIONE_SOCIALE, per l ‘ anno d ‘ imposta 2011, aveva omesso la compilazione dei quadri RG/RF, nonché la presentazione della dichiarazione fiscale ai fini IRAP ed IVA cui, invece, era tenuto essendo titolare di partita IVA, l ‘ amministrazione finanziaria, con invito n. I00797/2016 notificato il 21 novembre 2016, chiedeva, al contribuente, di « produrre, in copia conforme, gli atti, i documenti, i libri e i registri contabili e a fornire notizie e dati, atti ad accertare l ‘ esatto adempimento delle disposizioni in materia d ‘ imposte sui redditi e degli altri tributi per l ‘ anno di imposta 2011 ». Il contribuente, presentatosi in risposta all ‘ invito suddetto, dichiarava testualmente che: « L ‘ attività della RAGIONE_SOCIALE di COGNOME COGNOME Fabio è cessata in data 31/12/2006, con comunicazione del 15/04/2009 pertanto appare evidente l ‘ impossibilità di ottemperare alla richiesta dell ‘ Ufficio », come risulta dal verbale del 2 dicembre 2016.
Preso atto delle dichiarazioni rilasciate e della circostanza che la partita IVA del Sagarriga risultava sì cessata, ma dal 19 ottobre 2015, l ‘ amministrazione finanziaria procedeva all ‘ accertamento induttivo del reddito d ‘ impresa ai sensi dell ‘ art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973,
notificando al contribuente, in data 29 dicembre 2016, avviso n. TVF 010905430/2016, per l ‘ anno di imposta 2011.
In motivazione dell ‘ avviso l ‘ Agenzia delle Entrate specificava che « in assenza di qualsivoglia dichiarazione del reddito relativo all ‘ attività esercitata, al fine di addivenire ad una quantificazione reddituale congrua ed aderente alla realtà, nel rispetto del principio di capacità contributiva si determina in € 226.632,26 il reddito d ‘ impresa percepito dalla S. V. Nel dettaglio, alla quantificazione dei ricavi conseguiti dalla S. V. pari ad € 415.839,00, è stata applicata la percentuale di redditività del 54,5% desunta dalla banca dati dell ‘ Applicativo RADAR ottenuta dalle aziende operanti nel medesimo settore commerciale, aventi uguali caratteristiche e sede nello stesso comune di svolgimento dell ‘ attività (Valenzano) con redditività positiva » esponendo che, rilevato che l ‘ ultima delle fatture rinvenute nella contabilità della RAGIONE_SOCIALE, datata 31 dicembre 2011, aveva quale cronologico il numero 185, l ‘ amministrazione finanziaria aveva dedotto che l ‘ impresa di RAGIONE_SOCIALE aveva emesso almeno 185 (centottantacinque) fatture fiscali, talché, calcolato l ‘ importo medio delle prestazioni, pari a € . 2.247,78 (euro duemiladuecentoquarantasette/78), importo ottenuto dividendo il totale imponibile pari a € . 20.230,00 (euro ventimiladuecentotrenta/00) per le nove (9) fatture rinvenute e moltiplicato tale importo per il numero totale dei documenti emessi, aveva determinato induttivamente, l ‘ammontare dei ricavi conseguiti in € . 415.839,00 (euro quattrocentoquindicimilaottocentotrentanove/00), conseguentemente accertando una maggiore imposta IRPEF per € . 96.232,00 (euro novantaseimiladuecentotrentadue/00), I RAP per € . 10.924,00 (euro diecimilanovecentoventiquattro/00) e IVA per € . 84.387,00 (euro ottantaquattromilatrecentottantasette/00), irrogando le relative sanzioni per € . 100.685,70 (euro centomilaseicentottantacinque/70).
Avverso il menzionato atto impositivo, il contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Bari,
contestando, in primo luogo, l ‘ applicabilità, al caso di specie, della metodologia accertativa ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 in quanto « per l ‘ anno d ‘ imposta oggetto di contestazione parte ricorrente non svolgeva alcuna attività d ‘ impresa », avendo cessato l ‘ attività il 31 dicembre 2006, come da visura camerale che veniva prodotta in giudizio, sebbene la relativa comunicazione fosse stata tardivamente trasmessa sia alla Camera di Commercio che all ‘ Agenzia delle Entrate, sicché la mancanza delle scritture contabili si poneva in rapporto di causalità con la cessazione dell ‘ attività d ‘ impresa.
Il contribuente, per quanto di rilievo in questa sede, contestava altresì di aver mai intrattenuto rapporti economici con la cooperativa sottoposta a verifica e riferiva di aver depositato, in data 17 gennaio 2017, atto di denunzia – querela alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE al fine di disconoscere le fatture asseritamente emesse dalla sua impresa ma a lui del tutto ignote.
Deduceva, inoltre, che prova della falsità di tali fatture era, d ‘ altronde, costituita dal fatto che le stesse si riferivano a prestazioni di manodopera, laddove sarebbe stato agevole per l ‘ amministrazione finanziaria verificare che egli non aveva alcun lavoratore alle proprie dipendenze, avendo cessato tutti i rapporti di lavoro già a far data del 31 dicembre 2005.
Altro elemento di falsità delle fatture risiedeva nel fatto che il fisco aveva omesso di valutare che i relativi pagamenti risultavano tutti eseguiti in contanti.
La Commissione Tributaria Provinciale di Bari, nella resistenza dell ‘ amministrazione finanziaria, con sentenza n. 380/10/2018, accoglieva il ricorso del contribuente e annullava l ‘ atto impositivo con la seguente motivazione: « Il ricorrente ha fornito prova documentale idonea a dimostrare la cessazione dell ‘ attività già dal 31.12.2006. Tanto emerge dalla Visura camerale e dal mod. 770/2005 da cui si evince la cessazione di tutti i rapporti di lavoro. Le fatture rinvenute presso la sede della New Ser RAGIONE_SOCIALE, peraltro risultate tutte pagate in modo non tracciabile, sono state
tempestivamente contestate dal ricorrente con una denuncia-querela presentata presso il Tribunale di Bari, in quanto ritenute false, disconoscendo anche la finna per quietanza in calce alle stesse ».
2.La Commissione Tributaria Regionale della Puglia, investita dall ‘ appello proposto dall ‘ Agenzia delle Entrate, lo rigettava con la sentenza oggetto dell ‘ odierna impugnazione.
In particolare, a sostegno dell ‘ adottata pronuncia, la Commissione Tributaria Regionale rilevava, per quanto di interesse in questa sede, che: « L ‘ agenzia ha rinvenuto nell ‘ ambito di una verifica fiscale, riguardante altro soggetto, alcune fatture asseritamente emesse dall ‘ appellato che le ha contestate con una specifica denuncia per non averle mai emesse, oltre a disconoscere la firma di quietanza apposta su di esse. Tuttavia, l ‘ Agenzia ha basato l ‘ intero accertamento sul rinvenimento di n. 9 fatture, asseritamente emesse dal contribuente ed atteso che l ‘ ultima fattura datata 31.12.2011 riporta il numero progressivo n. 185, presume che siano state emesse almeno 185 fatture; che l ‘ importo complessivo, delle n. 9 fatture, ammonta ad euro 20.230,00, determinando una media di euro 2.247,78; che moltiplicata per il numero delle presunte fatture emesse n. 184, determinerebbero presunti ricavi non contabilizzati per euro 415.839,00, cui viene applicata una, ulteriore, presunzione di percentuale di redditività del 54%, che quantifica il reddito d ‘ impresa in euro 226.632,26. Risulta evidente, nel caso in esame, una inammissibile concatenazione di presunzioni. Sul fronte delle fatture, il contribuente ha prodotto atto di denuncia-querela alla Procura della Repubblica, presso il Tribunale di Bari, affermando di non aver mai intrattenuto rapporti economici con la citata cooperativa e di non aver mai, emesso le fatture, disconoscendone la relativa quietanza di firma, ritenendo così di aver offerto tutti gli elementi possibili che l ‘ ordinamento offre per la prova della propria estraneità. La Suprema Corte di Cassazione con la recentissima ordinanza n. 17727 del 22 giugno 2021 ha affermato che in materia di accertamento, nelle ipotesi di fatture reperite nella documentazione
contabile di un cliente che le utilizza per dedurre dei costi, è compito dell ‘ Agenzia delle Entrate provare che tali fatture sono state emesse dal fornitore. Come nel caso in esame, l ‘ imprenditore riteneva che le fatture erano state falsamente predisposte da terzi e che per tale ragione aveva presentato denuncia-querela. I primi Giudici hanno correttamente esaminato e valutato l ‘ intera vicenda processuale, di certo non può contestarsi l ‘ operato del contribuente poiché ha fatto tutto quanto in suo potere al fine di dimostrare la totale estraneità ai fatti di causa, cosa che, di contro, non ha fatto l ‘ Ufficio il quale ha posto alla base dell ‘ avviso di accertamento delle mere illazioni derivanti da un controllo incrociato nei confronti della società RAGIONE_SOCIALE in liquidazione, soggetto, tra l ‘ altro, già interessato dall ‘ Ufficio per vicende similari. Anche con riferimento alle contestazioni in merito al ritardo delle comunicazioni, parte appellata ha ammesso di aver effettuato le comunicazioni solo successivamente alla data di cessazione (nel 2009 in Camera di Commercio e nel 2015 all ‘ Agenzia delle Entrate), ma comunque prima della notifica dell ‘ avviso di accertamento. Sta di fatto comunque che, pur riconoscendo la formale tardività delle comunicazioni, residua che nella realtà ogni attività ha avuto termine in data 31/12/2006. Né può essere condivisa la tesi dell ‘ Agenzia che il contribuente abbia consapevolmente atteso il decorso dei termini di cui all ‘ art. 2220 cod. civ. (Conservazione delle scritture contabili), per sottrarsi agli obblighi di controllo e di ispezione da parte dell ‘ Ufficio, atteso che in detto periodo la stessa Amministrazione finanziaria poteva attivare le procedure di controllo, cui evidentemente vi ha rinunciato. Tantomeno va minimizzato che le fatture non riportano un pagamento tracciato, risultante tutte pagate per contanti. Anche in questo caso sarebbe inverosimile effettuare ricavi per oltre 400 mila euro, come afferma l ‘ Ufficio, senza l ‘ ausilio di un istituto di credito. In conclusione, l ‘ appello viene rigettato ».
3.- Avverso la menzionata sentenza d ‘ appello, l ‘ Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
4.- Il contribuente ha resistito con controricorso.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.- Con il primo motivo, l ‘ amministrazione finanziaria ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c., la nullità della sentenza impugnata per violazione dell ‘ art. 111 Cost., degli artt. 1, 2 e 36 d.lgs. n. 546 del 1992, degli artt. 132 e 274 c.p.c., nonché, infine, dell ‘ art. 118 disp. att. c.p.c.
Sostiene, in particolare, che la Commissione Tributaria Regionale avrebbe ritenuto che la sola presentazione della denuncia-querela alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Bari fosse idonea a dimostrare che il contribuente non aveva « mai intrattenuto rapporti economici con la citata cooperativa e di non aver mai, emesso le fatture, disconoscendone la relativa quietanza di firma, ritenendo così di aver offerto tutti gli elementi possibili che l ‘ ordinamento offre per la prova della propria estraneità », così incorrendo in una motivazione apparente che non darebbe conto del percorso logico-giuridico seguito per pervenire alla conclusione secondo cui il contribuente avrebbe offerto dimostrazione circa la sua estraneità ai fatti di causa, non potendo tale denuncia-querela costituire, di per sé, prova dell ‘ estraneità del contribuente alla fattispecie evasiva.
2.- La censura è infondata.
Ed invero, come chiarito da questa Corte regolatrice, « In seguito alla riformulazione dell ‘ art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall ‘ art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica del rispetto del «minimo costituzionale» richiesto dall ‘ art. 111, comma 6, Cost., che viene violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconcilianti, o risulti
perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. » .
In particolare, giova rammentare che questa Corte, a Sezioni Unite, ha chiarito che, dopo la riforma dell ‘ art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., operata dalla l. n. 134 del 2012, il sindacato sulla motivazione da parte della cassazione è consentito solo quando l ‘ anomalia motivazionale si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all ‘ esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali; in tale prospettiva detta anomalia si esaurisce nella ‘ mancanza assoluta di motivi sotto l ‘ aspetto materiale e grafico ‘ , nella ‘ motivazione apparente ‘ , nel ‘ contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili ‘ e nella ‘ motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile ‘ , esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di
“sufficienza” della motivazione (cfr. Cass. civ., Sez. U., sentenza n. 8053 del 7 aprile 2014, Rv. 629830-01).
Nel caso di specie, la grave anomalia motivazionale non esiste, perché la Commissione Tributaria Regionale ha senz ‘ altro motivato – sia pure in maniera sintetica – in relazione all ‘ estraneità del contribuente rispetto alla fattispecie evasiva che gli era stata contestata mediante l ‘ atto impositivo, evidenziando, peraltro e diversamente da quanto sostenuto dall ‘ amministrazione finanziaria odierna ricorrente, come la prova di tale estraneità fosse suscettibile di essere desunta non già esclusivamente dalla presentazione della denuncia-querela, ma, piuttosto, anche in ragione di ulteriori elementi probatori, valutati unitamente a tale denuncia e valevoli a fornire riscontro a quanto dichiarato in quest ‘ ultima. La motivazione della pronuncia impugnata, infatti, richiama anche la documentazione prodotta dal contribuente già nell ‘ ambito del processo di primo grado e dalla quale emergeva l ‘ avvenuta cessazione, già alla data del 31 dicembre 2006, dell ‘ impresa di cui il predetto era titolare. Infine, il giudice d ‘ appello non manca di evidenziare come le fatture di cui il contribuente aveva provveduto a denunciare la falsità non contenessero alcuna indicazione circa l ‘ utilizzo di mezzi di pagamento suscettibili di essere tracciati e concernessero, dunque, tutte corrispettivi pagati mediante denaro contante, con conseguente inverosimiglianza dell ‘ avvenuto conseguimento di ricavi, peraltro secondo la ragguardevole misura indicata dall ‘ amministrazione finanziaria, senza l ‘ ausilio di un istituto bancario.
3.- Con il secondo (e ultimo) motivo, l ‘ amministrazione finanziaria ricorrente denuncia, ai sensi dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3), c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973 e 2697 c.c.
Sostiene, in particolare, che, la Commissione Tributaria Regionale avrebbe disatteso il principio secondo cui il regime probatorio previsto per l ‘ accertamento induttivo ex art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973
consente all ‘ amministrazione finanziaria di avvalersi anche di elementi di prova meramente indiziari. Ne conseguirebbe, secondo la prospettazione della ricorrente, che sarebbe affetto da violazione di legge il capo di sentenza con cui la Commissione Tributaria Regionale di Bari ha affermato essere fondato su « mere illazioni » l ‘ atto impositivo oggetto di controversia, sia perché, nella motivazione di tale atto, era stato dettagliatamente chiarito che l ‘ impresa con ditta RAGIONE_SOCIALE di Sagarriga NOME NOME aveva presentato la dichiarazione per l ‘ anno d ‘ imposta 2011 omettendo la compilazione dei quadri RG/RF e omettendo altresì la presentazione delle prescritte dichiarazioni ai fini IRAP e IVA alle quali il contribuente era, comunque, obbligato poiché titolare di partita IVA, così legittimando il ricorso a presunzioni cc.dd. « supersemplici ».
4.- La censura è senz ‘ altro infondata.
Ed invero, ai sensi dell ‘ art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973, l ‘ ufficio, nei casi previsti da tale disposizione normativa, procede alla rettifica dei redditi d ‘ impresa con il metodo induttivo cd. ‘ puro ‘ , ovvero sulla base di elementi presuntivi privi dei requisiti della gravità, precisione e concordanza, in deroga alle disposizioni di cui al comma 1 del medesimo art. 39 e sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili, ove esistenti.
Parimenti, in tema di IVA, l ‘ art. 55, comma 1, parte seconda, d.P.R. n. 633 del 1972, prevede che l ‘ ammontare imponibile complessivo e l ‘ aliquota applicabile sono determinati induttivamente sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a conoscenza dell ‘ Ufficio e sono computati in detrazione soltanto i versamenti eventualmente eseguiti dal contribuente e le imposte detraibili ai sensi dell ‘ art. 19 d.P.R. n. 633 del 1972, risultanti dalle liquidazioni prescritte dagli artt. 27 e 33.
Orbene, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte regolatrice « in tema di rettifica dei redditi d ‘ impresa, il discrimine tra l ‘ accertamento con metodo analitico induttivo e quello con metodo induttivo puro sta,
rispettivamente, nella parziale o assoluta inattendibilità dei dati risultanti dalle scritture contabili: nel primo caso, la ‘incompletezza, falsità o inesattezza’ degli elementi indicati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, in quanto l ‘ Ufficio accertatore può solo completare le lacune riscontrate, utilizzando ai fini della dimostrazione dell ‘ esistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche presunzioni semplici aventi i requisiti di cui all ‘art. 2729 c.c.; nel secondo caso, invece, ‘le omissioni o le false od inesatte indicazioni’ sono così gravi, numerose e ripetute da inficiare l ‘ attendibilità -e dunque l ‘ utilizzabilità, ai fini dell ‘ accertamento – anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), sicché l ‘Amministrazione finanziaria può ‘prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti’ ed è legittimata a determinare l’ imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c.. » (Cass. civ., Sez. 5, ordinanza n. 33604 del 18 dicembre 2019, Rv. 656397-01; conf. Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 4662 del 15 febbraio 2023, non massimata).
L ‘ accertamento induttivo puro, svolto ai sensi dell ‘ art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973, consente dunque all ‘ amministrazione finanziaria di prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze delle scritture contabili e di determinare l ‘ imponibile sulla base di elementi meramente indiziari, costituenti presunzioni cc.dd. ‘ supersemplici ‘, cioè prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, ponendo a carico del contribuente l ‘ onere di fornire la prova contraria, ossia di dimostrare di non aver conseguito il reddito accertato (Cass. civ., Sez. 6-5, ordinanza n. 20793 del 27 febbraio 2020, non massimata) ovvero di avere conseguito un reddito inferiore a quello indicato dall ‘ Ufficio (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 12127 del 14 aprile 2022, non massimata).
Nella specie, se è certamente vero che l ‘ accertamento è stato condotto a termini dell ‘ art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973 con conseguente ricorso, da parte dell ‘ amministrazione finanziaria, a presunzioni cc.dd.
« supersemplici », ossia prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 19191 del 17 luglio 2019, Rv. 654710-01) ed inversione, a carico del contribuente, dell ‘ onere della prova circa l ‘ esistenza di elementi intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall ‘ ufficio (Cass. civ., Sez. 5, sentenza n. 15027 del 2 luglio 2014, Rv. 631522-01), risulta nondimeno altrettanto innegabile come, proprio alla stregua della motivazione della sentenza impugnata, la Commissione Tributaria Regionale abbia ritenuto assolto tale onere di prova contraria da parte del contribuente, mediante la deduzione degli elementi di prova già sopra menzionati e che sono stati ritenuti, dal giudice d ‘ appello, valevoli a dimostrare l ‘ estraneità del contribuente alla fattispecie evasiva contestata mediante l ‘ avviso di accertamento.
In tal senso, dunque, non è dato riscontrare alcuna violazione o falsa applicazione delle norme indicate dalla ricorrente e, in particolare, del regime probatorio derivante dall ‘ applicazione, alla fattispecie in esame, dell ‘ art. 39, comma 2, d.P.R. n. 600 del 1973.
Da ultimo, non è chi non veda come la censura di cui si tratta esibisca altresì un profilo di inammissibilità, giacché la stessa, nella parte in cui si concentra sugli elementi probatori presuntivi a fondamento dell ‘ atto impositivo , invocandone altresì la valorizzazione a discapito degli elementi di prova addotti dal contribuente a proprio favore (cfr., all ‘ uopo, quanto evidenziato in ricorso, alle pagg. 14-15), finisce con il risolversi nella richiesta di una nuova valutazione del compendio istruttorio, notoriamente preclusa in sede di giudizio di legittimità. Questa Corte regolatrice ha, infatti, più volte chiarito che « In tema di ricorso per cassazione, deve
ritenersi inammissibile il motivo di impugnazione con cui la parte ricorrente sostenga un ‘ alternativa ricostruzione della vicenda fattuale, pur ove risultino allegati al ricorso gli atti processuali sui quali fonda la propria diversa interpretazione, essendo precluso nel giudizio di legittimità un vaglio che riporti a un nuovo apprezzamento del complesso istruttorio nel suo insieme. » (cfr., ex permultis , Cass., Sez. 2, ordinanza n. 10927 del 23 aprile 2024, Rv. 670888-01).
Questa Corte di legittimità ha, infatti, più volte affermato che « Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all ‘ art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l ‘ interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l ‘ applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell ‘ attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell ‘ assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perché la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell ‘ ambito applicativo dell ‘ art. 360, comma 1, n. 3, l ‘ allegazione di un ‘ erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all ‘ esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità. » (Cass., Sez. 1, ordinanza n. 640 del 14 gennaio 2019, Rv. 652398-01; conf. Cass., Sez. 3, sentenza n. 7187 del 4 marzo 2022, Rv. 664394-01).
Parimenti, è stato chiarito che « la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata » (Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 12362 del 24 maggio 2006, Rv. 589595-01; conf. Cass. civ., Sez. 1, Sentenza n. 11511 del 23 maggio 2014, Rv. 631448-01; Cass. civ., Sez. L, Sentenza n. 13485 del 13 giugno 2014, Rv. 631330-01).
5.- In conclusione, alla stregua delle considerazioni finora sviluppate, il ricorso dev ‘ essere senz ‘ altro rigettato.
6.- Le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
7.- Ai sensi dell ‘ art. 13, comma 1quater , d.P.R. n. 115 del 2002, stante la soccombenza della parte ammessa alla prenotazione a debito, non ricorrono i presupposti per il versamento dell ‘ ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1bis .
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi €. 6.200,00 (euro seimiladuecento/00), di cui €. 200,00 (euro duecento/00) per esborsi, oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Tributaria,