Sentenza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 12072 Anno 2025
Civile Sent. Sez. 5 Num. 12072 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 07/05/2025
AVVISO DI ACCERTAMENTO -IRES 2007.
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 16101/2014 R.G. proposto da: RAGIONE_SOCIALE in persona del legale rappresentante protempore, con sede legale in Torino, INDIRIZZO rappresentata e difesa dall’avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale a margine del ricorso e dall’avv. NOME COGNOME in virtù di procura speciale in data 14 ottobre 2022,
-ricorrente/controricorrente in via incidentale -contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore protempore, domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura generale dello Stato dalla quale è rappresentata e difesa ex lege ,
-controricorrente/ricorrente in via incidentale -MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro-tempore,
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte n. 173/34/2013, depositata il 16 dicembre 2013; udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 gennaio 2025 dal Consigliere dott. NOME COGNOME dato atto che il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. NOME COGNOME ha chiesto il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale,
FATTI DI CAUSA
1. A seguito di verifica fiscale nei confronti della RAGIONE_SOCIALE, l’Agenzia delle Entrate -Direzione provinciale di Torino notificava, in data 16 novembre 2010, nei confronti della suddetta società, avviso di accertamento n. NUMERO_DOCUMENTO relativo al periodo d’imposta 2007, con il quale l’Ufficio procedente recuperava a tassazione, ai fini IRES ed IRAP, i seguenti elementi: 1) elementi di reddito non dichiarati, sulla base di rettifiche inventariali, per € 154.974,34; 2) ammortamenti non deducibili (relativi ad archivio storico e quadri) per € 76.265,68; 3) elementi di reddito negativi non deducibili (crediti commerciali) per € 5.749,12; 4) elementi di reddito ne gativi non deducibili (perdite su crediti) per € 3.000,00; 5) elementi di reddito negativi non deducibili (costo omaggi) per € 35.468,99; 6) elementi negativi di reddito non deducibili (prestito obbligazionario) per € 211.134,70. Sempre nello stesso avviso di accertamento, l’Ufficio recuperava altresì a tassazione, ai fini IVA, i seguenti elementi: a ) omessa fatturazione di cessione di beni aliquota al 10%, IVA per € 12.141,59 ; b ) omessa cessione di beni aliquota al 20%, IV A per € 6.711,69 ; c ) omessa autofatturazione di acquisti con aliquota al 20%, IVA per € 13.546,52 [in relazione al rilievo sub
1)]; d ) omessa autofatturazione di acquisiti aliquota al 20%, IVA per € 5.298,84 . Infine, venivano accertate maggiori ritenute d’imposta per € 74.878,00 , ed applicazione sanzioni per € 240.864,00.
Proposto ricorso dalla contribuente dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Torino questa, con sentenza n. 22/17/2012, depositata il 5 marzo 2012, rigettava il ricorso, eccezion fatta per la parte relativa alle sanzioni relative alla accertata indeducibilità degli interessi passivi sui prestiti obbligazionari .
Interposto gravame dal contribuente, ed appello incidentale dall’Ufficio, la Commissione Tributaria Regionale del Piemonte, con sentenza n. 173/34/2013, pronunciata il 13 novembre 2013 e depositata in segreteria il 16 dicembre 2013, rigettava entrambi gli appelli, compensando le spese di lite.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la RAGIONE_SOCIALE sulla base di dieci motivi.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle E ntrate, che propone anche ricorso incidentale, affidato a due motivi.
All ‘esito dell’ udienza pubblica del 10 gennaio 2023 la Corte disponeva la sospensione del giudizio fino al 10 luglio 2023, ai sensi dell’art. 1, comma 197, della legge 29 dicembre 2022, n. 197.
Con decreto dell’11 ottobre 2024 è stata quindi fissata nuovamente per la discussione l’udienza pubblica del 25 gennaio 2025.
La ricorrente ha depositato memoria.
All’udienza suddetta sono comparsi i procuratori delle parti, che hanno concluso come da verbale in atti.
Il Pubblico Ministero, in persona del sost. proc. gen. dott. NOME COGNOME ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso principale e del ricorso incidentale.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Preliminarmente, deve rilevarsi che la preannunciata proposta di definizione agevolata della controversia non ha avuto seguito.
Sempre in via preliminare, deve essere dichiarata l’inammissibilità del ricorso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, che non è stato parte del giudizio di merito.
Il ricorso principale, come si è detto, è affidato a dieci motivi.
2.1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 4, comma 2, del d.P.R. 10 novembre 1997, n. 441, nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Sostiene, in particolare, la società contribuente, con riferimento al rilievo sub 1) indicato in precedenza, che erroneamente la C.T.R. avrebbe considerato le differenze tra le quantità di merce presente in magazzino e le quantità risultanti dalle cc.dd. scritture ausiliarie come cessione di beni senza emissione di fattura, e che la presunzione di cessione prevista dal citato d.P.R. non era applicabile, in assenza di una verifica fisica dei beni giacenti in magazzino.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso la RAGIONE_SOCIALE eccepisce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 5), c.p.c.
Sostiene, in particolare, la ricorrente che, sempre con riferimento al rilievo sub 1), la C.T.R. non avrebbe tenuto conto
dei documenti prodotti dalla società riguardanti le movimentazioni dei prodotti in magazzino, e che non era stata considerata la circostanza secondo cui lo scostamento in esame era risibile in quanto pari allo 0,4%, tenuto conto della peculiarità dell’atti vità svolta mediante cessione di francobolli per corrispondenza per un quantitativo superiore ai 500 pacchi spediti al giorno ed una movimentazione di diversi milioni di pezzi all’anno.
2.3. Con il terzo motivo di ricorso la contribuente eccepisce violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, num. 4), dello stesso codice.
Deduce, in particolare, la ricorrente che, con riferimento alla parte relativa ai rilievi in materia di IVA, la sentenza impugnata non contiene alcuna analisi delle norme che si assumono violate, né vi era l’enunciazione di una conseguente soccombenza i n tema di IVA, rispetto al mancato accoglimento delle doglianze della società esplicitato ai fini delle imposte dirette.
2.4. Con il quarto motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 109, comma 1, 102, commi 1 e 2, e 108 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (testo unico delle imposte sui redditi ), in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Rileva, in particolare, la ricorrente, con riferimento al rilievo n. 2) indicato in precedenza (ammortamenti non deducibili), che erroneamente la C.T.R. aveva confermato il rilievo in questione, riguardante l’inapplicabilità dell’ammortamento ai beni rientranti nel patrimonio di cui all’archi vio storico della società, trattandosi, al contrario, di beni inerenti all’esercizio dell’impresa, funzionali allo svolgimento di attività quali preparazione di studi e ricerche, predisposizione di cataloghi, allestimento di mostre e aste, ecc.
2.5. Con il quinto motivo di ricorso viene denunciata violazione e falsa applicazione degli artt. 106, comma 1, e 109, comma 2, d.P.R. n. 917/1986 , nonché dell’art. 1731 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Sostiene, in particolare, la società contribuente che, con riferimento al rilievo n. 3) indicato in precedenza (disconoscimento di una quota del fondo svalutazione crediti rappresentata dal credito sorto in relazione all’attività di vendita di beni all’asta mediante un mandato a vendere all’incanto reso dalla RAGIONE_SOCIALE alla società controllata RAGIONE_SOCIALE, avendo i giudici considerato solo il compenso della casa d’asta quale elemento ai fini della determinazione dell’importo da assoggettare a svalutazi one ai sensi dell’art. 106 d.P.R. n. 917/1986.
2 .6. Con il sesto motivo di ricorso si eccepisce l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 5), c.p.c.
Sostiene, in particolare, la ricorrente che, sempre con riferimento al rilievo n. 3), la C.T.R. avrebbe omesso qualsiasi valutazione in merito ai contratti di mandato siglati tra i clienti e la società istante.
2.7. Con il settimo motivo di ricorso la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 101, comma 5, d.P.R. n. 917/1986 , in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Sostiene la RAGIONE_SOCIALE, in particolare, che, con riferimento al rilievo n. 4) (indeducibilità di perdita su crediti per € 3.000,00), la decisione della C.T.R. (che ha escluso la deducibilità in quanto la società non avrebbe posto in essere le procedure richieste per il recupero del credito in questione) appare in contrasto con precedenti giurisprudenziali di questa
Corte, e non ha tenuto conto delle modifiche introdotte dall’art. 1, comma 160, lett. b ), della legge 27 dicembre 2013, n. 147, riguardante la deducibilità delle perdite derivanti dalla cancellazione dei crediti dal bilancio operata in applicazione dei principi contabili, il che avrebbe dovuto portare anche all’esclusione dell’applicazione d ella norma sanzionatoria di cui all’art. 1 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471.
2 .8. Con l’ottavo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 108, comma 1, d.P.R. n. 917/1986, nonché dell’art. 112 c.p.c. , in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), dello stesso c.p.c.
Sostiene la ricorrente che, in relazione al rilievo di cui al n. 5) (recupero a tassazione di elementi negativi di reddito non deducibile per costoomaggi per € 35.468,99), non trattavasi, in realtà, di omaggi, ma di sconti praticati a clienti abituali, eccezione sulla quale, peraltro, la C.T.R. non si era pronunciata, incorrendo nella violazione di cui all’art. 112 c.p.c.
2.9. Con il nono motivo di ricorso la RAGIONE_SOCIALE deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 115, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (vigente ratione temporis ), in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3), cod. proc. civ.
Deduce, in particolare, la società contribuente che la C.T.R. avrebbe errato nel confermare l’indeducibilità della quota di interessi passivi relativi ai prestiti obbligazionari emessi dalla stessa società, non essendo stati resi omogenei i termini di confronti tra i tassi ai fini della determinazione della quota indeducibile, cioè il Tasso Unico di Sconto (TUS) vigente al momento dell’emissione del prestito e aumentato di due terzi ed il Tasso di Rendimento Effettivo (TRES), quest’ultimo
considerato come parametro semestrale e dunque non in linea con i termini del rapporto indicati dalla norma.
2.10. Con il decimo motivo di ricorso la ricorrente eccepisce violazione e falsa applicazione violazione e falsa applicazione dell’art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c.
Sostiene, in particolare, la RAGIONE_SOCIALE che la C.T.R. avrebbe errato nel limitare l’applicabilità della norma suddetta ai soli casi di irrogazione sanzioni e richiesta di interessi moratori, potendola estendere, invece, anche alle maggiori imposte accertate in supposta infrazione del principio di affidamento.
Si procede ora, invece, alla succinta illustrazione dei motivi di ricorso incidentale.
3 .1. Con il primo motivo di ricorso incidentale l’Agenzia delle E ntrate eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 36 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 4), c.p.c.
Sostiene, in particolare, l’Ufficio che la sentenza impugnata sarebbe nulla per radicale contraddittorietà intrinseca della motivazione, con riferimento alla rilevanza dell’atto di adesione perfezionatosi nell’anno 2005, che prima viene considerato fonte di affidamento per accertamenti futuri, nel mentre tale affidamento viene successivamente escluso.
3 .2. Con il secondo motivo di ricorso incidentale l’Ufficio eccepisce violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 2, della legge n. 212/2000 e del d.lgs. n. 218/1997, in relazione all’art. 360, comma 1, num. 3), c.p.c., non potendosi attribuire rilevanza, ai sensi e per gli effetti dell’art. 10, comma 2, cit., all’accertamento con adesione concordato tra le parti in data 21 luglio 2008, in relazione all’anno 2005, in quanto la natura di
tale accertamento con adesione impediva di ritenere che lo stesso potesse ingenerare un affidamento sul comportamento fiscale da tenere nei successivi periodi d’imposta, riferendosi ad annualità precedente e non potendo spiegare i suoi effetti oltre tale annualità.
Procedendo quindi allo scrutinio dei motivi di ricorso principale, la Corte osserva quanto segue.
4.1. Il primo motivo è infondato.
Ed invero, ai sensi dell’art. 1 del d.P.R. n. 441/1997, eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino, o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo.
Sul punto, la ricorrente assume che, ai fini dell’applicazione della presunzione in questione, sarebbe stata necessaria la preliminare verifica fisica del magazzino della ricorrente. Deve, in contrario, rilevarsi che, ai sensi dell’art. 4, comma 2, dello stesso d.P.R. n. 441/1997, «le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino di cui alla lettera d ) dell’articolo 14, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo». E’ quindi lo stesso regolamento a legittimare la formulazione del rilievo in questione, astraendo dal magazzino fisico, e facendo riferimento alle distonie tra risultanze contabili delle scritture di magazzino ed il valore registrato delle rimanenze stesse.
Peraltro, come rilevato dall’Ufficio controricorrente, l’affermazione della necessità del riscontro fisico del magazzino comporterebbe la sostanziale inutilità della presunzione in argomento, posto che la eventuale rilevazione del magazzino fisico potrebbe dare atto solamente di eventuali eccedenze/deficienze alla data di accesso e/o di effettiva rilevazione delle consistenze, mentre l’ultimo periodo della norma testé menzionata chiarisce che le eventuali differenze tra tali ordini di grandezze inventariali di natura eminentemente contabile costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto di controllo.
A tal proposito, va evidenziato che la presunzione di ricavi non contabilizzati può derivare dall’esame delle scritture di magazzino contenute in supporti informativi, pur non essendo obbligatoria la tenuta della contabilità di magazzino da parte del cont ribuente; l’Amministrazione finanziaria, quindi, può dedurre cessioni o acquisti ‘in nero’, pur non essendo obbligatoria, da parte del contribuente, la tenuta di scritture ausiliarie di magazzino, se queste ultime sono comunque gestite mediante applicativo informativo in modo completo e veritiero (Cass. 14 dicembre 2018, n. 32454).
4.2. Il secondo motivo è da ritenere in parte inammissibile, ed in parte infondato.
La ricorrente, sempre con riferimento al rilievo n. 1), censura l’omessa considerazione di un fatto decisivo per il giudizio, sostenendo, in sostanza, che la C.T.R. non avrebbe tenuto conto della documentazione delle scritture ausiliarie redatte dalla società ex art. 2 d.P.R n. 441/1997, e comunque che tale documentazione non fosse idonea a vincere la presunzione di cessione ivi prevista; la stessa ricorrente, peraltro, eccepisce
che la C.T.R. non avrebbe tenuto conto della documentazione prodotta in giudizio dalla stessa società contribuente.
La contestazione che la RAGIONE_SOCIALE effettua, in questo caso, non attiene, tuttavia, all’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (che infatti non viene in alcun modo indicato), ma attiene alla valutazione di fatto che, della documentazione richiamata e/o allegata al p.v.c., o comunque prodotta in giudizio, i giudici d’appello hanno effettuato, e quindi, come tale, in parte qua è inammissibile in questa sede.
Infondata deve ritenersi, invece, la parte del motivo in questione che riguarda la pretesa insignificanza, in termini percentuali, delle discrepanze inventariali rilevato, posto che non è prevista, nella fattispecie in esame, una ‘soglia di tolleranza’ che operi alla str egua di una franchigia per un eventuale rilievo tributario.
4.3. Anche il terzo motivo è infondato.
La ricorrente si duole dell’omessa pronuncia, da parte della C.T.R., delle doglianze riguardanti l’accertamento dell’IVA, con riferimento al rilievo n. 1).
Sul punto, va rilevato che, per integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia, non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che sia indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi, in proprio, una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminati risulti incompatibile con
l’impostazione logico -giuridica della pronuncia (Cass. 29 gennaio 2021, n. 2082; Cass. 30 gennaio 2020, n. 2153).
Nel caso di specie, il rigetto, da parte della C.T.R., delle doglianze relative al rilievo n. 1), con riferimento alle imposte dirette, ha portato implicitamente anche al rigetto delle censure riguardanti l’applicazione dell’IVA; né, peraltro, la ricorre nte censura specificamente l’applicazione di aliquote errate, in relazione a determinate cessioni presunte.
4.4. Pure il quarto motivo deve ritenersi inammissibile.
La ricorrente censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto valido il rilievo n. 2) dell’avviso di accertamento, riguardante l’indeducibilità della quota di ammortamento per determinate categorie di cespiti (in particolare, ‘archivio storic o’ e ‘quadri’), ritenendo che gli stessi beni, assolvendo i requisiti ex art. 109 TUIR in termini di inerenza all’attività economica svolta, rientrino nel novero dei ‘beni patrimoniali’ della Bolaffi.
Così facendo, tuttavia, la ricorrente censura l’accertamento di fatto operato dalla C.T.P. e dalla C.T.R., che hanno ritenuto che i beni in questione non siano soggetti ad usura e/o obsolescenza in relazione alla loro presenza nel patrimonio della società; peraltro, la mera partecipazione del bene al ciclo produttivo non può, di per sé, dar diritto al procedimento di ammortamento, trattandosi di beni rispetto ai quali non può prospettarsi una possibilità di utilizzazione che si esaurisce nel tempo.
4.5. Il quinto motivo è invece fondato.
Il motivo in questione si riferisce al rilievo n. 3) contenuto nell’avviso di accertamento, con il quale viene disconosciuta una quota del fondo di svalutazione dei crediti, rappresentata dal credito sorto in relazione all’attività di vendita di beni all’asta
mediante un mandato a vendere all’incanto reso dalla RAGIONE_SOCIALE alla società controllata RAGIONE_SOCIALE
In particolare, i giudici di merito hanno considerato solo il compenso della casa d’asta quale elemento rilevante ai fini della determinazione dell’importo da assoggettare a svalutazione come credito ai sensi dell’art. 106 d.P.R. n. 917/1986, mentre il credito portato in svalutazione riguarderebbe il pagamento di beni detenuti dalla società in forza di mandati a vendere.
A tal proposito, stante la nota distinzione tra mandato senza rappresentanza e mandato con rappresentanza, la Corte di merito avrebbe dovuto accertare se il rapporto di commissione (mandato a vendere) riguardante i beni in questione era senza rappresentanza, nel qual caso il credito per il pagamento del corrispettivo da parte dell’acquirente finale sarebbe spettato alla mandataria RAGIONE_SOCIALE (che quindi avrebbe potuto svalutarlo), ovvero se si trattava di un mandato con rappresentanza, nel qual caso gli effetti della vendita finale sarebbero stati imputabili direttamente al committente, e la Bolaffi non avrebbe potuto svalutarlo. Al contrario, la C.T.R. si è limitata ad affermare genericamente ed apoditticamente che «il contratto di commissione è un mandato di rappresentanza», senza tuttavia alcun riferimento specifico ai contratti relativamente ai quali è stato operato il rilievo.
4.6. Il sesto motivo è inammissibile.
Vertendosi, infatti, in ipotesi di ‘doppia conforme’, avendo la pronuncia d’appello confermato, in parte qua , la decisione di primo grado, il motivo in questione non è ammissibile, ai sensi dell’art. 348 -ter , comma 5, c.p.c., vigente ratione temporis al momento della proposizione del ricorso per cassazione.
4.7. Il settimo motivo è invece infondato.
Il motivo in questione riguarda il rilievo n. 4) dell’avviso di accertamento, che attiene al recupero a tassazione di elementi negativi di reddito non deducibili, consistente in perdite su crediti.
Orbene, l’art. 101, comma 5, d.P.R. n. 917/1986, prevede che «le perdite su crediti sono deducibili se risultano da elementi certi e precisi e in ogni caso (…) se il debitore è assoggettato a procedure concorsuali». La norma -nella formulazione antecedente la novella di cui alla L. 27 dicembre 2013, n. 147, art. 1, secondo il quale «gli elementi certi e precisi sussistono inoltre in caso di cancellazione dei crediti dal bilancio operata in applicazione dei principi contabili» – valorizza una accezione dell’abbattimento della base imponibile conseguente alla contabilizzazione di perdite su crediti non sovrapponibile alla relativa nozione civilistica, in quanto non consente la deduzione di crediti secondo il postulato della prudenza (art. 2425bis c.c., n. 1), bensì secondo il criterio della irrecuperabilità del credito in termini di certezza, ossia in caso di definitiva inesigibilità o irrecuperabilità dello stesso (Cass. 4 maggio 2018, n. 10686).
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ove la deducibilità della perdita su crediti non sia correlata all’assoggettamento del debitore a procedure concorsuali, gli elementi certi e precisi che danno luogo a dette perdite su crediti possono ritenersi esistenti solo quando il debitore non paghi volontariamente e i crediti non possano essere soddisfatti coattivamente (Cass. 3 ottobre 2018, n. 24012; Cass., Sez. V, 23 dicembre 2014, n. 27296). In particolare, ove la perdita derivi da rinuncia al credito, occorre che l’atto unilaterale di rinuncia (come anche la transazione) sia giustificato da una effettiva irrecuperabilità del credito, poiché, diversamente, rientrerebbe negli atti di
liberalità indeducibili ai fini fiscali (Cass. 20 aprile 2016, n. 7860; Cass. 27 aprile 2018, n. 10211; Cass. 22 novembre 2018, n. 30224). In altri termini, la scelta del legislatore protempore è quella di agganciare la contabilizzazione della componente negativa di reddito alla circostanza oggettiva della irrealizzabilità del credito, anche in sede esecutiva, e non a valutazioni di opportunità o di strategia imprenditoriale che, pur risultando antieconomiche, sono destinate a creare valore su altri fronti (Cass. 15 giugno 2021, n. 16829; Cass. 19 gennaio 2021, n. 743).
Nel caso di specie, non viene contestato, con il motivo in questione, quanto affermato nella sentenza impugnata, e cioè che la società ricorrente non avesse posto in essere le procedure di legge per il recupero del credito, ragion per cui correttamente l a stessa C.T.R. ha confermato il rilievo contenuto nell’avviso di accertamento.
4 .8. Anche l’ottavo motivo è infondato.
Non sussiste, infatti, il vizio di omessa pronuncia su specifico motivo di appello, in quanto la C.T.R. ha specificamente motivato sul punto, ritenendo legittima la ripresa a tassazione, da parte dell’Ufficio, della somma di € 35.468,99 per omaggi a clie nti, come tali indeducibili, essendo superiori all’importo unitario di € 25,82. Non pare, peraltro, che tali costi possano essere indicati come sconti praticati ai clienti abituali, in quanto, in tal caso, avrebbero inciso sui ricavi (che sarebbero stati inferiori rispetto a quelli dichiarati), e non certo sui costi di esercizio.
4.9. Il nono motivo è anch’esso infondato.
Ed invero, la ricorrente censura la sentenza impugnata, con riferimento alla determinazione del quantum degli interessi
passivi indeducibili, relativamente a dure prestiti obbligazioni emessi dalla società.
Orbene, risulta pacifico che la società ha pattuito, con i sottoscrittori delle obbligazioni, quanto segue: i ) le obbligazioni sono emesse alla pari ed al portatore; ii) le obbligazione sono fruttifere di interessi annui variabili, calcolati sulla base della misura del tasso ufficiale di riferimento (TUR), aumentato di 2/3, applicato sull’importo nominale in esse re del prestito obbligazionario; iii ) il tasso ufficiale di sconto di riferimento (o suo equivalente in caso di sua futura abrogazione o sostituzione) è quello rilevato rispettivamente il 30 novembre per le cedole scadenti il 1° gennaio ed il 31 maggio per le cedole scadenti il 1° luglio.
Orbene, l’art. 3, comma 115, della legge n. 549/1995, vigente ratione temporis , stabilisce che, nel caso in cui il tasso di rendimento effettivo sugli interessi ed altri proventi delle obbligazioni sia superiore ai limiti indicati nel terzo periodo del comma 1 dell’art. 26 del d.P.R. n. 600/1973, gli interessi passivi eccedenti l’importo derivante dall’applicazione dei predetti tassi sono indeducibili dal reddito d’impresa.
Il suddetto art. 26, comma 1, terzo periodo, nel testo vigente ratione temporis , stabilisce che «se i titoli indicati nel precedente periodo sono emessi da società o enti, diversi dalle banche, il cui capitale è rappresentato da azioni non negoziate in mercati regolamentati degli Stati membri dell’Unione europea e degli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo che sono inclusi nella lista di cui al decreto ministeriale emanato ai sensi dell’articolo 168bis del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, ovvero da quote, l’aliquota del 12,50
per cento si applica a condizione che, al momento di emissione, il tasso di rendimento effettivo non sia superiore: a ) al doppio del tasso ufficiale di riferimento, per le obbligazioni ed i titoli similari negoziati in mercati regolamentati degli Stati membri dell’Unione europea e degli Stati aderenti all’Accordo sullo spazio economico europeo che sono inclusi nella lista di cui al citato decreto, o collocati mediante offerta al pubblico ai sensi della disciplina vigente al momento di emissione; b ) al tasso ufficiale di riferimento aumentato di due terzi, per le obbligazioni e i titoli similari diversi dai precedenti».
Nel caso di specie si configura quest’ultima ipotesi, per cui, posto che il tasso effettivo di rendimento è quello vigente al momento dell’emissione, indipendentemente dalle successive variazioni, e un prestito il cui tasso effettivo non sia superiore al tasso ufficiale di riferimento aumentato di due terzi ex art. 26, comma 1, terzo periodo, d.P.R. n. 600/1973, usufruirà della ritenuta nella misura del 12,50%, anche qualora il suo rendimento effettivo dovesse successivamente superare quello massimo ammes so; in questo caso, l’indeducibilità degli interessi dovrà riguardare unicamente quelli eccedenti l’importo derivante dall’applicazione del tasso di riferimento aumentato di due terzi (c.d. tasso soglia), che costituirà, quindi, per tutta la durata del prestito, il limite massimo di deducibilità degli interessi passivi dovuti dall’emittente, anche qualora il rendimento del prestito dovesse cresce per effetto di meccanismi di indicizzazione.
Non può, peraltro, accogliersi la tesi della ricorrente, secondo la quale il confronto tra i tassi -ai fini della determinazione di quelli deducibili -debba essere effettuato tra il ‘tasso soglia’ vigente di volta in volta al 30 novembre (per le cedole scadenti
il 1° gennaio) ovvero al 31 maggio (per le cedole scadenti il 1° luglio) e il tasso di rendimento effettivo eventualmente rettificato in ragione della periodicità infrannuale di liquidazione degli interessi. Tale interpretazione, invero, favorirebbe facili manovre di aggiramento della norma di cui all’art. 3, comma 115, legge n. 549/1995, in contrasto con la ratio antielusiva della sessa: infatti, nell’ipotesi in cui, al momento di emissione, il tasso di rendimento effettivo non fosse superiore al tasso ufficiale di riferimento aumentato di due terzi, la parte acquisirebbe il diritto a fruire dell’integrale deducibilità degli interessi passivi anche nel caso in cui fosse previsto nel regolamento un incremento del tasso di rendimento effettivo, magari a fronte di eventi altamente probabili o addirittura certi.
4.10. Anche il decimo motivo del ricorso principale è infondato.
La ricorrente deduce che l’applicazione del principio di buona fede, ai fini dell’esclusione dell’applicazione delle sanzioni e degli interessi, previsto dall’art. 10, comma 2, della legge n. 212/2000, avrebbe dovuto portare la C.T.R. ad escludere anche le maggiori imposte accertate nei suoi confronti.
Tuttavia, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il principio di affidamento non può costituire legittima aspettativa circa l’interpretazione delle norme tributarie, dovendo tale principio essere valutato avendo riguardo all’inderogabilità delle norme tributarie ed all’indisponibilità della relativa obbligazione (Cass. 21 settembre 2022, n. 27706; Cass. 27 marzo 2019, n. 8514). Di converso, il legittimo affidamento del contribuente incide sugli aspetti sanzionatori conseguenti all’inadempimento colpevole dell’obbligazione tributaria, ma non può operare sulla debenza ex lege del tributo, che prescinde del tutto dalle intenzioni manifestate dalle parti del rapporto fiscale,
dipendendo esclusivamente dall’obiettiva realizzazione dei presupposti impositivi (Cass. 25 marzo 2015, n. 5934). Deve quindi escludersi che sul principio di affidamento il contribuente possa fondare una legittima aspettativa sulla metodologia di accertamento.
In conclusione, pertanto, del ricorso proposto dalla RAGIONE_SOCIALE va accolto unicamente il quinto motivo.
Venendo ora ad esaminare il ricorso incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate, la Corte osserva quanto segue.
5.1. Il primo motivo deve ritenersi inammissibile.
L’Agenzia delle entrate, invero, denuncia violazione dell’art. 132 c.p.c. e dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992, con riferimento ad una asserita contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata, con riferimento alla parte di tale sentenza con la quale la C.T.R. ha escluso l’applicabilità delle sanzioni, con riferime nto all’efficacia di fonte di legittimo affidamento dell’accertamento con adesione intervenuto inter partes in data 21 luglio 2009 per il periodo di imposta 2005, che, nella stessa sentenza, viene ritenuto, tuttavia, come atto non idoneo a legittimare un affidamento del contribuente anche per gli accertamenti per gli anni futuri.
Sul punto, va rilevato, tuttavia, che il vizio di contraddittorietà della motivazione non è più censurabile con ricorso per cassazione.
Peraltro, la presunta contraddittorietà pare, nel caso di specie, frutto, in realtà, di mero errore materiale. Nel passaggio interessato dalla censura, infatti, si legge quanto segue: «ritiene il Collegio che le risultanze conseguenti il perfezionamento e conclusione di una procedura di accertamento con adesione non sono siano idonee a legittimare un affidamento del contribuente
circa la validità di tali risultanze anche per i casi (analoghi) futuri in essere tra le stesse parti ed in pendenza di validità delle della norma giuridica impositrice», laddove è evidente che le parole ‘non sono’ sono state aggiunte per un mero lapsus ca lami in sede di redazione della sentenza, nel mentre la volontà del giudice è chiaramente quella di escludere l’applicazione delle sanzioni proprio in forza del principio dell’affidamento, affermato nella parte immediatamente precedente della motivazione.
5.2. Il secondo motivo di ricorso incidentale deve invece ritenersi fondato.
Ritiene la C.T.R. che l’atto di adesione in questione, relativo a diversa annualità, abbia determinato un legittimo affidamento della parte contribuente circa la continuità delle valutazioni e del comportamento dell’Ufficio, soprattutto in un caso, come quello oggetto del presente giudizio, in cui si verte sulle stesse questioni.
Deve tuttavia rilevarsi che l’accertamento con adesione vincola sia il contribuente che l’Amministrazione finanziaria e, in particolare, preclude a quest’ultima una ulteriore attività accertatrice (salve le deroghe previste dall’art. 2, comma 4, d.lgs. n. 218/1997) solo per il periodo di imposta interessato dall’accordo, che costituisce il limite oggettivo della definizione concordata fra le parti. Al contrario, per gli altri periodi d’imposta, l’accertamento con adesione non ha carattere vincolante per le parti, non potendo certo essere paragonato ad un giudicato, con gli effetti esterni tipici di questo, con particolare riferimento ai presupposti fattuali posti a fondamento della pretesa impositiva.
Sul punto, va evidenziato che, in materia tributaria, l’accertamento con adesione, pur essendo il risultato di un accordo tra l’amministrazione finanziaria e il contribuente, costituisce una forma di esercizio del potere impositivo, non assimilabile, in quanto tale, ad un atto di diritto privato, sicché esso non ha natura di atto amministrativo unilaterale, né di contratto di transazione, stante la disparità delle parti e l’assenza di discrezionalità in ordine alla pretesa tributaria, ma configura un accordo di diritto pubblico, il quale, in ragione di ciò, non è soggetto alle disposizioni del codice civile in tema di transazione, ma alla speciale disciplina pubblicistica contenuta nel d.lgs. n. 218 del 1997, avente carattere cogente siccome afferente all’obbligazione tributaria, ai suoi presupposti e alla base imponibile (in tal senso Cass. 26 maggio 2021, n. 14568). Proprio il profilo dell’accordo, tuttavia, limita l’efficacia dell’accertamento entro i limiti (contenutistici e temporali) in cui tale accordo si è formato, non potendosi quindi estendere l’efficacia di tale accordo, con riferimento ai presupposti ed al periodo dell’imposta, oltre i termini ed i limiti in esso indicati. In ragione di ciò, non può certo affermarsi che l’Amministrazione finanziaria, procedendo all’accertamento per gli anni successivi, abbia violato il canone di correttezza di cui all’art. 10, comma 1, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (c.d. statuto del contribuente), né che l’adesione dell’Ufficio per una certa annualità possa creare un legittimo affidamento circa periodo di imposta diversi e futuri (art. 10, comma 2, legge n. 212/2000), non potendosi certo considerare l’accordo raggiunto per un determinato periodo d’imposta ostativo con riferimento ad accertamenti relativi a periodi d’imposta successivi, tanto più che, essendosi in presenza di comportamenti elusivi, il
contribuente non può considerarsi sorpreso dall’attività accertatrice dell’Amministrazione finanziaria (cfr., da ultimo, Cass. 24 maggio 2022, n. 16675).
In conclusione, pertanto, con riferimento al ricorso incidentale, il primo motivo deve essere dichiarato inammissibile, mentre il secondo motivo deve essere accolto.
La sentenza impugnata deve quindi essere cassata, in relazione al quinto motivo di ricorso principale ed al secondo motivo di ricorso incidentale accolto, con rinvio, per nuovo giudizio sul punto, alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Piemonte, in diversa composizione, la quale provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
P. Q. M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Accoglie il quinto motivo del ricorso principale, e rigetta nel resto il medesimo ricorso.
Accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, e dichiara inammissibile il primo motivo dello stesso ricorso incidentale Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del Piemonte, la quale provvederà anche alla regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 23 gennaio 2025.