Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 18051 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 18051 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: CORTESI NOME
Data pubblicazione: 03/07/2025
ORDINANZA
sul ricorso n.r.g. 16998/2017, proposto da:
COGNOME NOME COGNOME rappresentato e difeso, per procura allegata alla memoria di costituzione di nuovo difensore depositata il 30 maggio 2025 , dall’Avv. F COGNOME elettivamente domiciliato presso il suo indirizzo di posta elettronica certificata
– ricorrente –
contro
RAGIONE_SOCIALE , in persona del direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale è domiciliata in ROMA, INDIRIZZO
-controricorrente –
avverso la sentenza n. 7565/2016 della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 20 dicembre 2016; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 6 giugno 2025 dal consigliere dott. NOME COGNOME
Rilevato che:
L’amministrazione finanziaria notificò a NOME COGNOME due avvisi di accertamento con i quali rettificava il reddito imponibile, ai fini Irpef e Iva per gli anni d’imposta 2008 e 2009, rilevando la deduzione di costi non inerenti e la mancata contabilizzazione di ricavi.
Tali circostanze erano emerse a seguito di verifiche sulla movimentazione bancaria del contribuente.
Quest’ultimo impugnò gli atti impositivi con distinti ricorsi, poi riuniti dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, che li rigettò, salvo prendere atto del fatto che l’Ufficio aveva successivamente annullato parte della ripresa relativa all’anno di imposta 2008.
Il Diaco propose appello, che venne respinto con la sentenza indicata in epigrafe.
I giudici regionali ritennero che gli avvisi fossero sufficientemente motivati ed esenti dai vizi di illegittimità che il contribuente aveva imputato a violazioni del principio del contraddittorio; quindi, nel merito, osservarono che la pretesa impositiva si fondava su basi probatorie presuntive, rispetto alle quali non era stata contrapposta una valida prova contraria.
NOME COGNOME ha impugnato la sentenza d’appello con ricorso per cassazione affidato a cinque motivi.
L’Agenzia delle entrate ha resistito con controricorso.
Il 26 giugno 2019 è stato depositato un atto di «rinuncia al ricorso», nel quale si afferma che il contribuente ha «aderito alla definizione agevolata ai sensi dell’articolo 6 codice 6 del D.L. n. 119/2018
convertito in Legge n° 136/2018», con richiesta di «sospensione delle cartelle in essere».
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso è denunziata violazione degli artt. 32 del d.P.R. n. 600/1973 e 51 del d.P.R. n. 633/1972.
La sentenza d’appello è sottoposta a critica «ai sensi dell’art. 360 n. 1, 2, 3, 4, 5 c.p.c.» in quanto sarebbe «del tutto illegittima per palese violazione e falsa applicazione delle disposizioni di legge»; viene richiamata, al riguardo, la sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, con la quale è stata dichiarata illegittima la presunzione di non giustificazione dei prelievi bancari operati dai lavoratori autonomi.
Con il secondo motivo, pur senza evidenziare alcuna specifica violazione di norme di legge, il ricorrente assume che i giudici d’appello avrebbero errato nel non attribuire valore probatorio ad alcuni documenti, da lui ritenuti idonei a superare le presunzioni in favore dell’erario, fra i quali «dichiarazioni di terzi beneficiari di determinati assegni», «restituzione di prestiti a familiari già parzialmente avvenuti» e la documentazione che consentiva di appurare che egli aveva prelevato denaro per consentire al fratello l’acquisto di un immobile.
Anche il terzo motivo non reca indicazione delle norme violate; il ricorrente, ad ogni modo, assume che la C.T.R. avrebbe errato nel non dichiarare la nullità dell’atto impositivo in quanto non corredato del provvedimento di autorizzazione alle indagini bancarie.
Con il quarto motivo, formulato in via di subordine, il ricorrente denunzia la sussistenza di un’ulteriore causa di invalidità dell’avviso impugnato, in quanto «basato esclusivamente sul riscontro delle movimentazioni bancarie e non suffragato da altre prove».
Infine, con il quinto motivo, il ricorrente denunzia la sussistenza di un ulteriore profilo di nullità dell’atto impositivo, ravvisata nella
«mancata indicazione della natura del presunto reddito accertato», verosimilmente imputatogli a titolo di reddito d’impresa, e ciò quantunque egli non esercitasse attività imprenditoriale.
In relazione alla dichiarazione di rinunzia al ricorso, ritiene preliminarmente il Collegio che la stessa sia priva di effetto.
Anzitutto, la dichiarazione appare, in quanto tale, sprovvista dei requisiti minimi affinché possa esserle ricondotto alcun effetto abdicativo.
Non si comprende, infatti, se essa sia stata sottoscritta dalla parte personalmente o dal difensore, poiché l’atto ha firma illeggibile ed è redatto in forma impersonale; il difensore non risulta munito del potere di rinunziare agli atti del giudizio (né dello specifico potere di conciliare e transigere, ciò che, giusta quanto statuito da questa Corte con la sentenza n. 15016/2005, si sarebbe potuto ritenere sufficiente a ll’uopo), e la firma, ove resa personalmente dal ricorrente, non è stata autenticata.
L’atto contiene, poi, una richiesta di «sospensione delle cartelle», il che osta ad attribuirgli inequivocabilmente il significato di una manifestazione di volontà di abbandono della lite.
Né, del resto, appare rilevante il riferimento alla definizione agevolata della controversia ex art. 6 del d.l. n. 119/2018, mancando la prova del pagamento degli importi dovuti ai sensi del comma 6 di tale disposizione.
Procedendo, quindi, all’esame del ricorso, il primo motivo è inammissibile sotto diversi profili.
Per un verso, infatti, esso si compone di più censure, fra loro sovrapposte (la sentenza sarebbe illegittima «ai sensi dell’art. 360 n. 1, 2, 3, 4, 5 c.p.c.»), che non consentono di comprendere se, al di là delle espressioni utilizzate nella rubrica, il ricorrente abbia inteso
dolersi della motivazione del provvedimento impugnato o dell’erronea applicazione delle norme di legge evocate; siffatta articolazione del motivo, che ridonda in un chiaro difetto di specificità, è acuita dal fatto che il ricorrente non indica né riporta le parti della sentenza impugnata meritevoli di riforma, tantomeno con riguardo al tema della decisione della Corte costituzionale che invoca.
In ogni caso, ove interpretata come denunzia di una violazione di legge, la censura si risolve in una richiesta di rivalutazione delle prove poste a fondamento della decisione dei giudici d’appello, che, com’è noto, sfugge all’ambito del sindacato proprio del giudizio di legittimità.
Il secondo motivo è manifestamente inammissibile per difetto di autosufficienza.
Il ricorrente lamenta, infatti, l’omesso esame di documenti senza indicarli, senza specificare dove e quando li avrebbe prodotti in sede d’appello e riassumendone in modo generico il contenuto, sì da non consentirne neppure in via indiretta l’identificazione.
Il terzo motivo è infondato.
Al riguardo, basti richiamare il consolidato orientamento di questa Corte (per tutte, da ultimo, Cass. n. 4853/2024), secondo cui, in tema di indagini bancarie, l’autorizzazione ex art. 51, comma 2, num. 7), del d.P.R. n. 633 del 1972, esplica una funzione organizzativa, incidente nei rapporti tra uffici, cosicché dalla sua mancata allegazione ed esibizione non discende l’illegittimità dell’avviso di accertamento fondato sulle risultanze delle movimentazioni bancarie acquisite, poiché l’illegittimità dell’atto può derivare solo dalla sua materiale assenza e sempre che ne sia derivato un concreto pregiudizio per il contribuente.
Il quarto e il quinto motivo, meritevoli di scrutinio congiunto in ragione di quanto si rileverà appresso, sono inammissibili.
Entrambe le censure, infatti, non contengono alcun riferimento alla sentenza impugnata, conformandosi, piuttosto, come doglianze avverso la pretesa tributaria.
Questa Corte, con numerosissime decisioni, ha affermato che il giudizio di cassazione, in quanto concepito come rimedio impugnatorio a critica vincolata, impone la specificità dei motivi, rappresentata dai caratteri della completezza e della riferibilità alla decisione impugnata; e ciò comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di argomentazioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le ragioni per le quali quel capo è affetto dal vizio denunciato.
La proposizione di censure prive di specifica attinenza al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi, richiesta dall’art. 366 n. 4 cod. proc. civ., e determina l’inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio (così, per tutte, Cass. n. 22880/2021).
11. Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
Trova applicazione, nei confronti del ricorrente, la condanna al pagamento dell’importo di cui all’art. 13, comma 1 quater , del d.P.R. n. 115/2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condannando il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a
quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte Suprema