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Accertamento bancario: costi deducibili anche presunti

La Corte di Cassazione, con una recente ordinanza, ha affrontato il tema dell’accertamento bancario a carico di un imprenditore. Pur confermando la legittimità delle procedure di firma e del contraddittorio, ha accolto un motivo di ricorso cruciale: in un accertamento bancario, i costi correlati ai maggiori ricavi presunti dai prelievi devono essere sempre dedotti, in linea con un principio della Corte Costituzionale. La sentenza è stata cassata con rinvio per il ricalcolo delle imposte.

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Pubblicato il 12 dicembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Accertamento bancario e deducibilità dei costi: la Cassazione fa chiarezza

Una recente ordinanza della Corte di Cassazione interviene su un tema centrale del diritto tributario: l’accertamento bancario. La decisione analizza diversi profili procedurali, ma il suo cuore pulsante risiede nell’affermazione di un principio fondamentale, in linea con la Corte Costituzionale: anche quando i ricavi sono determinati in via presuntiva sulla base dei prelevamenti bancari, i costi connessi devono essere dedotti. Questa pronuncia consolida le tutele per il contribuente, garantendo una tassazione più equa e aderente alla reale capacità economica.

I fatti di causa

Il caso riguarda un imprenditore edile destinatario di avvisi di accertamento per maggiore IVA relativa a due annualità. L’Agenzia delle Entrate aveva basato le sue pretese sulle risultanze di indagini finanziarie, contestando movimentazioni sui conti correnti personali dell’imprenditore ritenute indicative di ricavi non dichiarati. Il contribuente aveva impugnato gli atti, ma sia il giudice di primo grado che la Commissione Tributaria Regionale avevano confermato la legittimità dell’operato dell’amministrazione finanziaria. Si arrivava così al giudizio di legittimità dinanzi alla Corte di Cassazione, con il contribuente che affidava le sue ragioni a quattro distinti motivi di ricorso.

Le questioni giuridiche e la validità dell’accertamento bancario

Il ricorso si articolava su diverse censure, che la Corte ha esaminato punto per punto.

La validità della delega di firma

Il primo motivo contestava la legittimità degli atti per un presunto vizio nella delega di firma al funzionario che li aveva sottoscritti. Secondo il ricorrente, la delega era generica. La Corte ha respinto la doglianza, chiarendo che, trattandosi di una ‘delega di firma’ e non di una ‘delega di funzioni’, non è necessaria un’indicazione nominativa del delegato o una durata specifica. È sufficiente un ordine di servizio che individui l’impiegato legittimato tramite la qualifica rivestita.

Il rispetto del contraddittorio

Il secondo motivo lamentava la violazione del diritto al contraddittorio, poiché l’Ufficio non avrebbe considerato le memorie difensive presentate dal contribuente dopo la notifica del processo verbale di constatazione (PVC). Anche questa censura è stata ritenuta infondata. La Corte ha osservato che il contribuente aveva esercitato il proprio diritto presentando le memorie nel termine di legge. Ha inoltre ribadito il consolidato orientamento secondo cui l’amministrazione ha l’obbligo di ‘valutare’ le osservazioni, ma non quello di esplicitare tale valutazione nell’atto impositivo finale, a pena di nullità.

L’onere della prova nelle indagini finanziarie

Il terzo motivo è stato giudicato inammissibile. Il contribuente sosteneva che i giudici di merito avessero erroneamente invertito l’onere probatorio, pretendendo da lui la prova della separazione tra attività personale e imprenditoriale. La Corte ha chiarito che i giudici avevano correttamente applicato la presunzione legale dell’art. 32 del d.P.R. 600/1973, secondo cui le movimentazioni bancarie si presumono ricavi se il contribuente non fornisce una prova contraria convincente, prova che nel caso di specie non era stata raggiunta.

Le motivazioni della Corte di Cassazione sul punto decisivo

Il quarto motivo di ricorso si è rivelato quello vincente. Il contribuente lamentava che la sentenza impugnata avesse erroneamente negato il riconoscimento dei costi (anche forfettari e presunti) necessari per produrre i maggiori ricavi accertati. Su questo punto, la Corte di Cassazione ha accolto pienamente la tesi difensiva, operando una svolta decisiva rispetto al giudizio di merito.

La Corte ha fondato la sua decisione sulla sentenza n. 10/2023 della Corte Costituzionale, che ha rivoluzionato l’interpretazione dell’art. 32 del d.P.R. 600/1973. La presunzione su cui si basa l’accertamento bancario è duplice: i prelievi ingiustificati sono considerati costi ‘in nero’, i quali a loro volta hanno generato ricavi ‘in nero’ di pari importo. La Consulta ha stabilito che tassare questi ricavi presunti senza consentire la deduzione dei relativi costi presunti viola i principi di ragionevolezza e di capacità contributiva (art. 53 Cost.). Si finirebbe, infatti, per tassare un reddito lordo, e non netto, colpendo una ricchezza in parte inesistente.

Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha affermato che il contribuente imprenditore, a fronte della presunzione legale di ricavi derivanti da prelevamenti bancari non giustificati, ha sempre il diritto di opporre in prova l’incidenza dei costi relativi, che devono essere detratti dall’ammontare dei ricavi accertati.

Conclusioni e implicazioni pratiche

La decisione della Corte di Cassazione è di notevole importanza. Accogliendo il quarto motivo, ha cassato la sentenza impugnata e ha rinviato la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado. Il nuovo giudice dovrà procedere a un nuovo accertamento, determinando, anche in via forfettaria, i maggiori costi connessi ai maggiori ricavi accertati e scomputandoli dalla base imponibile.

Questa ordinanza rafforza un principio di equità fiscale fondamentale: non si possono presumere solo i ricavi, ma occorre riconoscere anche i costi necessari a produrli. Per gli imprenditori sottoposti ad accertamento bancario, ciò significa una maggiore garanzia di vedersi tassati sul reddito netto effettivo, anche in un contesto di accertamento presuntivo. Si tratta di un passo avanti cruciale per la tutela dei diritti del contribuente e per l’affermazione di una tassazione più giusta e aderente alla realtà economica.

È valida la firma di un funzionario su un avviso di accertamento se la delega non è nominativa?
Sì. Secondo la Corte, per una ‘delega di firma’ (che non trasferisce la funzione) è sufficiente un ordine di servizio che individui l’impiegato tramite la qualifica che riveste. Non è necessario che l’atto di delega indichi il nome specifico del funzionario o abbia una scadenza temporale precisa.

L’Agenzia delle Entrate deve rispondere per iscritto alle osservazioni del contribuente prima di emettere l’accertamento?
No. La Corte ha ribadito che, sebbene l’amministrazione finanziaria abbia l’obbligo di ‘valutare’ le osservazioni del contribuente, non è tenuta a menzionarle o a fornire una risposta esplicita nell’atto impositivo finale. La validità dell’atto non è compromessa da tale omissione, poiché il diritto di difesa è garantito dalla possibilità di presentare le memorie.

In un accertamento bancario, se i prelievi non giustificati sono considerati ricavi, è possibile dedurre i costi?
Sì. Questo è il principio cardine affermato dalla Corte. Sulla scia di una sentenza della Corte Costituzionale, è stato stabilito che quando i ricavi vengono determinati presuntivamente sulla base dei prelevamenti bancari, il contribuente ha sempre il diritto di vedersi riconosciuta la deduzione dei costi correlati, anche se determinati in via presuntiva o forfettaria. Tassare i ricavi lordi senza dedurre i costi violerebbe il principio di capacità contributiva.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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