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Accertamento bancario conti terzi: onere della prova

Un professionista è stato oggetto di un accertamento fiscale basato su movimentazioni bancarie su conti intestati a società da lui amministrate. La Corte di Cassazione ha stabilito che, in caso di accertamento bancario su conti terzi, se il contribuente non risponde a una richiesta di chiarimenti, l’onere di provare che tali somme non costituiscono reddito imponibile si sposta interamente su di lui. La sentenza di merito è stata cassata con rinvio.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Accertamento Bancario su Conti di Terzi: Silenzio e Onere della Prova

Con l’ordinanza n. 7360 del 2024, la Corte di Cassazione interviene su un tema cruciale in materia fiscale: l’accertamento bancario su conti terzi. La decisione chiarisce in modo definitivo le conseguenze del silenzio del contribuente di fronte a una richiesta di chiarimenti da parte dell’Amministrazione Finanziaria, delineando un’importante inversione dell’onere della prova. Questa pronuncia offre spunti fondamentali per professionisti e amministratori di società.

I Fatti di Causa

Un geometra professionista veniva raggiunto da un avviso di accertamento da parte dell’Agenzia delle Entrate per l’anno d’imposta 2010. L’Amministrazione contestava maggiori compensi da lavoro autonomo, desunti da un elevato numero di pratiche catastali presentate, e, soprattutto, da significative movimentazioni bancarie per circa 288.000 euro. La particolarità del caso risiedeva nel fatto che tali somme transitavano su conti correnti formalmente intestati a due società a responsabilità limitata di cui il professionista era legale rappresentante e delegato.

Nei primi due gradi di giudizio, le commissioni tributarie avevano parzialmente annullato l’accertamento. In particolare, la Commissione Tributaria Regionale (CTR) aveva ritenuto che l’Agenzia delle Entrate non avesse fornito prove sufficienti a dimostrare che i fondi sui conti societari fossero personalmente riferibili al professionista. Secondo la CTR, l’onere della prova gravava sull’Ufficio, che non lo aveva assolto.

L’accertamento bancario su conti terzi e l’inversione probatoria

La questione centrale portata all’attenzione della Cassazione riguardava la ripartizione dell’onere della prova nelle indagini finanziarie che coinvolgono conti intestati a soggetti terzi (in questo caso, le società) ma ritenuti nella disponibilità del contribuente. L’Agenzia delle Entrate sosteneva che, una volta emersa la connessione tra il contribuente e i conti, e soprattutto a fronte della mancata risposta del contribuente a una richiesta di chiarimenti (il c.d. “questionario”), la presunzione legale di maggiori ricavi operasse pienamente.

Il silenzio del professionista, invitato a giustificare le operazioni bancarie durante la fase istruttoria, diventava quindi l’elemento determinante. Secondo la tesi dell’Agenzia, tale comportamento faceva scattare un’inversione dell’onere probatorio, spostando sul contribuente il compito di dimostrare la natura non imponibile di quelle somme o la loro esclusiva pertinenza all’attività societaria.

Le Motivazioni della Cassazione

La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso dell’Agenzia delle Entrate, ribaltando la decisione della CTR. Gli Ermellini hanno enunciato un principio di diritto di fondamentale importanza pratica.

Innanzitutto, le indagini bancarie attivano una presunzione legale a favore dell’Erario. Tale presunzione non richiede i requisiti di gravità, precisione e concordanza e può essere superata solo da una prova analitica fornita dal contribuente.

Il punto cruciale della decisione è l’estensione di questo principio all’accertamento bancario su conti terzi. La Corte ha stabilito che, qualora il contribuente venga invitato a fornire giustificazioni sugli esiti delle indagini su conti a lui riconducibili (anche se intestati ad altri) e rimanga in silenzio, l’Amministrazione Finanziaria è legittimata a includere tali elementi in un accertamento induttivo puro (ex art. 39, comma 2, D.P.R. 600/1973).

Di conseguenza:
1. L’Amministrazione non è gravata da alcun ulteriore onere probatorio per dimostrare la riferibilità personale delle somme al contribuente.
2. Spetta invece al contribuente offrire una prova rigorosa della non imponibilità di tali movimentazioni o della loro estraneità alla sua sfera patrimoniale.

La CTR, gravando l’Ufficio di un onere probatorio che non gli competeva a seguito del silenzio del contribuente, ha commesso un errore di diritto. Per questo motivo, la sentenza è stata cassata con rinvio a una nuova sezione della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado.

Conclusioni

L’ordinanza n. 7360/2024 rafforza un principio cardine del contenzioso tributario: la collaborazione del contribuente in fase di verifica è un dovere, e il suo silenzio produce effetti giuridici sfavorevoli. La decisione chiarisce che chi gestisce conti societari ma è sospettato di utilizzarli per fini personali non può trincerarsi dietro la formale intestazione a terzi. Se l’Amministrazione Finanziaria chiede spiegazioni, è necessario fornirle in modo puntuale e documentato. In caso contrario, la presunzione di legge opera in modo quasi automatico, rendendo estremamente difficile la difesa in un successivo giudizio. Questa sentenza rappresenta un monito per amministratori e professionisti sulla necessità di trasparenza e collaborazione durante le fasi di controllo fiscale.

In un accertamento fiscale, chi deve provare che i movimenti su conti di società sono riferibili al socio o amministratore?
Inizialmente, l’Amministrazione Finanziaria deve dimostrare un collegamento tra il contribuente e i conti. Tuttavia, come chiarito dalla sentenza, se l’Ufficio invita il contribuente a fornire giustificazioni e questi non risponde, l’onere di provare che le somme non costituiscono reddito personale si sposta interamente sul contribuente stesso.

Quali sono le conseguenze se non si risponde a un questionario dell’Agenzia delle Entrate durante un’indagine bancaria?
La mancata risposta ha conseguenze molto gravi. Comporta l’inversione dell’onere della prova: il Fisco non è più tenuto a dimostrare la riferibilità delle somme, e spetta al contribuente fornire la prova rigorosa della loro estraneità alla propria sfera imponibile. Ciò legittima l’utilizzo dell’accertamento induttivo puro da parte dell’Ufficio.

È sufficiente in appello riproporre le stesse argomentazioni del primo grado per evitare che il ricorso sia dichiarato inammissibile?
Sì, nel processo tributario è sufficiente. La Corte di Cassazione ha confermato che, in virtù del principio devolutivo pieno che caratterizza l’appello tributario, la riproposizione delle doglianze già esposte in primo grado è idonea a sottoporre nuovamente la questione al giudice del gravame per un riesame completo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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