Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 24463 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 24463 Anno 2025
Presidente: NOME
Relatore: NOME
Data pubblicazione: 03/09/2025
ORDINANZA
Sul ricorso n. 18483-2016, proposto da:
COGNOME NOME COGNOME c.f. CODICE_FISCALE, elettivamente domiciliato in Roma, alla INDIRIZZO presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME rappresentato e difeso dagli avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME
Ricorrente
CONTRO
AGENZIA DELLE ENTRATE , cf 06363391001, in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, INDIRIZZO presso l’Avvocatura Generale dello Stato –
Resistente
Avverso la sentenza n. 865/23/2016 della Commissione tributaria regionale della Campania, depositata il 3.02.2016; .04.2025
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’11 dal Consigliere dott. NOME COGNOME
Accertamento – Indagini
bancarie
–
Prova –
lavoratore autonomo
FATTI DI CAUSA
L ‘Agenzia delle entrate notificò a COGNOME NOME l’avviso d’accertamento, c on cui contestò ai fini Irpef, Iva ed Irap un maggior reddito di lavoro autonomo, conseguito nell’anno 200 9 e pari ad € 91.078,00.
L’accertamento, fondato sulla verifica delle movimentazioni bancarie relative ai conti correnti intestati al contribuente, fu impugnato dal COGNOME dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Caserta, che con sentenza n. 1702/10/2014 accolse solo in parte il ricorso, riducendo la maggiore pretesa erariale ad € 84.900,00. L’appello , con cui il contribuente insisteva sulle proprie ragioni, fu rigettato dalla Commissione tributaria regionale della Campania con sentenza n. 865/23/2016.
Il giudice regionale, all’esito dell’esame dei motivi d’appello e della documentazione allegata dal contribuente a sostegno delle proprie difese, in particolare degli atti afferenti un prestito che si assumeva concesso dal padre del ricorrente, NOME, in favore di una terza persona, che anche dopo il decesso del mutuante aveva proceduto alla restituzione del dovuto, ha disatteso tutte le difese dell’appellante, confermando le statuizioni di primo grado.
Avverso la decisione il COGNOME ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidato a nove motivi, ulteriormente illustrati da memoria, cui ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Nell’adunanza camerale dell’11 aprile 2025 la causa è stata trattata e decisa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorrente, in via preliminare, ha eccepito gli effetti di giudicato esterno sul presente giudizio della sentenza n. 9146/49/2015, pronunciata dalla stessa Commissione tributaria regionale campana, intervenuta tra le medesime parti e relativa all’anno 2008, pronuncia che si assume non impugnata e divenuta pertanto definitiva. In essa, si sostiene nel ricorso, il giudice regionale avrebbe riconosciuto che una parte dei maggiori ricavi contestati al RAGIONE_SOCIALE fossero somme restituite da tale COGNOME NOME per un mutuo concesso dal padre del ricorrente, NOME, ormai defunto, somme che il debitore avrebbe pertanto continuato a restituire all’odierno ricorrente quale suo erede. Su tale accertamento, in assenza di impugnazione della sentenza da parte della Agenzia, doveva intendersi
conseguito un giudicato con efficacia esterna, incidente dunque sul presente giudizio, relativo all’anno d’imposta 2009, e nel quale il contribuente aveva sostenuto che l’importo di € 84.900,00 rappresentava gli ulteriori acconti corrisposti dal D’Abbraccio per onorare il prestito.
L’eccezione non ha pregio.
Va premesso che in tema di efficacia del giudicato esterno, qualora due giudizi tra le stesse parti facciano riferimento al medesimo rapporto giuridico, ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe la cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo. Tale efficacia, riguardante anche i rapporti di durata, non trova ostacolo, in materia tributaria, nel principio dell’autonomia dei periodi d’imposta (Sez. U, 16 giugno 2006, n. 13916). Con riguardo a tale ultimo aspetto la medesima pronuncia ha infatti puntualizzato che, pur se tale autonomia comporta di regola l’indiffe renza della fattispecie costitutiva dell’obbligazione relativa ad un periodo d’imposta rispetto ai fatti che si siano verificati fuori dal periodo considerato, tale indifferenza trova giustificazione solo in relazione a quei fatti che non abbiano caratteristica di durata e siano comunque variabili da periodo a periodo, ritenendo al contrario che facciano stato le qualificazioni giuridiche (residente o non residente, ente commerciale o non commerciale, ecc.) o altri elementi preliminari, capaci di avere una stabilità ultrannuale.
Può conseguentemente affermarsi che in relazione alle imposte periodiche l’effetto vincolante del giudicato esterno è limitato ai soli casi in cui vengano in esame fatti che per legge hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi di imposta, o fattispecie per le quali l’accertamento concerne la ‘qualificazione’ di un rapporto ad esecuzione prolungata (cfr. Cass., 4 marzo 2021, n. 5939; 28 novembre 2019, n. 31084). Deve cioè trattarsi di elementi costitutivi della fattispecie, capaci di estendersi ad una pluralità di periodi di imposta, assumendo così carattere tendenzialmente permanente (cfr. Cass.,
15 settembre 2017, n. 21395; inoltre 7 dicembre 2021, n. 38950; 3 marzo 2021, n. 5766; 10 ottobre 2019, n. 25516; si veda anche 16 maggio 2019, n. 13152).
Così perimetrato l’alveo entro cui occorre apprezzare ‘l’oggetto’ dell’efficacia del giudicato esterno, va intanto precisato che la sentenza invocata dal contribuente non poteva fare stato, non riportando alcuna dichiarazione del suo passaggio in giudicato, trattandosi anzi di sentenza impugnata dinanzi alla Corte di legittimità ed oggetto di trattazione nella stessa udienza in cui è in trattazione il presente processo.
Ma, ancorché voglia considerarsi che quella statuizione della decisione relativa all’anno d’imposta 2008 , favorevole al contribuente, non sia stata impugnata dall’amministrazione finanziaria, comunque essa non è idonea ad assumere alcun effetto di giudicato esterno. Nel caso di specie, infatti, non viene definito un rapporto giuridico, sia esso uno stato giuridico oppure la qualificazione giuridica di un rapporto negoziale, né risulta accertato un fatto materiale, in grado cioè di assumere anche fuori da quel processo effetti permanenti. Nel caso di specie invece vi è una valutazione, operata dal giudice nell’alveo di un ponderato giudizio su vari elementi indiziari, all’esito del cui governo quel giudice ha rite nuto di evincere l’esistenza di giustificazioni addotte dal contribuente in grado di vincere la presunzione legale di ricavi non dichiarati e versati sul conto corrente bancario nell’anno d’imposta 2008. Ma tale vaglio non può estendere la sua efficacia nel successivo anno d’imposta 2009, oggetto del presente giudizio, se non altro perché i termini di paragone non sono più sovrapponibili. E nel caso di specie, mentre nel 2008 il versamento da giustificare corrispondeva all’importo di € 8.250,00, nel 2009 era pari ad € 84.900,00.
Non solo. Quel giudizio di valore, reso dal giudice del processo relativo all’anno d’imposta 2008, secondo cui la documentazione relativa al mutuo che si assumeva contratto nel 2007 ed era riportato nell’atto di ricognizione di debito redatto il 3.05.2013 dinanzi a notaio (in data successiva alla notifica dall’avviso d’accertamento dunque), non poteva certo vincolare il giudizio del giudice del processo relativo all’anno d’imposta 2009, tanto più che, se è vero che la ricognizione di debito non costituisce un’autonoma fonte di obbligazione -per essere una dichiarazione unilaterale recettizia-, ma determina un’astrazione meramente processuale della causa debendi che si
traduce nell’inversione dell’onere della prova circa l’esistenza del rapporto fondamentale, incombendo sull’autore della ricognizione l’onere di allegare e provare che tale rapporto non è mai sorto o è invalido o si è estinto (cfr. Cass., 10 dicembre 2024, n. 31818; 10 ottobre 2016, n. 20689), anche lo stesso onere probatorio, che a seguito della ricognizione grava sul soggetto che quel debito ha riconosciuto, ai fini impositivi non può certo vincolare l’erario, che rispetto a quella ricognizione è un terzo, né, tanto meno, può costituire una prova di un pregresso rapporto giuridico, capace di far assumere, ad una sentenza che di essa ne tenga conto ai fini della decisione, l’effetto di giudicato esterno nei confronti dell’Agenzia delle entrate, e dunque in ipotesi di controversia per diversi anni d’imposta.
In altri termini, la valutazione emersa nella sentenza di cui si invoca l’efficacia di giudicato esterno, non è altro che un giudizio di valore, incidente senz’altro nel processo in cui il giudice ha ponderato i complessivi indizi e le prove allegate da ci ascuna delle parti, giungendo a riconoscere l’esistenza di giustificazioni ad operazioni bancarie altrimenti evidenzianti ricavi professionali non dichiarati, ma il cui valore resta circoscritto in seno a quella pronuncia, senza alcuna efficacia esterna di quel giudicato in un altro giudizio.
L’eccezione in conclusione va rigettata. Da ciò discende anche che tutte le ragioni, per le quali nei motivi appresso vagliati è stato invocato il giudicato esterno, sono inappropriate e prive di pregio.
Nel merito, con il primo motivo (n. 2 in ricorso) il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 32, comma 1, n. 2, dell’art. 38, comma 4 e segg., e 39, comma 1, lett. C), d.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c .p.c. Con la censura si sostiene che il giudice d’appello non avrebbe tenuto conto delle novità introdotte nell’art. 38 cit. dal d.l. 31 maggio 2010, n. 78, conv. in l. n. 122 del 2010.
Il motivo è incomprensibile ed è inammissibile perché, invocando l’art. 38 cit. e le modifiche portate alle regole d’accertamento sintetiche del reddito, che vanno ricondotte alle verifiche delle spese sostenute nel periodo d’imposta, sostanzialmente dunque al tenore di vita del contribuente assunto ad elemento presuntivo della disponibilità di maggiori redditi rispetto al dichiarato, non coglie nel segno. La sentenza, infatti, e prima della sentenza il tipo d’accertamento condotto nei confronti del contrib uente, non era di tipo
sintetico, ma fondato sulle presunzioni legali del reddito a seguito di verifiche bancarie.
Con il secondo motivo (n. 3 in ricorso) si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 32, comma 1, n. 2, 38, comma 4 e segg., 39, comma 1, lett. c), d.P.R. n. 600 del 1973, nonché degli artt. 1813, 2702, 2704 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La difesa del contribuente sostiene che il giudice regionale non avrebbe tenuto conto delle prove documentali preesistenti all’accertame nto e della valenza probatoria delle dichiarazioni rilasciate da terzi , così pervenendo all’erroneo convincimento della irrilevanza delle stesse e per l’effetto all’ erronea statuizione di rigetto dell’appello.
Il motivo, che continua ad invocare incomprensibilmente la disciplina degli accertamenti sintetici, è comunque infondato.
Va premesso che nella sentenza impugnata il giudice regionale ha analizzato gli elementi allegati dal contribuente per contrastare le prove legali desunte dall’ufficio dalla verifica bancaria. Concentrando l’attenzione su quella che costituirebbe la giustificazione assorbente delle movimentazioni bancarie contestate per l’anno d’i mposta 2009, ossia il versamento di € 81.750,00, spiegata dal contribuente per la sua ricezione da parte del COGNOME, presunto debitore paterno, mette in evidenza che gli elementi portati a sostegno della causa di quel versamento sono del tutto privi di riscontri obiettivi. A tal fine valorizza la circostanza che i documenti allegati al processo (fotocopia di cinque ricevute rilasciate dal ricorrente al presunto debitore, la scrittura privata di un contratto di mutuo), sono prive di data certa, ancorché riportino date anteriori all’accertamento, risalenti anche al 2006. Esamina e valuta anche l’unico atto con data certa, la ricognizione di debito redatta dinanzi al notaio. La dat a riportata sull’atto notarile è tuttavia di epoca successiva alla notifica dell’avviso d’accertamento. Condivide, dunque, facendola propria con motivazione autonoma, la valutazione del giudice provinciale, secondo cui quei documenti sono ininfluenti nei confronti de ll’Agenzia delle entrate, soggetto terzo rispetto a formali impegni negoziali e a presunti adempimenti agli obblighi del mutuatario. Critica, infine, gli altri motivi perché generici, e rileva l’inammissibilità dei motivi aggiunti con la memoria depositata il 6/11/2015.
Ebbene, alla luce delle argomentazioni utilizzate dal giudice regionale, la censura è infondata.
Il ricorrente espone le ragioni per le quali la documentazione allegata già in fase endoprocedimentale spiegava e giustificava le movimentazioni bancarie contestate dall’Ufficio, con particolare riguardo alle ricevute e alle dichiarazioni di terzi, dalle quali desumere che gli importi corrispondenti ai versamenti trovavano causa in prestiti concessi a terzi dal padre del ricorrente, nelle more deceduto ed a lui pertanto via via restituiti.
Ebbene, in tema di accertamento dei redditi a mezzo di verifiche condotte sui conti correnti del contribuente, questa Corte ha affermato che la presunzione ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 consente all’ Ufficio di riferire de plano ad operazioni imponibili i dati raccolti in sede di accesso ai conti correnti bancari del contribuente, cui è fatta salva la prova contraria; la legittimità della utilizzazione degli elementi risultanti dalle movimentazioni bancarie non è neppure condizionata alla previa instaurazione del contraddittorio preventivo (Cass., 15 maggio 2013, n. 11624; 27 febbraio 2019, n. 5777).
Q uanto al concreto atteggiarsi dell’onere probatorio, quello dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 cit., attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, determinandosi un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale deve dimostrare, con una prova non generica ma analitica per ogni versamento bancario, che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili (Cass., 27 giugno 2011, n. 14041; 26 aprile 2017, n. 10249; 29 luglio 2016, n. 15857; 20 marzo 2019, n. 7758; tra le più recenti, 31 gennaio 2024, n. 2928; 18 settembre 2024, 25043; 4 ottobre 2024, n. 26014).
Non è sufficiente una prova generica circa ipotetiche distinte causali dell’affluire di somme sui conti correnti, ma è necessario che il contribuente fornisca la prova analitica della riferibilità di ogni singola movimentazione alle operazioni già evidenziate nelle dichiarazioni ovvero dell’estraneità delle stesse alla sua attività, con conseguente non rilevanza fiscale (Cass., 18 settembre 2013, n. 21303; 11 marzo 2015, n. 4829; 5 maggio 2017, n. 11102; 3 maggio 2018, n. 10480). Quello che viene richiesto al contribuente, a fronte delle risultanze bancarie addotte dalla
RGN 18483/2016
Amministrazione, è dunque l ‘ analiticità della prova allegata. La sua specificità ed analiticità consente infatti di superare la presunzione di attribuzione dei versamenti e dei prelevamenti emergenti dal conto corrente dell’imprenditore , ed alla specificità della prova contraria deve far seguito una valutazione del giudice altrettanto analitica di quanto dedotto e documentato dal contribuente ( ex multis , Cass., 28 novembre 2018, n. 30786; 5 maggio 2021, n. 11696; 18 novembre 2021, n. 35258; cfr. anche 8 ottobre 2020, n. 21700).
Pertanto, dalla stessa lettura delle norme, secondo la consolidata interpretazione dell ‘art. 32 cit., così come de ll’art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, i dati emergenti dall’esame delle movimentazioni bancarie sui conti correnti , a cui l’Amministrazione finanziaria abbia avuto accesso, sono presuntivamente riconducibili ad operazioni economiche del contribuente, e come tali confluiscono direttamente nel suo imponibile, salva la prova contraria allegata dal contribuente.
Perimetrati dunque gli effetti della disciplina su ll’acquisizione dei dati bancari e dell’alveo in cui essa opera ai fini dell’accertamento del reddito, nel caso concreto è pur vero che la difesa del contribuente ha allegato una serie di ragioni per una diversa ricostruzione e per una diversa natura dell’origine d elle movimentazioni bancarie (prospettando una provenienza ereditaria nella sostanza), ma dalla lettura della pronuncia risulta con altrettanta evidenza che il giudice d’appello ha esaminato partitamente, e nel complesso, gli elementi allegati, giungendo a conclusioni sfavorevoli ai contribuenti.
I l giudice d’appello ha ritenuto insufficiente la documentazione offerta dal ricorrente.
Si tratta di un accertamento in fatto, cui la difesa del contribuente non può ora opporre la supposta forza probante delle dichiarazioni dei terzi, che sono e restano indizi, liberamente valutabili dall’organo giudicante.
Come infatti già chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte, nel processo tributario trovano ingresso le dichiarazioni extraprocessuali di terzi, – nel rispetto dell’art. 6 CEDU e del principio di parità delle armi di cui all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea -. Esse hanno
tuttavia valore di elementi indiziari, utilizzabili sia dall’Amministrazione, sia dal contribuente (Cass., 22 marzo 2023, n. 8221).
D’altronde, già la Corte costituzionale, che pur aveva più volte rigettato la questione di legittimità costituzionale del divieto di assunzione di prova testimoniale nel processo tributario (nella vigenza del vecchio assetto processuale, cioè prima delle modifiche apportate all’art. 7 del d.lgs. 546 del 1992 dalla l. 31 agosto 2022, n. 130), aveva comunque affermato che tale divieto non impedisce in sede contenziosa di valorizzare le dichiarazioni rilasciate da terzi, considerandole alla stregua di semplici indizi (Corte Costituzionale, sentenza n. 18 del 2000).
Dunque, anche se al contribuente, oltre che all’Amministrazione finanziaria, è riconosciuta la possibilità di introdurre nel giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale, in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti ex art. 111 Cost., esse assumono tuttavia il valore probatorio di elementi indiziari, il che non fa venir meno il poteredovere del giudice tributario di valutare l’attendibilità del contenuto delle dichiarazioni. Secondo il principio della libera valutazione delle prove, sarà suo compito confrontare le notizie raccolte e valutare l ‘ attendibilità dei dichiaranti in base ad elementi soggettivi e oggettivi, così come l’intrinseca congruenza di dette dichiarazioni con ulteriori altri elementi acquisiti (da ultimo, cfr. Cass., 30 ottobre 2024, n. 28022; 28 ottobre 2022, n. 32024). Ciò, tanto più a fronte di prove legali in favore dell’erario, derivanti dagli accertamenti bancari ex art. 32, d.P.R. n. 600 del 1973, che determinano in capo al contribuente un preciso ed analitico onere della prova contraria, che non può essere assolto solo attraverso il ricorso a dichiarazioni di terzi, non potendo queste ultime assurgere né a rango di prove esclusive della provenienza del reddito accertato, né essere idonee, di per sé, a fondare il convincimento del giudice (Cass., 15 luglio 2022, n. 22302; 9 marzo 2021, n. 6405).
Ebbene, l’attività valutativa esercitata dalla commissione regionale in merito agli elementi probatori allegati dalle parti in questa controversia si è mossa nell’alveo dei principi di diritto appena enunciati, e le conclusioni cui quel giudice è pervenuto, esenti da illogicità argomentative, superficiale ponderazione delle prove, o errori materiali o percettivi, rappresentano l’esito di un accertamento in fatto, non criticabile in sede di legittimità.
Né può pretendersi da questa Corte una rivalutazione degli indizi prodotti dai contribuenti, così sollecitando un nuovo accertamento in fatto.
Il motivo, in definitiva, va rigettato.
con il terzo motivo (n. 4 del ricorso) lamenta la ‘ violazione o falsa applicazione degli artt. 32, comma 1, n. 2, 38, comma 4 e segg. 39, comma 1, lett. c) d.P.R. n. 600 del 1973, 12 comma 1, lett. d), 11, comma 1, lett. b), del d.lgs. 346 del 1990, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. Si sostiene che il giudice regionale non ha tenuto conto che i crediti contestati giudizialmente non concorrono a formare l’asse ered itario. Nel caso di specie i crediti vantati nei confronti del COGNOME andavano a formare l’imponibile ereditario, e sulla loro natura si sarebbe formato un giudicato esterno.
Con la censura il ricorrente intende riprendere le questioni afferenti la natura (ereditaria o meno) di quelle entrate, così da sostenere che esse sarebbero comunque estranee al proprio reddito di lavoro autonomo.
Il motivo è privo di pregio per quanto già chiarito tanto in riferimento alla questione preliminare con la quale si invocava il giudicato, quanto per quanto motivato in occasione del rigetto del secondo motivo (n. 3 del ricorso).
Le ragioni appena esposte spiegano anche il rigetto del quinto motivo (n. 6 nel ricorso) , con il quale si lamenta la ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., dell’art. 32, comma 1, n. 2, 38, comma 4 e segg., 39 comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 600 del 1973 , in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Il collegio d’appello avrebbe malgovernato le regole sulle prove presuntive.
Qui è appena il caso di ribadire, anche a proposito della presente censura, che non assume rilievo, per quanto già chiarito, l’invocazione del giudicato esterno.
Con il quarto motivo (n. 5 nel ricorso) ci si duole della ‘violazione e falsa applicazione degli artt. 32, comma 1, n. 2, 38, comma 4 e segg., 39 comma 1, lett. c), del d.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 35, comma 22, d.l. 4 luglio 2006, n. 223, dell’art. 49, d.lgs. 21 novembre 2007, n. 231. Il g iudice regionale non avrebbe tenuto conto che all’epoca della concessione del mutuo non esisteva alcun obbligo normativo di tracciabilità dei pagamenti.
A tal fine, quanto alla esistenza pregressa del mutuo, richiama sempre il giudicato esterno.
Il motivo è in parte incomprensibile, in parte, ove con esso si voglia ancora insistere sulla critica alle conclusioni cui è pervenuto il giudice regionale, è infondato per quanto già esposto in ordine al secondo motivo ed alla correttezza logica dell’acce rtamento in fatto compiuto dal giudice regionale, che non può essere messa in discussione in sede di legittimità.
Con il sesto motivo (n. 7 nel ricorso) si invoca la nullità della sentenza per violazione dell’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 32, comma 1, nn. 3, 8, 8-bis e 8ter, dell’art. 38 comma 4 e segg. d.P.R. n. 600 cit., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. Il giudice regionale avrebbe potuto far ricorso ai poteri d’ufficio, ciò che invece ha omesso.
Il motivo è inammissibile perché pretende che il giudice di legittimità si sostituisca al giudice di merito in poteri istruttori riservati alla sua assoluta disponibilità.
Con il settimo motivo (n. 8 in ricorso) si denuncia l’omesso esame su punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti e rilevabili d’ufficio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. La Commissione non avrebbe tenuto conto che l’importo di € 81.750,00 andava esclusa dal reddito da lavoro, perché imponibile ai fini successori.
il motivo è inammissibile, sia per quanto già illustrato nell’esame dei motivi che precedono, sia perché il sindacato di legittimità resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., individuabile nelle ipotesi che si convertono in violazione dell’art. 132, secondo comma 2, n. 4, c.p.c. e danno luogo a nullità della sentenza, e al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053; 20/11/2015, n. 23828; 12/10/2017, n. 23940). Con la nuova formulazione del n. 5 dunque lo specifico vizio denunciabile per cassazione deve essere relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, e che, se esaminato, avrebbe potuto determinare un esito diverso della controversia.
Nel caso di specie la questione, che per giunta mai emerge in sentenza, né è dato comprendere in quale atto ed in quale fase del giudizio essa abbia trovato ingresso nel processo, non costituisce neppure un fatto materiale, ma una valutazione giuridica.
Con l’ ottavo motivo (n. 9 in ricorso) ha denunciato la violazione e falsa applicazione dell’art. 42, comma 1, d.P.R. n. 600 del 1973, e dell’art. 56, comma 1, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. La Commissione regionale avrebbe errato laddove, non tenendo conto degli effetti della sentenza della Corte Costituzionale n. 37 del 25 febbraio 2015, ha ritenuto legittimo l’avviso d’accertamento sottoscritto da funzionario privo di poteri.
Il motivo è infondato. Con principio ormai consolidato, questa Corte ha chiarito che il conferimento del potere di sottoscrizione dell’avviso di accertamento ad un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente ex art. 42 del d.P.R. n. 600 del 1973 ha natura di delega di firma – e non di funzioni – poiché realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, restando l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante, con la conseguenza che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione di detta delega di firma può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale consente la successiva verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega stessa (Cass., 19 aprile 2019, n. 11013). E sebbene la giurisprudenza di legittimità abbia anche chiarito che, nella ipotesi in cui il contribuente ‘contesti’ la l egittimazione del funzionario sottoscrittore, è onere dell’Amministrazione dimostrare il corretto esercizio del potere producendo, anche nel corso del secondo grado di giudizio, la relativa delega (Cass., 17 luglio 2019, n. 19190), nel caso di specie, tuttavia non si è posta questione di mancata allegazione della delega rilasciata ai funzionari per la sottoscrizione degli atti impositivi.
In ogni caso ai fini della legittimità dell’accertamento tributario, ai sensi dell’art. 42, commi 1 e 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, gli atti in rettifica e quelli d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e cioè da un funzionario
di area terza per il quale non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità dell’art. 8, comma 24, del d.l. n. 16 del 2012, convertito nella l. n. 44 del 2012.
In definitiva il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando, rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenute dall’Agenzia delle entrate , che liquida in € 5.900,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, all’esito della camera di consiglio del giorno 11