Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 22430 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 22430 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 04/08/2025
Oggetto:
accertamenti bancari
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 1039/2016 R.G. proposto da NOME COGNOME n.q. di amministratore unico della RAGIONE_SOCIALE, rappresentato e difeso dall’avv. NOME COGNOME elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. NOME COGNOME in Roma, INDIRIZZO (PEC: EMAIL;
contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, INDIRIZZO (PEC: @mailcert.avvocaturastato.it);
-controricorrente – avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale delle Marche n. 183/5/2015 depositata il 26 maggio 2015, e non notificata.
Udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 12 giugno 2025 dal consigliere NOME COGNOME.
Rilevato che:
Con sentenza della Commissione tributaria regionale delle Marche n. 183/5/2015 veniva rigettato l’appello proposto da NOME NOME, e confermata la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Ascoli Piceno n. 433/3/2014 la quale aveva rigettato il ricorso del contribuente avverso l’ avviso di accertamento per II.DD. e IVA 2009, emesso in conseguenza della ricostruzione di reddito non dichiarato in capo alla società RAGIONE_SOCIALE di cui il contribuente era amministratore unico.
L’accertamento traeva origine da una verifica fiscale nei confronti dell’ente e da indagini su operazioni bancarie condotte sui conti correnti dei soci della società, a ristretta base sociale. Il giudice di prime cure, superate le questioni preliminari dell’omessa produzione in originale della documentazione bancaria e della sottoscrizione dell’atto impositivo ai fini dell’art.42, comma 3, d.P.R. n.600/1973, riteneva legittimo
l’accertamento analitico, di cui all’art. 39, comma 1, lett. a), b) e c), d.P.R. 600/1973 e del procedimento analitico induttivo di cui alla successiva lett. d) dell’art. 39.
3. Il giudice d’appello riteneva, preliminarmente, che l’avviso di accertamento emesso dall’Ufficio fosse congruamente motivato con riferimento alle risultanze della verifica fiscale e che, diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, non era necessario allegare all’atto impositivo la documentazione bancaria oggetto di verifica, in quanto l’atto impositivo conteneva un espresso rinvio al p.v.c. regolarmente consegnato al legale rappresentante della società, il contenuto degli accertamenti bancari era stato riversato nell’atto impositivo e le risultanze di tali accertamenti erano note alla contribuente il cui legale rappresentante aveva dichiarato espressamente di non essere in grado di fornire giustificazioni su quanto emerso dal conto corrente della società e che, invece, le altre movimentazioni bancarie contestate per oltre 800mila euro provenivano da somme nella disponibilità del figlio NOME NOME, titolare della RAGIONE_SOCIALE operante nel settore dell’edilizia .
Il contribuente non aveva dimostrato la riconducibilità delle somme riscontrate sui conti correnti dei soci ad attività della società immobiliare del figlio NOME, mentre oggetto dell’attività della società contribuente era l’attività di compravendita di immobili e, dunque, si doveva presumere il compimento di compravendite immobiliari tali da produrre redditi non dimostrati nella loro reale produzione ed i ricavi fittiziamente riversati sui conti dei soci che non potevano averli prodotti in quanto impossidenti.
In conseguenza, non poteva riconoscersi la deduzione forfettaria di costi per difetto di prova certa dal loro sostenimento.
Dal processo verbale di verifica della Guardia di Finanza, sottoscritto da NOME COGNOME, emergeva che i verbalizzanti avevano informato la società contribuente delle ragioni della verifica fiscale ed avevano esibito l’autorizzazione rilasciata dal Comandante della G.d.F. all’esecuzione della verifica fiscale.
Non vi era stata alcuna violazione dei termini di permanenza dei verificatori di cui all’art. 12, comma 5, della legge n. 212 del 2000 in quanto, un conto era la verifica presso la sede del contribuente, altra cosa era la verifica eseguita presso gli uffici dell’organo di verifica.
Infine, non ricorrevano le condizioni per la riduzione delle sanzioni applicate.
Avverso la sentenza d’appello la società ha proposto ricorso per cassazione deducendo sei motivi, che illustra con memoria ex art.380-bis. 1. cod. proc. civ., cui ha replicato l’Agenzia con controricorso.
Considerato che:
In primo luogo va dismessa l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dall’Agenzia , in quanto il Collegio osserva che, diversamente da quanto sostenuto dalla controricorrente, la società contribuente non è cessata, per come risulta dalla visura camerale agli atti, la cui produzione effettuata dalla ricorrente è ammissibile ex art. 372 cod. proc. civ. in quanto diretta a provare l’ammissibilità del ricorso (Cass. n. 6397/2023).
Va quindi preliminarmente esaminata e rigettata, perché infondata, l’eccezione della controricorrente di tardività del ricorso. La sentenza impugnata è stata depositata in data 26 maggio 2015 e non è stata notificata, sicché il termine lungo per la proposizione del ricorso per cassazione, ex art. 327 cod. proc. civ., computati i 31 giorni di sospensione per il periodo feriale, andava a scadere domenica 27 dicembre
2015, con proroga al giorno feriale successivo (lunedì 28/12/2015) ex art. 155, quarto comma, cod. proc. civ., data in cui il ricorso risulta essere stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica, non essendo rilevante né la data in cui quest’u ltimo ha poi provveduto alla spedizione dell’atto a mezzo posta, né quella di ricezione dell’atto da parte del destinatario, alla stregua del noto principio della scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio (Corte cost. n. 69 del 1994 e n. 477 del 2002; Cass. n. 2565/2007; Sez. U, n. 40543/2021).
3. Passando alla disamina delle singole censure, con il primo motivo di ricorso si prospetta, in relazione all’art. 360, primo comma, nn. 3 e 4 cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione degli artt. 32 e ss. del d.P.R. n. 600/73 e 112 cod. proc. civ., e la nullità della sentenza per violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato e per ultrapetizione. L’avviso sarebbe stato ritenuto legittimo sulla base di mere supposizioni e non di presunzioni gravi, precise e concordanti, prive di riscontro e senza dimostrazione che i conti correnti oggetto delle indagini bancarie erano intestati ai soci; nell’accertare l’interposizione fittizia nella intestazione dei conti correnti in questione e la pertinenza delle movimentazioni bancarie alle operazioni commerciali e finanziarie riconducibili all’attività di impresa in presenza di una società familiare di fatto, soggetto diverso rispetto a quello nei cui confronti l’accertamento era concretamente svolto, il giudice avrebbe violato il principio secondo il quale non è possibile rilevare d’ufficio questioni non prospettate dalle parti.
L’eccezione preliminare di eterogeneità delle censure compendiate nel mezzo di impugnazione può essere superata, in quanto la violazione di legge dell’art.32 viene letta da parte ricorrente in stretta connessione con la questione della società di fatto e la presunta ultrapetizione e, tuttavia, il motivo è complessivamente infondato.
3.1. Sostiene parte ricorrente che l’amministrazione finanziaria non aveva né dedotto né provato l’intestazione fittizia dei conti correnti intestati ai soci, e nemmeno che la società avesse svolto effettivamente attività d’impresa. Inoltre, poiché l’avviso di accertamento e il prodromico p.v.c. si fondavano sul presupposto che le somme rinvenute sui conti correnti dei soci appartenessero a questi ultimi, la sentenza impugnata, nell’affermare l’interposizione fittizia nell’intestazione dei predetti conti, sarebbe andata ultrapetita.
3.2. Il motivo pone la questione della legittimità delle riprese fiscali operate a carico di una società sulla scorta delle risultanze delle verifiche sulle movimentazioni dei conti correnti intestati non solo alla società verificata ma anche ai soci, amministratori o a soggetti legati a questi da particolari stretti rapporti personali. Questione di cui questa Corte si è più volte occupata (tra le più recenti, cfr. Cass. n. 7583/2025, Cass. n. 31750/2024, Cass. n. 20816/2024 e Cass. n. 35856/2023) enucleando i principi di seguito riportati che il Collegio intende ribadire. 3.3. Innanzitutto, si è affermato che in tema di accertamenti fiscali, tanto in materia di imposte sui redditi, ai sensi dell’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600/1973, quanto in materia di IVA, ex art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633/1972, le presunzioni ivi stabilite, secondo cui le movimentazioni sui conti bancari risultanti dai dati acquisiti dall’Ufficio si presumono conseguenza di operazioni imponibili, operano anche in relazione alle società di capitali con riferimento alle somme di denaro movimentate sui conti intestati ai soci o ai loro congiunti, conti che debbono ritenersi riferibili alla società contribuente stessa, in presenza di alcuni elementi sintomatici, come la ristretta compagine sociale ed il rapporto di stretta contiguità familiare tra l’amministratore, o i soci, ed i congiunti intestatari dei conti bancari soggetti a verifica, risultando, in tal caso, particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei soci e dei loro familiari debbano, in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario,
ascriversi allo stesso ente sottoposto a verifica (Cass. n. 22224 del 2018; Cass. sez. 6-5, ord. 14 ottobre 2016, n. 20851; Cass. sez. 5, 11 marzo 2016, n. 4788; Cass. sez. 5, 12 giugno 2015, n. 12276; Cass. sez. 5, 14 gennaio 2015, n. 428; Cass. sez. 5, 18 dicembre 2014, n. 26829; v. anche Cass. n. 33596 del 2019).
3.4. Nel senso della riconducibilità delle movimentazioni dei conti correnti dei soci alla società verificata nel caso di ristretta base azionaria è Cass., Sez. 5, n. 30098 del 21/11/2018, secondo cui, in tema di accertamenti sui redditi di società di persone a ristretta base familiare, l’Ufficio finanziario può legittimamente utilizzare, nell’esercizio dei poteri attribuitigli dall’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, le risultanze di conti correnti bancari intestati ai soci, riferendo alla società le operazioni ivi riscontrate, perché la relazione di parentela tra i soci è idonea a far presumere la sostanziale sovrapposizione tra interessi personali e societari, identificandosi gli interessi economici in concreto perseguiti dalla società con quelli propri dei soci, salva la facoltà dell’ente di dimostrare l’estraneità delle singole operazioni alla comune attività d’impresa.
3.5. Tali principi devono, però, confrontarsi con quell’orientamento, pure da tempo presente nella giurisprudenza di questa Corte, che non reputa sufficiente, per acquisire i dati bancari relativi a terzi, estranei alla società, la sola sussistenza del rapporto familiare o della qualità di socio o di amministratore, ma impone che l’Agenzia delle entrate dimostri la sussistenza di indizi che facciano presumere la riconducibilità alla società delle somme transitate nei conti correnti persona, e si è affermato il principio in base al quale «le indagini bancarie nei confronti di una società a responsabilità limitata possono essere estese ai conti correnti dei soci della stessa soltanto se sussistano elementi indiziari che inducano a ritenere che gli stessi siano stati utilizzati per occultare operazioni fiscalmente rilevanti» (Cass., Sez. 5, n. 33596 del
18/12/2019, Rv. 656410-02, in cui si richiamano Cass. n. 12817/2018, n. 17423/2003, n. 11145/2011; n. 17243/2003, n. 8826/2001).
3.6. Si tratta di un orientamento rinvenibile anche nelle più recenti pronunce di cui si è sopra dato atto e che è stato affermato anche con riferimento agli accertamenti in materia di imposte dirette.
3.7. In tale materia, questa Corte ha ribadito che le verifiche fiscali finalizzate a provare, per presunzioni, la condotta evasiva possono riguardare anche i conti bancari intestati al coniuge o al familiare del contribuente, potendo desumersi la riferibilità a quest’ultimo da elementi sintomatici, quali il rapporto di stretta familiarità, l’ingiustificata capacità reddituale dei prossimi congiunti nel periodo di imposta considerato, l’infedeltà delle dichiarazioni e l’esercizio di attività da parte del contribuente compatibile con la produzione della maggiore redditività riferita a dette persone (Cass. n. 546 del 15/01/2020). Si è comunque precisato che la sola sussistenza dello stretto vincolo familiare fra il contribuente e il terzo non è un dato sufficiente per assurgere a prova presuntiva qualificata delle riferibilità, in tutto o in parte, al contribuente accertato delle movimentazioni del conto corrente intestato al familiare, occorrendo che tale vincolo sia accompagnato dalla indicazioni di altri elementi, il cui onere di allegazione è a carico dell’Ufficio, idonei a dimostrare, in via logico-presuntiva, che la situazione reddituale del soggetto terzo intestatario del conto è incompatibile o comunque non può giustificare le movimentazioni riscontrate sul conto che, per tale ragione, può fondatamente ritenersi nella disponibilità effettiva del contribuente accertato (Cass. n. 32974/2018; n. 34747/2023, n. 20816/2024).
3.8. Orbene, nel caso di specie i giudici di appello si sono attenuti ai suddetti principi avendo rilevato, da un lato, lo stretto vincolo familiare tra l’amministratore della società, NOME NOME, e l’altra socia, suo coniuge e, dall’altro , che i predetti soci erano impossidenti (circostanza affermata a pag. 8 della sentenza impugnata e non contestata), sicché
non si giustificavano gli ingenti importi rinvenuti sui conti correnti loro intestati.
3.9. La censura in esame è quindi infondata al pari di quella con cui è stata dedotta l’ultrapetizione in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata che muove dall’erroneo presupposto, smentita dal contenuto dell’avviso di accertamento, che i denari rinvenuti sui conti correnti dei due soci appartenessero agli intestatari dei conti correnti e che l’atto tributario non si era fondato affatto sulla simulazione relativa soggettiva nella intestazione dei conti correnti personali dei soci. Invero, nell’atto impositivo allegato al ricorso emerge con assoluta evidenza che tali importi erano riconducibili alla società contribuente e relativi alla mancata contabilizzazione di elementi positivi di reddito da parte della stessa. Tutto ciò in ragione del fatto che i soci erano titolari di redditi personali assai esigui e che quindi non si giustificava, né era stata giustificata, la titolarità delle ingenti somme rinvenute su tali conti correnti.
3.10. Il motivo di ricorso va, pertanto, complessivamente rigettato.
Con il secondo motivo si eccepisce ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ., l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento all’accertata interposizione fittizia nell’intestazione dei conti correnti bancari, all’esistenza di una società di fatto tra i soci della società contribuente ed il figlio NOME, amministratore di altra società, nonché all’inesistenza di una qualche attività d’impresa svolta da essa ricorrente.
Con il terzo motivo la ricorrente lamenta ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, con riferimento alla questione della riconducibilità delle somme accertate
sui conti correnti dei due soci della società contribuente alla società amministrata dal figlio NOME
6. Innanzitutto, va dato atto che la motivazione della sentenza impugnata non è né mancante, né contraddittoria e tanto meno apparente, atteso che essa, per come dato atto nella parte relativa allo svolgimento del processo, esibisce una motivazione congrua, logicamente argomentata ed effettiva sia dal punto di vista grafico che contenutistico (Cass., Sez. U, n. 8053 del 2014), ponendosi ben al di sopra del minimo costituzionale di cui all’art. 111, sesto comma, Cost..
6.1. Quanto, invece, al profilo di insufficienza della motivazione della sentenza impugnata, deve ricordarsi il principio nomofilattico in base al quale «La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione» (Cass., Sez. U, n. 8053/2014, cit., cui hanno fatto seguito numerose pronunce conformi delle Sezioni ordinarie, tra cui Cass. n. 7090/2022 nonché Cass. n. 6986/2023, in motivazione).
6.2. Inoltre, i motivi sono inammissibili perché formulati in violazione del disposto di cui all’art. 348-ter cod. proc. civ., ora 360, quarto comma, cod. proc. civ., vertendosi nella specie in ipotesi di doppia pronuncia di merito conforme in relazione alle censure dedotte, peraltro senza che la ricorrente abbia assolto l’onere di indicare i profili di divergenza tra le ragioni di fatto a base della decisione di primo grado e quelle a base del rigetto dell’appello, com’era invece necessario per dar ingresso alla censura proposta (cfr. Cass. n. 26774 del 2016, n. 5528 del 2014 e, più recentemente, Cass. n. 5947 del 2023).
6.3. Non c’è poi evidenza di precisi fatti storici la cui valutazione sarebbe stata omessa, ma di argomentazioni e tesi sviluppate dalla ricorrente, in particolare sulla riconducibilità delle somme riprese a tassazione alla società immobiliare amministrata dal figlio, che, peraltro, diversamente da quanto sostenuto nei motivi in esame, sono state considerate dai giudici di appello, ma espressamente ritenute non condivisibili.
6.4. Al riguardo deve aggiungersi che i motivi incorrono del vizio di inammissibilità per difetto di specificità, avendo la ricorrente omesso di trascrivere nel ricorso e di localizzare tra gli atti allegati e quelli prodotti nei giudizi di merito, la documentazione che proverebbe quanto lamentato nei motivi in esame, essendosi limitata semplicemente a riportare per sintesi, in uno specchietto formato alle pagine 26 e 27 del ricorso, presunte operazioni di bonifici tutti effettuati in anni diversi da quello oggetto di accertamento (anno d’imposta 2009).
Con il quarto motivo di ricorso si deduce ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 4 cod. proc. civ. la violazione o falsa applicazione del d. lgs. 31.12.1992 n. 546 (art. 14-29) e dell’art. 354 in combinato disposto con l’art. 102 cod. proc. civ., nullità assoluta della sentenza rilevabile in ogni stato e grado del procedimento anche d’ufficio nonché, ai sensi
dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione del d.P.R. n. 917/1986 (TUIR) art. 5 ed inapplicabilità di tale disposizione normativa a società di capitali e ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. l’omessa motivazione circa un fatto decisivo della controversia.
7.1. Sostiene la ricorrente che la sentenza avrebbe affermato l’esistenza di una società di fatto tra i due soci ed il figlio NOME e quindi avrebbe dovuto disporre l’integrazione del contraddittorio «nei confronti di questo autonomo soggetto giuridico e di tutti i suoi soci, ivi compreso il socio di fatto rappresentato dal figlio dei due soci di diritto della RAGIONE_SOCIALE» (cfr. p.33 ricorso).
7.2. Ritiene il Collegio che il motivo in esame sia manifestamente infondato.
7.3. L’affermazione a pag. 9 della sentenza impugnata è chiaramente stata fatta al fine di dare atto di quella «promiscuità» di rapporti tra i soci, coniugi tra loro, ed il figlio NOME, che poi i giudici di appello hanno escluso affermando con fermezza (in neretto nella sentenza impugnata) che la tesi difensiva di riconducibilità di quelle somme all’attività del figlio NOME «è priva di ogni benché minimo elemento di riscontro ed appare anzi smentita dai fatti». Affermazione, questa, che è incompatibile con la sussistenza di una società di fatto tra i soci della ricorrente e il figlio degli stessi.
7.4. Sicuramente va escluso il litisconsorzio necessario tra società di capitali a ristretta base sociale e i soci. Secondo l’ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, «l’unitarietà dell’accertamento che è alla base della rettifica delle dichiarazioni dei redditi della società di persone e di quelle dei singoli soci comporta, in linea di principio, la configurabilità di un litisconsorzio necessario, con il conseguente obbligo per il giudice, investito dal ricorso proposto da uno soltanto dei
soggetti interessati, di procedere all’integrazione del contraddittorio, ai sensi dell’art. 14 del d.lgs. n. 546 del 1992, pena la nullità assoluta del giudizio stesso, rilevabile – anche d’ufficio – in ogni stato e grado del processo» (così Cass. n. 16730 del 25/06/2018; ma la giurisprudenza della S.C. è pacifica a partire da Cass. S.U. n. 14815 del 04/06/2008; cfr., a mero titolo esemplificativo Cass. n. 27603 del 30/10/2018; Cass. n. 15116 del 11/06/2018; Cass. n. 1472 del 22/01/2018; Cass. n. 26648 del 10/11/2017; Cass. n. 15566 del 27/07/2016; Cass. n. 7789 del 20/04/2016; Cass. n. 25300 del 28/11/2014; litisconsorzio escluso dalla Corte unicamente in caso di controllo automatizzato delle dichiarazioni della società, senza rideterminazione del reddito: cfr. Cass. n. 9527 del 11/05/2016).
7.5. Un simile orientamento, assolutamente consolidato in tema di società di persone e volto al riconoscimento del litisconsorzio necessario tra società e soci, non è stato, invece, riproposto da questa Corte nel caso di società di capitali, laddove si esclude normalmente il litisconsorzio necessario tra società e soci (Cass. n. 31214 del 09/11/2023; Cass. n. 20507 del 29/08/2017; Cass. n. 426 del 10/01/2013; Cass. n. 2214 del 31/01/2011), fatta salva l’ipotesi in cui la società di capitali abbia optato per l’imputazione del reddito per trasparenza ai sensi dell’art. 5 del TUIR (Cass. n. 24472 del 01/12/2015; Cass. n. 27278 del 21/10/2024).
7.6. Nel caso di specie, non risulta in alcun modo che RAGIONE_SOCIALE abbia optato per il regime cd. di trasparenza di cui all’art. 5 del TUIR, sicché il litisconsorzio necessario tra società e soci deve essere escluso. Tanto più sotto il profilo della configurabilità di una società familiare, posto il rilievo marginale che deve darsi a tale affermazione della CTR, come in precedenza precisato.
7.7. A ciò aggiungasi che la tesi di parte ricorrente contrasta anche con l’indirizzo più volte espresso in materia da questa Corte, che, in caso di separata pendenza dei giudizi di accertamento nei confronti di società di capitali a ristretta base partecipativa e dei soci della stessa, ha individuato un rapporto di dipendenza dell’accertamento riguardante i soci rispetto alla società, tale da legittimare l’eventuale sospensione, ex art. 337 cod. proc. civ. del giudizio relativo all’accertamento riguardante il socio laddove sia impugnata la sentenza resa in tema di accertamento sulla società (cfr., in generale, Cass., Sez. U., 29 luglio 2021, n. 21763 e, specificamente, nel contenzioso tributario, Cass., 12 settembre 2022, n. 26699; Cass., 6 ottobre 2017, n. 23480; Cass., 5 settembre 2016, n. 17613; Cass., 17 luglio 2014, n. 16329), potendo comunque il socio, nel giudizio relativo all’accertamento del proprio reddito da partecipazione, oltre a far valere questioni personali, contestare nel merito l’accertamento del maggior reddito d’impresa della società. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio di impugnazione dell’avviso di accertamento emesso nei confronti di socio di società di capitali, avente ad oggetto il maggior reddito da partecipazione derivante dalla presunzione di distribuzione dei maggiori utili accertati a carico della società partecipata, non vi è litisconsorzio necessario tra società e soci, sussistendo unicamente il nesso di pregiudizialità-dipendenza tra l’accertamento sociale e quello dei soci (Cass., 7 luglio 2022, n. 21644; Cass., 4 gennaio 2022, n. 94; Cass., 8 ottobre 2020, n. 21649; Cass., 28 agosto 2017, n. 20507; Cass., 10 gennaio 2013, n. 426; Cass., 31 gennaio 2011, n. 22143).
7.8. La censura, pure formulata nel motivo in esame con riferimento all’art. 5 del d.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), è invece inammissibile per novità della questione dedotta, che non risulta, né dal testo della sentenza impugnata né dal ricorso, essere stata posta dinanzi al giudice di
merito, ovvero nel ricorso originario. Ed in effetti in quest’ultimo, prodotto in allegato al ricorso per cassazione, non risulta proposto alcun motivo con riferimento al citato art. 5 TUIR.
7.9. Al riguardo va ricordato che, «Qualora una questione giuridica implicante un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa» (Cass. n. 3473/2025).
Con il quinto motivo di ricorso viene dedotta, ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 3, cod. proc. civ. la violazione o falsa applicazione del d.P.R. N. 600/1973 (art. 42) e del d.lgs. n. 546/1992 (art. 7) nonché, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. l’omessa motivazione circa un fatto decisivo della controversia.
8.1. La ricorrente lamenta l’omessa allegazione all’avviso di accertamento della documentazione contabile e bancaria verificata dalla G.d.F. nonché dell’autorizzazione ad effettuare le indagini fiscali e bancarie, nonché l’omessa pronuncia sullo specifico motivo di impugnazione, avendo la parte lamentato nel motivo che «La sentenza impugnata ha omesso di esaminare la censura relativa alla omessa allegazione della documentazione bancaria e dell’atto autorizzativo della verifica fiscale al quale veniva fatto rinvio per relationem con ciò integrandosi il vizio di cui all’ar t. 360 n° 5 cpc» (cfr. p.38 ricorso).
8.2. Orbene, la censura proposta ai sensi del n. 5 del primo comma dell’art. 360 cod. proc. civ. è inammissibile per la preclusione di cui
all’art. 348-ter cod. proc. civ., di cui si è detto esaminando il secondo e terzo motivo.
8.3. Ma anche a voler riqualificare la censura di « omessa motivazione », dedotta nella rubrica, in quella di omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., il motivo, che non fa riferimento alla nullità della decisione in conseguenza di detta omissione, va comunque dichiarato inammissibile alla stregua del principio giurisprudenziale in base al quale «Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360, comma 1, cod. proc. civ., deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del comma 1 dell’art. 360 c.p.c., con riguardo all’art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorché sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge» (Cass. n. 10862/2018).
8.4. In ogni caso, le censure sono infondate e vanno rigettate.
8.5. Quanto alla prima censura, i giudici di appello hanno correttamente escluso un obbligo in capo all’amministrazione finanziaria di allegare all’avviso di accertamento o di produrre la documentazione bancaria in originale; hanno dato atto che il contenuto essenziale degli
accertamenti bancari era stato «riversato» nell’atto impositivo e, «soprattutto le risultanze degli accertamenti bancari, lungi dal non essere note al contribuente, gli sono state spiegate e contestate, tanto che costui si è difeso specificamente sul punto a fol. 41 del p.v.c.» (sentenza, pag. 4).
8.6. A ciò aggiungasi che nel p.v.c. – che è stato allegato al ricorso e già consegnato alla parte contribuente, e a cui l’atto impositivo rimanda -, risultano indicate, una per una, le movimentazioni bancarie riprese a tassazione, sicché risulta pienamente soddisfatto l’onere motivazionale dell’atto impositivo e nessun ulteriore onere, quale quello di allegazione allo stesso «degli assegni bancari e degli originali degli estratti dei conti correnti bancari dei singoli soci» (ricorso, pag. 36), peraltro nella disponibilità delle banche, gravava sull’amministrazione finanziaria.
8.7. Anche la seconda censura è infondata posto che sulla questione dedotta, ovvero «l’omessa allegazione della autorizzazione ad effettuare le indagini fiscali e bancarie» all’avviso di accertamento (cfr. p.36 ricorso), nella sentenza impugnata si dà espressamente atto, così come già avevano fatto i giudici di primo grado, che il processo verbale di verifica sottoscritto da NOME COGNOME riportava a pag. 2 l’annotazione della Guardia di Finanza di aver reso edotto la parte contribuente dei motivi dell’intervento e di aver esibito l’ordine di esecuzione della verifica fiscale, da ciò derivando l’assoluta superfluità dell’allegazione di quell’autorizzazione all’atto impositivo, neppure richiesto ai fini di completezza motivazionale dello stesso.
Quanto all’autorizzazione alle indagini bancarie, la questione va esaminata unitamente al sesto motivo di ricorso con cui la ricorrente deducendo, ai sensi dell’art. 360, primo comma n. 3 cod. proc. civ., la violazione o falsa applicazione del d.P.R. n. 600/1973 (art. 33) e L. n.
212/2000 (art. 12) e d.P.R. N. 633/1972 (art. 52), torna a lamentare l’inesistenza e l’omessa esibizione dell’autorizzazione alla Guardia di Finanza all’espletamento delle indagini bancarie, che non era mai stata allegata al p.v.c. o all’avviso di accertamento e nemmeno prodotta in giudizio.
9.1. La ricorrente sostiene che «la sentenza impugnata ha equivocato la portata del motivo di ricorso ritenendo che la sottoscrizione del p.v.c. da parte di NOME NOME legale rappresentante della RAGIONE_SOCIALE e la informativa circa i motivi della verifica fiscale potesse costituire prova, o meglio un surrogato, dell’atto autorizzativo alle indagini finanziarie che, invece, non risulta fosse preesistito e tanto meno che fosse portato a conoscenza del soggetto passivo della verifica» (ricorso, pag. 39).
9.2. Il motivo, anche a voler prescindere dalla sua inammissibilità perché la ricorrente deduce un vizio di violazione di legge pur sostanzialmente lamentando un’omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., da dedursi ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., su un motivo che è, peraltro, anche nuovo non risultando essere stato proposto nei gradi di merito e nemmeno è trattata nella sentenza impugnata (cfr. Cass. n. 3473/2025), è manifestamente infondato posto che a pagina 8 del processo verbale di constatazione (all.4 al ricorso per Cassazione) regolarmente consegnato e sottoscritto dal legale rappresentante della società contribuente, si legge testualmente: «Ulteriore attività ispettiva ha riguardato il riscontro della documentazione bancaria acquisita previa autorizzazione dell’A.G. competente. (vds. all. n. 3) ». Pertanto, non solo l’autorizzazione preesisteva alla verifica, ma era stata anche allegata al p.v.c. consegnato alla parte contribuente, che non risulta aver mai lamentato alcunché al riguardo.
9.3. Deve, inoltre, osservarsi che, nel caso di specie, avendo la ricorrente lamentato – peraltro infondatamente, per come si è detto sopra, nel quinto motivo di ricorso-, «l’omessa allegazione all’avviso di accertamento della autorizzazione ad effettuare le indagini bancarie» nonché, nel sesto motivo, «la omessa esibizione e l’inesistenza di apposita autorizzazione della comandante della compagnia della RAGIONE_SOCIALE», nessuna incidenza ha nella fattispecie la recente pronuncia della Corte Europea del Diritti dell’Uomo (CEDU) del 6 febbraio 2025, in causa n. 36617/18 più 12, RAGIONE_SOCIALE ed altri, in materia di garanzie spettanti ai contribuenti in sede di verifiche fiscali effettuate presso la sede dove viene svolta l’attività.
Con tale sentenza la Corte EDU ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali sul presupposto che l’ordinamento interno non fornisce garanzie adeguate in relazione agli accessi, ispezioni e verifiche effettuate dalla Guardia di Finanza e dell’Agenzia delle Entrate presso i locali adibiti ad attività commerciali o professionali dei contribuenti, intesi in senso ampio e quindi comprensive sia delle sedi legali che di eventuali succursali.
In conclusione, il ricorso va rigettato e parte ricorrente condannata al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite in favore dell’Agenzia delle entrate, liquidate in euro 5.900 per compensi, oltre spese prenotate a debito.
Si dà atto del fatto che, ai sensi del d.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso articolo 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 12 giugno 2025