Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 12455 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 12455 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 11/05/2025
ORDINANZA
sul ricorso n. 949/2018 proposto da:
Avv. COGNOME NOMECOGNOME rappresentato e difeso in proprio, unitamente e disgiuntamente all’Avv . NOME COGNOME giusta delega in calce al ricorso per cassazione, con domicilio eletto presso lo studio legale dell’Avv. NOME COGNOME, in Roma, INDIRIZZO
PEC: EMAIL
PEC: EMAIL
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i
cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
PEC: EMAIL
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA n. 4230/2017, depositata in data 23 ottobre 2017, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27 marzo 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
L a Commissione tributaria regionale ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto dall’Avv. NOME COGNOME avente ad oggetto un avviso di accertamento, riferito ad Iva e a ltro per l’annualità 2009, notificatogli il 28 novembre 2014, contestandogli una serie di incongruenze nella movimentazione bancaria che non trovavano alcuna giustificazione.
I giudici di secondo grado, per quel che rileva in questa sede, hanno affermato che:
-) la Consulta, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, aveva limitato la decisione alla presunzione legale tra i prelevamenti e il maggior reddito accertato, laddove, con l’accertamento impugnato, la contestazione verteva sui versamenti;
-) l’onere probatorio, dunque, circa l’infondatezza dell’accertamento gravava sul contribuente, a fronte della presunzione legale posta dalle norme suindicate a favore del Fisco e tale onere, come affermato anche
dai giudici di primo grado nella sentenza impugnata, non appariva minimamente soddisfatto nella fattispecie in esame.
COGNOME NOME ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tredici motivi, cui resiste l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
Con proposta ex art. 380 bis , comma 1, cod. proc. civ., debitamente comunicata, il consigliere delegato ha concluso per la manifesta inammissibilità del ricorso e il ricorrente ha tempestivamente presentato rituale istanza di decisione del ricorso, corredata da nuova procura speciale, ex art. 380 bis, comma 2, c.p.c.
COGNOME NOME ha depositato memoria.
CONSIDERATO CHE
Il primo motivo lamenta la violazione e/o falsa applicazione dell’ art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 in materia di imposte sui redditi e dell’art. 51, comma 2, n. 2, del d.P.R. n. 633 del 1972 in materia di Iva e la violazione dell’art. 136 Cost., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La Commissione tributaria regionale aveva applicato le disposizioni di legge assumendo che sulle stesse non avrebbero avuto alcun effetto le sentenze della Corte costituzionale n. 225/2005 e n. 228/2014.
Il secondo motivo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 in combinato disposto con l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale, in relazione all’art 360, primo comma, n. 3, c.p.c. La Commissione tributaria regionale non si era attenuta ai canoni di interpretazione letterale dei testi di legge come modificati dal legislatore a seguito della sentenza n. 228/2014 della Corte costituzionale. L’interpretazione letterale da svolgere, anche alla luce dei lavori preparatori, doveva indurre a ritenere non più opponibile ai lavoratori autonomi le presunzioni degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del
1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, in materia di imposte sui redditi e di Iva.
Il terzo motivo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 in combinato disposto con l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale e con l’art. 375 c.p.c. I giudici d’appello, trascurando di considerare gli indirizzi recentemente espressi da codesta Suprema Corte con diverse sentenze, si erano limitati ad applicare delle semplici ordinanze; ordinanze che si palesavano confliggenti con il contenuto della sentenza della Corte costituzionale n. 228/2014 e con la lettera delle disposizioni sopra menzionate, come modificate dal legislatore, per conformarsi alla pronuncia del Giudice delle leggi.
Il quarto motivo deduce la nullità della sentenza per omessa motivazione in relazione all’art 360, comma primo, n. 4, c.p.c., in quanto i giudici di secondo grado avevano omesso ogni motivazione relativa alle ragioni del loro discostamento dalla giurisprudenza della Suprema Corte. Essendosi limitati a fare menzione di alcune ordinanze, per loro natura prive di apparato motivazionale persuasivo e di funzione nomofilattica, non si comprendeva il motivo del discostamento dalla giurisprudenza univoca come da numerose sentenze, anche recenti, della Suprema Corte.
Il quinto motivo deduce la nullità della sentenza e/o del procedimento per violazione de ll’art . 111 Cost., in combinato disposto con gli artt. 3 e 24 Cost. , e dell’art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c. La conferma della ripresa tributaria avanzata dall’Agenzia delle Entrate portava a violare il principio di capacità contributiva, per non essere la stessa fondata sull’accertamento della reale sua consistenza. Inoltre, il contribuente, che aveva impostato tutta la sua difesa in appello sulla base della giurisprudenza costituzionale e di cassazione consolidatasi
dal 2014 in poi, si era visto sorprendentemente sottoposto a differente regime probatorio, in contrasto con i principi del giusto processo e del diritto alla difesa.
Il sesto motivo deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. I giudici d’appello, invertendo gli oneri di prova, avevano, di fatto, sollevato l’Agenzia delle Entrate da ogni onere, limitandoli al mero rilievo dell’effettuazione dei versamenti. Da ciò era derivata l’imposizione, a carico del contribuente, del più gravoso onere, non più previsto, di dare prova specifica ed analitica della natura e delle ragioni di ogni singolo versamento, non bastando la prova incontestata e incontestabile della disponibilità delle stesse somme per accumuli realizzati in precedenti periodi d’imposta, quando ancora lo stesso non esercitava la professione di avvocato.
Il settimo motivo deduce la violazione e/o errata applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., in quanto, essendo venuta meno, a carico dei professionisti, la presunzione legale di cui agli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, a tutto voler concedere, sul contribuente gravava solo l’onere di dimostrare la disponibilità degli importi e non la più complessa dimostrazione analitica dell’origine di ogni versamento e della sua irrilevanza reddituale. Essendo stata data ampia prova della disponibilità di tali somme, i giudici di secondo grado avrebbero dovuto confermare la sentenza di primo grado.
L’ottavo motivo deduce l’o messo esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti relativamente all’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. I giudici d’appello non avevano considerato che, in anni precedenti quello oggetto di accertamento, il ricorrente disponeva di somme ingentissime, tutte investite in titoli
azionari o in pronti contro termine, realizzando guadagni altrettanto ingenti, già soggetti a tassazione alla fonte e, quindi, già conosciuti e conoscibili dal Fisco, oltre che già tassati. I giudici d’appello avevano omesso di considerare la copiosa documentazione versata a conferma di tale incontestabile circostanza.
Il nono motivo deduce la nullità della sentenza per error in procedendo, omesso esame di eccezioni svolte, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. La sentenza impugnata non aveva preso in alcun modo in considerazione il motivo n. 8 del ricorso di primo grado, riproposto sotto forma di eccezione in sede di appello, ossia quello per cui non sussistevano i presupposti per l’applicazione dell’IRAP. L’omesso esame di un’eccezione e, quindi, di una difesa fondata su un motivo di ricorso comportava la nullità della sentenza.
Il decimo motivo deduce la nullità della sentenza per error in procedendo , omesso esame di eccezioni svolte , in relazione all’a rt. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. La sentenza impugnata aveva omesso l’esame di eccezioni svolte in sede di costituzione in appello. L’atto di appello presentava un solo motivo di ricorso, quello consistente nella ritenuta erronea applicazione, da parte dei giudici di primo grado, degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972. Tutta la restante parte dell’appello era svolta come replica sui singoli motivi di ricorso di primo grado e, quindi, non conteneva alcuna censura rivolta alla sentenza. I giudici non avevano preso in alcuna considerazione tale eccezione di inammissibilità.
L’undicesimo motivo deduce la violazione e/o errata applicazione dell’art. 10 della legge n. 212 del 2000, in combinato disposto con gli artt. 1, 7 e 16 del d.lgs. n. 472 del 1997, 19 del d.lgs. n 74 del 2000 e 7 della n. 212 del 2000 in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c. Non poteva sussistere il profilo soggettivo della colpa in ragione dell’evidente contrasto giurisprudenziale; per la natura meramente
presuntiva dell’accertamento fondato sugli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 e per l’assenza di recidiva. Inoltre, il provvedimento sanzionatorio difettava di ogni motivazione.
Il dodicesimo motivo deduce l’o messo esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. La sentenza impugnata aveva omesso di prendere in considerazione tutte le allegazioni svolte dall’odierno ricorrente a confutazione della pretesa sanzionatoria avanzata dall’Erario.
Il tredicesimo motivo deduce la nullità della sentenza e/o del procedimento ex art 360, comma primo, n. 4, c.p.c. per aver violato il disposto degli art. 111, 24 e 113 Cost. e dell’ art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c. I giudici d’appello avevano erroneamente invertito, non solo gli oneri probatori ma, persino, la posizione processuale delle parti, gravando il ricorrente di oneri in realtà incombenti sulla parte appellante. I giudici d’appello, anziché censurare la condotta dell’appellante che redigeva l’atto d’appello come replica ai motivi di ricorso di primo grado, avevano «rimproverato» la parte appellata di aver riproposto la propria posizione difensiva e la ricostruzione dei fatti svolte in primo grado.
Il primo, il secondo, il terzo, il quarto e il quinto motivo, devono ritenersi, diversamente da quanto opinato dalla difesa di parte ricorrente e conformemente alla proposta ex art. 380 bis c.p.c., manifestamente infondati.
Ed invero, questa Corte ha già precisato che « In tema d’imposte sui redditi, la presunzione legale (relativa) della disponibilità di maggior reddito, desumibile dalle risultanze dei conti bancari giusta l’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, non è riferibile ai soli titolari di reddito di impresa o da lavoro autonomo, ma si estende alla
generalità dei contribuenti, come si ricava dal successivo art. 38, riguardante l’accertamento del reddito complessivo delle persone fisiche, che rinvia allo stesso art. 32, comma 1, n. 2; tuttavia, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, le operazioni bancarie di prelevamento hanno valore presuntivo nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, mentre quelle di versamento nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia dimostrando che le stesse sono già incluse nel reddito soggetto ad imposta o sono irrilevanti » (Cass., 20 gennaio 2017, n. 1519; Cass., 16 novembre 2018, n. 29572; Cass., 30 giugno 2020, n. 13112; Cass., 2 febbraio 2021, n., 2240; Cass., 18 novembre 2021, n. 35258; Cass., 19 agosto 2022, n. 24998).
Anche di recente questa Corte, ha ritenuto che « La presunzione legale in oggetto si articola secondo due diverse modalità, distintamente previste nella prima e nella seconda parte, secondo periodo, comma primo del citato art. 32: a) i “dati ed elementi” attinenti ai rapporti bancari possono essere utilizzati nei confronti di tutti i contribuenti destinatari di accertamenti previsti dagli artt. 38, 39, 40 e 41 d.P.R. 29 settembre 1973 n.600 ( persone fisiche, titolari di reddito determinato in base alle scritture contabili, redditi di soggetti diversi dalle persone fisiche, redditi accertati d’ufficio); b) la presunzione legale secondo cui i versamenti ed i prelevamenti sono considerati ricavi o compensi può essere utilizzata nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa o di reddito di lavoro autonomo, soggetti all’obbligo di tenuta delle scritture contabili (con la correzione apportata dalla Corte Cost. con la sentenza n. 228 del 2014 che ha dichiarato l’illegittimità della presunzione di maggiori compensi desumibile dai prelevamenti effettuati dai titolari di reddito di lavoro autonomo). Mentre l’operazione bancaria di prelevamento conserva validità presuntiva nei confronti dei soli titolari di reddito di impresa, le operazioni bancarie di versamento hanno
efficacia presuntiva di maggiore disponibilità reddituale nei confronti di tutti i contribuenti, i quali possono contrastarne l’efficacia adempiendo l’onere di dimostrare che ne hanno tenuto conto ai fini della determinazione del reddito soggetto ad imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine. (Cass., 16 novembre 2018, n. 29572; Cass., 9 agosto 2018, n. 16697; Cass., 20 gennaio 2017, n. 1519)» (Cass., 3 marzo 2023, n. 6427, in motivazione; Cass., 31 gennaio 2024, n. 2928).
Ed infatti, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 228/2014 depositata il 6 ottobre 2014, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 32, comma 1, numero 2, secondo periodo del d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600, come modificato dall’art. 1, comma 402, lettera a), numero 1) della legge 30 dicembre 2014 n. 311 (disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato-legge finanziaria 2005) limitatamente alle parole «o compensi» e come si ricava dalla motivazione della sentenza emerge chiaramente che la Corte ha ritenuto la norma irragionevole e contraria al principio di capacità contributiva essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale e che questo a sua volta sia produttivo di un reddito.
Dunque, la giurisprudenza di questa Suprema Corte è ormai costante nell’affermare, che « resta invariata la presunzione legale posta dall’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, sicché questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 228 del 2014, l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai
prelevamenti sui conti correnti » (cfr. Cass., 30 marzo 2018, n. 7951; Cass., 26 settembre 2018, n. 22931 e, più di recente, Cass., 4 aprile 2024, n. 8905).
In ragione di siffatto tenore letterale, l’eliminazione del riferimento ai «compensi» afferisce espressamente soltanto ai prelevamenti dei professionisti o più in generale dei lavoratori autonomi, e non anche ai versamenti ingiustificati, per i quali versamenti, dunque, sopravvive tal quale la presunzione di maggior reddito.
15. Anche il sesto e il settimo motivo sono manifestamente infondati, dovendosi richiamare l’orientamento di questa Corte secondo cui « In tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze » (Cass., 26 aprile 2024, n. 11169; Cass., 24 luglio 2023, n. 22047; Cass., 30 giugno 2020, m. 13112; Cass., 3 maggio 2018, n. 10480).
In particolare, « In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, secondo l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti, mentre si determina un’inversione dell’onere della prova a carico del
contribuente, il quale deve dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non sono riferibili ad operazioni imponibili, fornendo, a tal fine, una prova non generica, ma analitica, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili » (Cass., 19 marzo 2024, n. 7360; Cass., 31 gennaio 2024, n. 2928) e che « In tema di accertamento fiscale, la presunzione legale relativa, ex art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973, comporta l’onere probatorio, a carico del contribuente, di dare specifica giustificazione delle movimentazioni bancarie, oggetto di contestazione, al fine di dimostrare che le stesse non derivano da operazioni imponibili e tale conseguenza, oltre al regime legale, si riconnette altresì a quel principio di vicinanza della prova che è connaturato al disposto dell’art. 2697 c.c. e che attiene alla possibilità di conoscere, in via diretta o indiretta, i fatti materiali e storici che stanno alla base della loro evidenziazione probatoria » (Cass. 4 ottobre 2024, n. 26014).
16. L’ottavo motivo è inammissibile perché nell’esposizione del motivo non si ravvisa alcun riferimento a fatti controversi come indicati nell’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. In particolare, questa Corte ha chiarito che il denunciato vizio di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c. concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e che abbia carattere decisivo per il giudizio (Cass., Sez. U., sentenza 7 aprile 2014, n. 8053) e che il fatto storico prospettato, inteso come un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, deve essere decisivo, ovvero per potersi configurare il vizio è necessario che la sua assenza conduca, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, ad una diversa decisione,
in un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data, vale a dire un fatto che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass., 8 ottobre 2014, n. 21152; Cass., 14 novembre 2013, n. 25608). Inoltre, non rientra nel paradigma normativo dell’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., la censura concernente l’omessa valutazione di deduzioni difensive (Cass., 18 ottobre 2018, n. 26305; Cass., 14 giugno 2017, n. 14802) o l’omesso esame di ele menti istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
16.1 Nel caso in esame, il ricorrente argomenta sulla enorme disponibilità finanziaria goduta fin dal 1996 e in anni precedenti il 2009, ed elenca tutta una serie di documenti attestanti le operazioni di acquisto e di vendita pronti contro termine, che presumevano la disponibilità immediata delle somme e la tassazione alla fonte dei ricavi, ma nulla deduce in termini di decisività di tale circostanza (che in ogni caso non è riconducibile alla nozione di fatto storico come sopra precisata) e soprattutto prescinde dai principi suesposti in tema di onere probatorio gravanti sul contribuente, secondo cui la prova deve essere « idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (Cass., 30 giugno 2020, n. 13112, citata, in motivazione).
Il nono motivo è inammissibile perché il ricorrente lamenta l’omess a pronuncia sulle eccezioni sollevate e sulla documentazione comprovante l’assenza di organizzazione ai fini IRAP, quando, invece,
il vizio di omessa pronuncia su una domanda o eccezione di merito si ha quando vi sia omissione di qualsiasi decisione su di un capo di domanda, intendendosi per capo di domanda ogni richiesta delle parti diretta ad ottenere l’attuazione in concreto di una volontà di legge che garantisca un bene all’attore o al convenuto e, in genere, ogni istanza che abbia un contenuto concreto formulato in conclusione specifica, sulla quale deve essere emessa pronuncia di accoglimento o di rigetto (Cass., 4 gennaio 2024, n. 272; Cass., 26 gennaio 2021, n. 1616; Cass., 16 luglio 2018, n. 18797; Cass., 27 novembre 2017, n. 28308). Ed infatti, poiché il vizio di omessa pronuncia si concreta nel difetto del momento decisorio, per integrare detto vizio occorre che sia stato completamente omesso il provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto, ciò che si verifica quando il giudice non decide su alcuni capi della domanda, che siano autonomamente apprezzabili, o sulle eccezioni proposte, ovvero quando pronuncia solo nei confronti di alcune parti. Per contro, il mancato o insufficiente esame delle argomentazioni delle parti integra un vizio di natura diversa, relativo all’attività svolta dal giudice per supportare l’adozione del provvedimento, senza che possa ritenersi mancante il momento decisorio (Cass.,3 marzo 2020, n. 5730).
Il decimo motivo sull’eccepita inammissibilità dell’appello presentato dall’Agenzia delle Entrate è inammissibile , poiché il vizio di omessa pronuncia, che può determinare la nullità della sentenza, non è configurabile in ordine alle eccezioni pregiudiziali di rito, come è quella avente per oggetto la carenza di specificità dei motivi d’appello, ma solo rispetto al mancato esame di questioni di merito (Cass., 6 ottobre 2020, n. 21376; Cass., 15 aprile 2019, n. 10422; Cass., 11 ottobre 2018, n. 25154).
L’undicesimo motivo deve ritenersi inammissibile per la novità della questione dedotta, che non risulta dal provvedimento impugnato,
rilevandosi, sul punto, il ricorso privo di autosufficienza perché non rispettoso del noto principio secondo cui « Qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso. I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito né rilevabili d’ufficio » (Cass., 9 luglio 2013, n. 17041; Cass., 9 agosto 2018, n. 20694; Cass., 13 giugno 2018, n. 15430; Cass., 13 agosto 2018, n. 20712).
Ed invero, nel giudizio di cassazione, infatti, non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini e accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (Cass., 13 giugno 2018, n. 15430) e, in quest’ottica, il ricorrente ha l’onere di riportare, a pena d’inammissibilità, dettagliatamente in ricorso gli esatti termini della questione posta al giudice di merito (Cass., 9 luglio 2013, n. 17041).
Inoltre, il motivo è pure inammissibile perché rivolge la censura, nella sua tecnica di formulazione, direttamente al provvedimento impositivo. Come questa Corte ha già precisato, il motivo di ricorso attinente direttamente all’atto di accertamento è inammissibile, in quanto l’atto di accertamento non è atto del processo, bensì atto, la cui impugnazione è oggetto del processo (Cass., 27 marzo 2013, n. 7717; Cass., 7 maggio 2007, n. 10295; Cass., 13 marzo 2009, n. 6134).
Deve comunque ribadirsi anche l’infondatezza del motivo proposto tenuto conto che non sussiste un’obiettiva incertezza normativa, proprio in ragione della richiamata pronuncia della Corte Costituzionale, atteso che secondo l’orientamento di questa Corte l’ incertezza normativa oggettiva tributaria è caratterizzata dall’impossibilità d’individuare con sicurezza ed univocamente, al termine di un procedimento interpretativo metodicamente corretto, la norma giuridica nel cui ambito il caso di specie è sussumibile e la stessa può essere desunta dal giudice attraverso la rilevazione di una serie di «fatti indice», quali ad esempio: 1) la difficoltà d’individuazione delle disposizioni normative; 2) la difficoltà di confezione della formula dichiarativa della norma giuridica; 3) la difficoltà di determinazione del significato della formula dichiarativa individuata; 4) la mancanza di informazioni amministrative o la loro contraddittorietà; 5) la mancanza di una prassi amministrativa o l’adozione di prassi amministrative contrastanti; 6) la mancanza di precedenti giurisprudenziali; 7) la formazione di orientamenti giurisprudenziali contrastanti, specie se sia stata sollevata questione di legittimità costituzionale; 8) il contrasto tra prassi amministrativa e orientamento giurisprudenziale; 9) il contrasto tra opinioni dottrinali; 10) l’adozione di norme di interpretazione autentica o meramente esplicative di norma implicita preesistente.” (Cass. civ., 17 maggio 2017 n. 12301; Cass. civ. 13 giugno 2018, n. 15452).
In ultimo, va rilevato che, contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, è comunque sufficiente la coscienza e la volontà della condotta, senza che occorra la dimostrazione del dolo o della colpa, la quale si presume fino alla prova della sua assenza, che deve essere offerta dal contribuente e va distinta dalla prova della buona fede, che rileva, come esimente, solo se l’agente è incorso in un errore
inevitabile, per essere incolpevole l’ignoranza dei presupposti dell’illecito e dunque non superabile con l’uso della normale diligenza (Cass., 30 gennaio 2020, n. 2139), onere della prova che, nel caso in esame, non è stato assolto.
20. Il dodicesimo motivo è inammissibile perché ancora una volta deduce come omesso esame di un fatto decisivo l’omessa considerazione dei fatti e delle allegazioni di cui alle eccezioni svolte nell’atto di controdeduzioni depositato in data 5 dicembre 2016 e di cui allo specifico motivo n. 11 e già si è detto che il mancato esame deve riguardare un vero e proprio «fatto», in senso storico e normativo, ossia un fatto principale, ex art. 2697 cod. civ., cioè un «fatto» costitutivo, modificativo impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario, vale a dire un fatto dedotto ed affermato dalle parti in funzione di prova di un fatto principale (Cass., 8 settembre 2016, n. 17761; Cass. 13 dicembre 2017, n. 29883), e non, invece, le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass., SU, 20 giugno 2018, n. 16303; Cass. 14 giugno 2017, n. 14802), oppure gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
Inoltre, « La riformulazione dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 delle preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto
con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione » (così Cass., Sez. U., Sez. U, 7 aprile 2014, n. 8053 e, più di recente, Cass., 3 marzo 2022, n. 7090). Sicché non sussiste il vizio motivazionale dedotto avendo i giudici di secondo grado, pur in forma concisa, affermato la legittimità delle sanzioni e che l’incremento attuato sul minimo edittale irrogato era motivato.
21. Il tredicesimo motivo, che in parte ribadisce profili di censura che sono stati già esaminati e ritenuti infondati e inammissibili, è pure inammissibile per difetto di specificità, tenuto conto delle specifiche norme invocate dal ricorrente e poste a fondamento del vizio di nullità della sentenza; né pare sussistere l’asserita inversione dei ruoli processuali, avendo chiaramente la CTR richiamato il ricorso di primo grado e il motivo ivi svolto dal ricorrente sulle sanzioni, ritenendolo generico.
22. Per quanto esposto, il ricorso deve essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate controricorrente, delle spese di lite, liquidate come da dispositivo; inoltre, per effetto di quanto previsto dal novellato art. 380 bis, comma 3, c.p.c., stante la conformità tra la proposta (opposta) e la presente decisione, il ricorrente va condannato al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, di un ulteriore importo, ai sensi dell’art. 96, comma 3, c .p.c. e in favore della cassa delle ammende, di un ulteriore importo, ai sensi dell’art. 96, comma 4, c .p.c. (cfr. anche Cass., Sez. U, 27 settembre 2023, n. n. 27433).
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente , al pagamento, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in euro 5.800,00 per compenso professionale, oltre le spese prenotate a debito e dell’ulteriore importo di euro 2.900,00 ex art. 96, comma 3, c.p.c.
Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della cassa delle ammende, dell’importo di euro 1.450,00.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis , dello stesso articolo 13, ove dovuto.
Così deciso in Roma, in data 27 marzo 2025.