Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 758 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 758 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 09/01/2024
ORDINANZA
ha pronunciato la seguente sul ricorso n. 29064/2017 proposto da:
NOME COGNOME rappresentato e difeso dall’Avv. NOME COGNOME con domicilio eletto presso lo studio dell’Avv. NOME COGNOME, in Roma, in INDIRIZZO giusta procura speciale in calce al ricorso per cassazione.
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, nella persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, INDIRIZZO
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, n. 2006/2017, depositata in data 10 maggio 2017, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21 novembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO CHE
La Commissione tributaria provinciale di Milano, con sentenza n. 2841/16/16, depositata in data 30 marzo 2016, aveva respinto il ricorso proposto da NOME avverso l’avviso di accertamento emesso, a seguito di indagini bancarie, per l’anno di imposta 2008, in applicazione dell’art. 39, comma 1, lett. d) , del d.P.R. n. 600/73 e dell’art. 54 del d.P.R. n. 633/72 .
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello del contribuente sulla base delle seguenti considerazioni:
-) non sussisteva il vizio di motivazione della sentenza impugnata in considerazione del fatto che i primi giudici si erano pronunciati su tutti i motivi dedotti nel ricorso e la parte motiva soddisfaceva i requisiti di legge previsti dall’art. 36 del decreto legislativo n. 546 del 1992;
-) non sussisteva nemmeno il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento, che indicava in modo molto dettagliato le ragioni che avevano determinato il controllo della dichiarazione presentata per l’anno 2008;
-) nell’avviso di accertamento erano stati indicati tutti i movimenti bancari divisi per conto corrente con le giustificazioni formulate dal contribuente e i documenti prodotti con memoria recepita dall’Ufficio ed era stata illustrata anche la motivazione dell’accertamento del maggior reddito non dichiarato derivante dalla verifica del conto corrente cointestato con COGNOME NOME e COGNOME NOME, dal quale emergeva l’accredito in data 13 febbraio 2008 della somma di euro 190.014,29, relativa alla cessione di un immobile sito in Milano INDIRIZZO
COGNOME, tenuto conto che nel rogito era indicata solo la somma di 100 mila euro;
-) in mancanza di prova da parte del contribuente che la restante somma fosse di altra provenienza e comunque giustificata, l’Ufficio aveva correttamente attribuito a NOME un terzo della somma non dichiarata nell’atto notarile (euro 30.005,00) a titolo di redditi diversi ex art. 67 comma primo, lett. b) del Tuir;
-) anche su questo punto il contribuente non aveva dimostrato alcunché, limitandosi a inviare due mail al responsabile del procedimento in data 12 dicembre 2013 e 17 dicembre 2013, nella quale dava delle spiegazioni che non potevano assurgere al rango di prova;
-) a fronte del fatto che su euro 542.879,00 euro di versamenti riscontrati sui vari conti bancari intestati al contribuente, solo euro 243.257,00 erano stati dichiarati come ricavi, mentre la considerevole somma di euro 308.622,00 non era stata giustificata, il contribuente avrebbe dovuto, operazione per operazione, produrre il documento giustificativo di entrata e il motivo dell’incasso mentre ciò non era avvenuto, pur avendo avuto sei mesi di tempo per preparare in modo completo e organico la documentazione richiesta, che era frammentaria e obbiettivamente poco comprensibile;
non era fondata neppure la questione dell’eccepita violazione del contraddittorio attesi i plurimi incontri avvenuti dal mese di giugno al mese di dicembre 2013 e lo scambio di mail tra le parti come si evinceva dalla stessa documentazione allegata al primo ricorso dallo stesso contribuente;
-) l’Ufficio aveva esaminato anche la documentazione inviata a mezzo mail dal contribuente anche dopo il termine ultimo fissato per il deposito nella data del 3 dicembre 2013;
-) non vi era stata violazione dell’art. 12, comma 7, dello statuto del contribuente in quanto non si era trattato di verifica tributaria con
accesso o ispezioni presso la sede in cui il contribuente svolgeva la propria attività;
-) nel merito sulla richiesta di riconoscimento dello scorporo dell’IVA, alla luce della natura cartolare dell’imposta e del mancato esercizio, nella dichiarazione dei redditi, della detrazione dell’imposta relativa alle forniture non contabilizzate, ex articolo 19, comma 1, del d.P.R. n. 633/1972, non poteva essere riconosciuta alcuna detrazione di tale imposta;
-) con riguardo ai costi non era stato fornito alcun elemento ed erano stati in ogni caso riconosciuti i costi già esposti nella dichiarazione fiscale.
NOME COGNOME ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a quattro motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO CHE
Il primo mezzo deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 36 del decreto legislativo n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., e dell’art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia sul vizio denunciato con riferimento alla sentenza di primo grado che non aveva statuito su un fatto decisivo della controversia. Il ricorrente aveva lamentato, nell’atto di appello, il difetto di motivazione e di omessa pronuncia della sentenza impugnata in quanto i giudici di primo grado nulla avevano detto sulla doglianza del ricorrente sulla erronea determinazione del reddito di impresa da parte dell’Ufficio. I giudici di secondo grado avevano avallato acriticamente la decisione di primo grado incorrendo anch’essi nello stesso errore di non esaminare le movimentazioni in discussione e le relative giustificazioni. In particolare, i giudici di primo e di secondo grado non avevano verificato se la doglianza del ricorrente in merito alla determinazione del reddito di impresa artigianale in euro
308.622,00 fosse corretta, considerato che il ricorrente si doleva del fatto che l’Ufficio non aveva tenuto in considerazione alcuni importi come ad esempio la fattura n. 22 del 10 dicembre 2007 di euro 114.400,00, incassata dal ricorrente in diverse tranche nell’anno 2008 versate dalla società RAGIONE_SOCIALE compresa di Iva al 4%, così come l’assegno riguardante il rimborso della cauzione di euro 2.575,78 rilasciata a suo tempo dal ricorrente per partecipare all’assegnazione ad una gara di appalto. Considerando tale circostanza, infatti, il maggior reddito rideterminato dall’Ufficio in 308.622,00 euro avrebbe dovuto ridursi ad un importo molto inferiore e precisamente a 104.670,22 euro. Non solo era stata data evidenza, fin dal giudizio di primo grado, del fatto che l’accredito di 190.014,29 euro, avvenuto sul conto corrente cointestato con i signori COGNOME e COGNOME, non poteva essere considerato tutto corrispettivo della vendita effettuata, il cui importo dichiarato in atti era pari a euro 100.000,00, in quanto tale accredito concerneva due assegni, uno di euro 100.000,00, pari al prezzo della vendita, e l’altro di euro 90.586,04 emesso dalla società RAGIONE_SOCIALE che si era occupata della vendita che aveva dato tali somme ai tre venditori allo scopo di potergli fare estinguere il prestito esistente che essendo superiore al valore dell’atto di vendita non avrebbe potuto essere coperto con il solo ricavato della vendita. Per non far sfuggire l’occasione della vendita dell’immobile, l’RAGIONE_SOCIALE aveva dato la propria disponibilità a coprire la differenza di mutuo residuo a condizione che tali somme venissero immediatamente restituite a seguito dell’incasso del ricavato della vendita. Tanto è vero che il ricorrente aveva prodotto la copia degli assegni emessi a favore della RAGIONE_SOCIALE a restituzione di tale somma.
Il secondo mezzo deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma
7, della legge n. 212/2000, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere i giudici di appello ritenuto non essere obbligatorio il contraddittorio preventivo con il ricorrente neppure relativamente all’IVA e per avere notificato l’atto prima del decorso di sessanta giorni dalla data di consegna dei documenti per essere in scadenza il termine di decadenza dal potere di accertamento. Il contraddittorio con la parte, contrariamente a quanto sostenuto sia dai giudici di primo grado che dai giudici di appello, non poteva ritenersi essersi svolto regolarmente non avendo il ricorrente neppure avuto la possibilità di giustificare tutte le movimentazioni e ciò di sicuro non per sua volontà essendosi attivato immediatamente presso le banche interessate che avevano tardato a consegnare la documentazione richiesta. Il ricorrente aveva depositato la prima documentazione a dicembre 2013 solo dopo aver avuto dalle banche la copia degli estratti dei conti correnti controllati, come era riscontrato dai verbali redatti in occasione dell’incontro del 25 luglio 2013 e in quello del 9 ottobre 2013. Il ricorrente aveva chiesto un rinvio in quanto pur avendo richiesto tempestivamente alle banche la copia degli estratti di conto corrente e degli assegni queste glieli avevano consegnati con notevole ritardo. Né il contribuente avrebbe potuto rispondere prima in quanto trattandosi di movimentazioni relative ad operazioni effettuate 5 anni prima non era in grado, senza la documentazione bancaria, di ricordarsi la causale dei dati controllati e ciò in quanto piccolo artigiano che aveva optato per il regime di contabilità semplificata. La Veneto Banca aveva consegnato la documentazione afferente il conto corrente acceso presso un suo sportello solo successivamente alla notifica dell’avviso di accertamento costringendo il ricorrente a dare le giustificazioni e la documentazione relativa ad una parte delle movimentazioni solo in sede di procedimento con adesione. La decisione dei giudici di secondo grado che non era necessario il
contraddittorio in quanto l’Ufficio non aveva effettuato una verifica fiscale presso la sede del contribuente, ma solo il controllo della documentazione presentata, ipotesi nella quale non sarebbe obbligatoria la redazione di un processo verbale, era errata e, in ogni caso, il contraddittorio preventivo avrebbe dovuto essere instaurato quantomeno con riferimento all’IVA. L’Ufficio non solo non aveva instaurato con il ricorrente il contraddittorio preventivo, ma piuttosto aveva adottato il provvedimento di accertamento a distanza di un brevissimo lasso di tempo dalla consegna della documentazione da parte del ricorrente (la documentazione era stata depositata il 3 dicembre 2013, l’avviso di accertamento era datato 16 dicembre 2013) e ciò perché era in scadenza il termine di decadenza dal potere di accertamento che per l’annualità d’imposta in discussione avrebbe dovuto essere effettuato entro il 31 dicembre 2013.
3. Il terzo mezzo deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 32, 39, 42 del d.P.R. n. 600/1973 e per violazione del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost. in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere confermato la sentenza di primo grado nonostante l’Ufficio avesse recuperato a tassazione le somme afferenti le movimentazioni bancarie in assenza di ulteriori elementi di prova e senza tenere conto delle giustificazioni date dal contribuente. In particolare era stato rilevato come l’avviso di accertamento non aveva indicato ulteriori elementi di prova che avrebbero consentito di utilizzare le risultanze delle movimentazioni bancarie per fondare l’accertamento, in quanto l’Ufficio si era limitato a riportare l’elenco delle movimentazioni riscontrate sui conti correnti, mentre il ricorrente aveva fornito la prova contraria avendo dimostrato che trattavasi di movimenti relativi ad anni precedenti o irrilevanti dal punto di vista fiscale. I giudici di secondo grado, avallando il comportamento dell’Ufficio, avevano male
applicato le norme in discussione che imponevano di considerare ulteriori elementi e non solo i dati bancari in un’ipotesi nella quale si era in presenza anche di prove contrarie fornite dal ricorrente.
Il quarto mezzo deduce l’illegittimità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. artt. 39 del d.P.R. n. 600/1973, 109, comma 4, TUIR, del principio di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost e degli artt. 18, 51 e 55 del d.P.R. n. 633/1972, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per avere confermato la sentenza di primo grado nonostante l’Ufficio non avesse riconosciuto la deducibilità di alcun costo e non avesse scomputato l’IVA addebitata in rivalsa. La sentenza era errata, laddove non aveva riconosciuto, un’incidenza percentuale di costi presunti a fronte dei maggiori ricavi accertati; regola che, ovviamente, valeva anche se in tutto o in parte i maggiori ricavi erano stati assunti tramite indagini bancarie. Inoltre, i giudici di secondo grado avevano male applicato le norme indicate, ritenendo erroneamente che l’IVA in rivalsa dovesse essere scomputata secondo le regole dettate in materia di detrazione, senza tenere conto che l’IVA da scorporare non era l’IVA in detrazione a cui il contribuente aveva diritto in relazione alle fatture ricevute.
Il secondo motivo, la cui trattazione è prioritaria rispetto ai restanti motivi, è infondato, avendo la Commissione tributaria regionale correttamente ritenuto, aderendo alla consolidata giurisprudenza di questa Corte, che il termine dilatorio di sessanta giorni prima della notifica dell’accertamento, previsto dalla norma invocata, è inapplicabile a fattispecie, come quella in esame, in cui non vi è stata attività di verifica nella sede del contribuente, trattandosi di accertamento effettuato in base alla documentazione presentata dalla parte e alle risultanze di indagini bancarie (Cass., 8 marzo 2023, n. 6874).
5.1 Quanto alla mancata attivazione del contraddittorio per l’accertamento relativo anche a IVA, va ribadito che in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a rispettare, anche nell’ambito delle indagini cd. “a tavolino” effettuate nei confronti di terzi, il contraddittorio endoprocedimentale ove l’accertamento attenga a tributi «armonizzati», ma la violazione di tale obbligo comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere – non adempiuto nella fattispecie- di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa (Cass., 19 luglio 2021, n. 20436).
5.2 Né sussiste, come dedotto, un obbligo generalizzato di attivare un contraddittorio endoprocedimentale, in quanto in tema di procedimento tributario, l’obbligatorietà del detto contraddittorio, codificato dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali della U.E., pure costituendo un diritto fondamentale del contribuente e principio fondamentale dell’ordinamento europeo, in quanto espressione del diritto di difesa e finalizzato a consentire al contribuente di manifestare preventivamente il suo punto di vista in ordine agli elementi su cui l’Amministrazione intende fondare la propria decisione, non è assunto dalla giurisprudenza della C orte di Giustizia dell’Unione europea in termini assoluti e formali, ma può soggiacere a restrizioni che rispondano, con criterio di effettività e proporzionalità, a obiettivi di interesse generale, sicché, nell’ambito tributario, non investe l’attività di indagine e di acquisizione di elementi probatori, svolta dall’Amministrazione fiscale (Cass., 9 luglio 2020, 14628).
Il primo e il terzo motivo, che vanno trattati unitariamente perché connessi, sono fondati.
6.1 Ed invero, la Commissione tributaria regionale ha affermato che nell’avviso di accertamento era stata illustrata anche la motivazione dell’accertamento del maggior reddito non dichiarato derivante dalla
verifica del conto corrente cointestato con COGNOME NOME e COGNOME NOME, dal quale emergeva l’accredito in data 13 febbraio 2008 della somma di euro 190.014,29, relativa alla cessione di un immobile sito in Milano INDIRIZZO tenuto conto che nel rogito era indicata solo la somma di 100 mila euro; i giudici di secondo grado, tuttavia, pur avendo correttamente affermato che il contribuente avrebbe dovuto, operazione per operazione, produrre il documento giustificativo di entrata e il motivo dell’incasso, ha ritenuto che il contribuente non avesse fornito la prova che la restante somma fosse di altra provenienza e che, dunque, correttamente l’Ufficio avesse attribuito al NOME un terzo della somma non dichiarata nell’atto notarile (euro 30.005,00) a titolo di redditi diversi ex art. 67 comma primo, lett. b) del Tuir; in particolare, i giudici di secondo grado hanno riferito che su questo punto il contribuente non aveva dimostrato alcunché, limitandosi a inviare due mail al responsabile del procedimento in data 12 dicembre 2013 e 17 dicembre 2013, nella quale dava delle spiegazioni che non potevano assurgere al rango di prova; in conclusione, i giudici di merito hanno evidenziato che a fronte del fatto che su euro 542.879,00 euro di versamenti riscontrati sui vari conti bancari intestati al contribuente, solo euro 243.257,00 erano stati dichiarati come ricavi, mentre la considerevole somma di euro 308.622,00 non era stata giustificata. Così facendo, tuttavia, nulla hanno motivato sugli elementi specifici dedotti dal contribuente a giustificazione dei maggiori ricavi accertati e specificamente sulla fattura n. 22 del 10 dicembre 2007 di euro 114.400,00, incassata dal ricorrente in diverse tranche nell’anno 2008 versate dalla società RAGIONE_SOCIALE compresa di Iva al 4%, così come sull’assegno riguardante il rimborso della cauzione di euro 2.575,78 rilasciata a suo tempo dal ricorrente per partecipare all’assegnazione ad una gara di appalto ed, infine, con specifico riferimento all’accredito di 190.014,29 euro, sulla circostanza che tale accredito concerneva due
assegni, uno di euro 100.000,00, pari al prezzo della vendita, e l’altro di euro 90.586,04 emesso dalla società RAGIONE_SOCIALE che si era occupata della vendita che aveva dato tali somme ai tre venditori allo scopo di potergli fare estinguere il prestito esistente che essendo superiore al valore dell’atto di vendita non avrebbe potuto essere coperto con il solo ricavato della vendita, assegni emessi a favore della RAGIONE_SOCIALE a restituzione di tale somma e che erano stati prodotti dal contribuente.
6.2 Questa Corte, anche di recente ha ribadito che « In tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze » (Cass., 24 luglio 2023, n. 22047; Cass., 30 giugno 2020, m. 13112; Cass., 3 maggio 2018, n. 10480).
6.3 Nel dettaglio, poi, la prova deve essere « idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (Cass., 30 giugno 2020, n. 13112, citata, in motivazione).
6.4 A tale dimensionamento dell’onere della prova gravante sul contribuente corrisponde, dunque, l’obbligo del giudice di merito, da un lato, di operare una verifica rigorosa dell’efficacia dimostrativa delle
prove fornite dal contribuente a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, e, dall’altro, di dare espressamente conto in sentenza delle risultanze di quella verifica (Cass., 18 novembre 2021, n. 35258).
6.5 Nella fattispecie in esame, il giudice d’appello non ha fatto corretta applicazione di tali canoni giuridici, perché non ha verificato, con il predetto rigore analitico, la documentazione sopra indicata e prodotta a supporto dal contribuente dei correlati versamenti bancari.
Il quarto motivo deve ritenersi fondato avuto riguardo alla doglianza sulla determinazione dei costi ed infondato con riferimento alla doglianza relativa allo scorporo Iva.
7.1 Ed invero, questa Corte ha, di recente, affermato il principio secondo cui « In tema di accertamenti bancari di cui all’art. 32, comma 1, n. 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, così come interpretato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 10 del 2023, a fronte della presunzione legale di ricavi non contabilizzati, e quindi occulti, scaturenti da prelevamenti bancari non giustificati, il contribuente imprenditore può sempre, anche in caso di accertamento analitico-induttivo, eccepire l’incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati » (Cass., 23 febbraio 2023, n. 5586; Cass., 8 marzo 2023, n. 6874).
7.2 La Commissione tributaria regionale, dunque, non si è conformata ai superiori principi, laddove ha affermato che la società contribuente non aveva fornito alcun elemento con riguardo ai costi e che, in ogni caso, erano stati riconosciuti i costi già esposti nella dichiarazione fiscale (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).
7.3 La censura sullo scorporo Iva è, invece, infondata, avendo i giudici di secondo grado, correttamente, richiamato la natura cartolare dell’imposta, che implica la sussistenza dell’obbligo di versamento dell’Iva per l’intero ammontare indicato nella fattura, e il mancato esercizio, nella dichiarazione dei redditi della detrazione dell’imposta
relativa alle forniture non contabilizzate ex art. 19, comma 1, del d.P.R. n. 633 del 1972 (cfr. pag. 6 della sentenza impugnata).
Per le ragioni di cui sopra, vanno accolti il primo, il terzo e il quarto motivo, quest’ultimo, nei limiti di cui in motivazione, e va rigettato il secondo; la sentenza impugnata va cassata, in relazione ai motivi accolti, e la causa va rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo , il terzo e il quarto motivo, quest’ultimo nei limiti di cui in motivazione; rigetta il secondo motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti, e rinvia la causa alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese di legittimità.
Così deciso in Roma, in data 21 novembre 2023.