Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 972 Anno 2024
Civile Ord. Sez. 5 Num. 972 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data pubblicazione: 10/01/2024
Avv. Acc. IRPEF 2007
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 28700/2016 R.G. proposto da:
COGNOME rappresentato e difeso dall’Avvocato NOME COGNOME ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Roma, INDIRIZZO
-ricorrente – contro
RAGIONE_SOCIALE, in persona del Direttore pro tempore , con sede in 00145 Roma, INDIRIZZO C/D rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, INDIRIZZO, presso l’Avvocatura generale dello Stato.
-controricorrente –
Avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. LAZIO n. 2699/04/2016, depositata in data 05 maggio 2016.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 29 novembre 2023 dal Consigliere NOME COGNOME
Rilevato che:
Il contribuente riceveva notifica dall’Agenzia delle Entrate direzione provinciale Roma II -di tre distinti avvisi di accertamento, relativi ad IRPEF ed altro per gli anni di imposta
2004-2005-2006 (TK5017P06975, TK5017P06976, TK5017P06996); la verifica rilevava la presenza di operazioni effettuate, negli anni contestati, presso diversi istituti bancari (Unicredit, Banca della Toscana, Banca Popolare di Verona, TERCAS-Cassa di Risparmio della Provincia di Teramo) versando o cambiando assegni, operazioni non giustificate rispetto al reddito posseduto.
Avverso gli avvisi di accertamento, NOME COGNOME proponeva distinti ricorsi dinanzi la C.t.p. di Roma adducendo di essere un semplice impiegato o commesso, di aver avuto accesso, nella sua veste lavorativa, ai conti correnti bancari di più società e specificamente delle società RAGIONE_SOCIALE tutte facente capo alla medesima persona, tale signor COGNOME e di non aver tenuto un tenore di vita compatibile con la riferibilità a sé stesso dei conti correnti contestati. L’Ufficio resisteva con controdeduzioni.
La RAGIONE_SOCIALE di Roma, con sentenza n. 447/41/2012, depositata in data 11.12.2012, previa riunione, rigettava i ricorsi riuniti osservando che il ricorrente avesse ampia delega all’incasso e al deposito in relazione ai conti correnti intestati alle società per le quali lavorava, ma non aveva chiarito quale fosse la sua posizione reale all’interno delle stesse società, atteso che la mancata produzione delle visure camerali delle società e delle buste paga attestanti la sua effettiva qualifica rendevano legittimo l’accertamento fiscale.
Contro la sentenza proponeva appello il contribuente dinanzi la C.t.r. del Lazio; resisteva l’Ufficio con controdeduzioni.
Con sentenza n. 2699/04/2016, depositata in data 5 maggio 2016, la C.t.r. adita rigettava il gravame confermando la pronuncia di prime cure.
Avverso la sentenza della C.t.r. del Lazio, il contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato a due motivi.
L’Agenzia delle Entrate ha resistito con controricorso.
La causa è stata trattata nella camera di consiglio del 29 novembre 2023.
Considerato che:
Con il primo motivo di ricorso, così rubricato: «Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia» il contribuente lamenta il fatto che la C.t.r. non ha tenuto conto che, negli anni in questione, il contribuente possedesse una sola carta di credito e sopportasse spese per appena € 700,00 mensili; di conseguenza, nonostante i grandi movimenti per conto di terzi, egli non aveva incrementato il proprio conto corrente personale né acquistato immobili di alcun tipo.
1.2. Con il secondo motivo di ricorso, così rubricato: «Violazione ed errata applicazione delle seguenti norme di diritto: art. 2697 cod. civ.» il contribuente lamenta l’ error in iudicando nella parte in cui, nella sentenza impugnata, la C.t.r. ha omesso di valutare le operazioni eseguite dal contribuente nella loro interezza; se è vero che egli eseguiva delle operazioni bancarie di entrata sul proprio conto corrente, contestualmente eseguiva pari operazioni di prelievo e pagamento in favore dei titolari delle società per le quali svolgeva la propria attività lavorative, in qualità di mero esecutore dell’attività svolta da terzi.
Il primo motivo è inammissibile.
Questa Corte ha già avuto modo di chiarire che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa, condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 cod. proc. civ. (Cass. 14/05/2018, n. 11603).
2.1. Nel caso di specie, il motivo di ricorso non risponde a questi principi.
In primo luogo, il generico richiamo, nella rubrica, alla «Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia», per altro, ivi non indicata, prelude, in realtà, ad una serie di rilievi volti a rinnovare le censure mosse all’avviso di accertamento e, dunque, prescindendo del tutto dal decisum . Tali censure, poi, volgono in gran parte a sollecitare una rivalutazione del ragionamento decisorio, sicché, pur apparentemente articolate con riferimento alla motivazione, mirano, in realtà, ad un nuovo esame dei fatti in modo difforme, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un, non consentito, terzo grado di merito (Cass. 04/07/ 2017, n. 8758). In altri termini viene chiesto di effettuare un nuovo esame sul merito della controversa e di approdare ad una valutazione degli elementi di prova difforme da quella fatta propria dal collegio di seconda istanza la cui decisione dà contezza di come i documenti prodotti si profilavano inidonei a dimostrare la sussistenza del prospettato rapporto di lavoro nei tre anni ai quali si riferivano gli avvisi di accertamento impugnati.
3. Il secondo motivo è infondato.
Esso risulta articolato in due profili ossia la violazione dell’art. 32 del d.P.R. 600/1973 -perché si sostiene che l’imputazione a reddito dei movimenti bancari non può avvenire laddove le operazioni risultino eseguite per conto di terzi soggetti -e violazione dell’art.2697 cod. civ. -nella parte in cui la C.t.r. non ha valutato prova idonea quanto allegato.
Costituisce principio giurisprudenziale pacifico e reiterato quello secondo cui In tema di accertamenti bancari, gli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972 prevedono una presunzione legale in favore dell’erario che, in quanto tale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti
dall’art. 2729 c.c. per le presunzioni semplici, e che può essere superata dal contribuente attraverso una prova analitica, con specifica indicazione della riferibilità di ogni versamento bancario, idonea a dimostrare che gli elementi desumibili dalle movimentazioni bancarie non attengono ad operazioni imponibili, cui consegue l’obbligo del giudice di merito di verificare con rigore l’efficacia dimostrativa delle prove offerte dal contribuente per ciascuna operazione e di dar conto espressamente in sentenza delle relative risultanze (Cass. 30/06/2020, n. 13112). Ancora, ‘In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’art. 32, del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede una presunzione legale in base alla quale sia i prelevamenti che i versamenti operati su conti correnti bancari vanno imputati a ricavi ed a fronte della quale il contribuente, in mancanza di espresso divieto normativo e per il principio di libertà dei mezzi di prova, può fornire la prova contraria anche attraverso presunzioni semplici, da sottoporre comunque ad attenta verifica da parte del giudice, il quale è tenuto ad individuare analiticamente i fatti noti dai quali dedurre quelli ignoti, correlando ogni indizio (purché grave, preciso e concordante) ai movimenti bancari contestati, il cui significato deve essere apprezzato nei tempi, nell’ammontare e nel contesto complessivo, senza ricorrere ad affermazioni apodittiche, generiche, sommarie o cumulative'(Cass. 05/05/2017, n. 11102).
3.1. In dettaglio – secondo questa giurisprudenza di legittimità – in materia di accertamenti bancari, all’onere probatorio gravante sul contribuente che vuole superare la presunzione legale posta dalle predette disposizioni a favore dell’erario -che, avendo fonte legale, non necessita dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 2729, cod. civ., per le presunzioni semplici -, di fornire non una prova generica, ma una prova analitica (sul punto, vedi Cass. 26111 del 2015 e la copiosa giurisprudenza ivi richiamata) idonea a dimostrare che gli elementi
desumibili dalle movimentazioni bancarie non sono riferibili ad operazioni imponibili, con indicazione specifica della riferibilità di ogni versamento bancario, in modo da dimostrare come ciascuna delle singole operazioni effettuate sia estranea a fatti imponibili (in termini, Cass. n. 18081 del 2010, n. 22179 del 2008 e n. 26018 del 2014), corrisponde l’obbligo del giudice di merito, da un lato, di operare una verifica rigorosa dell’efficacia dimostrativa delle prove fornite dal contribuente a giustificazione di ogni singola movimentazione accertata, e, dall’altro, di dare espressamente conto in sentenza delle risultanze di quella verifica.
3.2. Nella fattispecie concreta, il giudice d’appello ha fatto corretta applicazione di questi canoni giuridici e normativi laddove, con un accertamento di merito ampiamente e logicamente argomentato e rispettoso delle regole di ripartizione dell’onere probatorio e non censurabile in sede di legittimità, ha rilevato che, a fronte dell’assunto dell’appellante di aver agito sui conti correnti bancari, in ordine ai quali sono state rilevate le movimentazioni oggetto di accertamento, sulla base di delega rilasciata dai titolari dei conti, in quanto dipendente della RAGIONE_SOCIALE, le buste paga prodotte dal contribuente afferivano ad un rapporto di lavoro nel quale egli risultava assunto dalla suddetta società nel 2009. Tali documenti, pertanto, si profilavano inidonei a dimostrare la sussistenza del dedotto rapporto di lavoro nei tre anni ai quali si riferivano gli avvisi di accertamento impugnati; né maggiore attitudine dimostrativa poteva rivestire la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà, a firma di NOME COGNOME nella quale il dichiarante attesta che il contribuente lavorava alle dipendenze della RAGIONE_SOCIALE dal 3 agosto 2006 e ciò perché priva di data certa e non accompagnata dalle buste paga riferibili al periodo dedotto.
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguo il criterio della soccombenza e sono liquidate in dispositivo.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rifondere all’Agenzia delle Entrate le spese processuali che si liquidano in € 10.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 -quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1bis del medesimo art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma il 29 novembre 2023.