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Accertamenti bancari: i limiti secondo la Cassazione

Un imprenditore riceve un avviso di accertamento per maggiori imposte basato su presunzioni da movimenti bancari non giustificati e sul calcolo di una plusvalenza. La Corte di Cassazione ha parzialmente accolto il ricorso, stabilendo due principi chiave sugli accertamenti bancari: la plusvalenza da cessione d’azienda non può essere determinata solo sulla base del valore accertato ai fini dell’imposta di registro e, in caso di ricavi presunti da prelevamenti, il contribuente ha diritto alla deduzione di costi in misura forfettaria. La sentenza è stata cassata con rinvio per un nuovo esame.

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Pubblicato il 21 novembre 2025 in Diritto Tributario, Giurisprudenza Tributaria

Accertamenti bancari: La Cassazione fissa i paletti su plusvalenze e costi

La recente sentenza della Corte di Cassazione n. 15337 del 31 maggio 2024 offre importanti chiarimenti sui limiti del potere del Fisco in materia di accertamenti bancari. Il caso, che vedeva contrapposto un imprenditore individuale all’Agenzia delle Entrate, verteva su un avviso di accertamento per maggiori imposte (IRPEF, IRAP e IVA) derivanti da presunti ricavi non dichiarati, desunti da movimenti sui conti correnti, e da una plusvalenza da cessione d’azienda. La Suprema Corte, pur rigettando la maggior parte dei motivi di ricorso, ne ha accolti due di fondamentale importanza, cassando la sentenza d’appello e rinviando la causa per un nuovo esame.

Il caso: un accertamento basato su movimenti bancari e cessione d’azienda

L’Agenzia delle Entrate, a seguito di una verifica della Guardia di Finanza, notificava a un imprenditore un avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2010. Le contestazioni si basavano su tre pilastri: l’omessa contabilizzazione di incassi, una plusvalenza derivante dalla cessione della propria azienda e ricavi non dichiarati desunti da accertamenti bancari. Nello specifico, l’Ufficio applicava la presunzione legale secondo cui sia i versamenti che i prelevamenti non giustificati sui conti correnti costituiscono ricavi imponibili.
Il contribuente impugnava l’atto, ma i suoi ricorsi venivano respinti sia dalla Commissione Tributaria Provinciale che da quella Regionale. Giunto in Cassazione, l’imprenditore sollevava quindici motivi di ricorso, lamentando vari vizi procedurali e di merito.

L’analisi della Corte di Cassazione e i limiti agli accertamenti bancari

La Suprema Corte ha esaminato nel dettaglio le doglianze del ricorrente, confermando la legittimità di molti aspetti dell’operato dell’Amministrazione Finanziaria, come la motivazione dell’accertamento tramite rinvio al verbale di constatazione (motivazione per relationem). Tuttavia, ha individuato due errori cruciali nella decisione dei giudici di merito, che hanno portato all’accoglimento parziale del ricorso.

Il calcolo errato della plusvalenza da cessione

Il primo punto accolto riguarda il calcolo della plusvalenza realizzata con la vendita dell’azienda. La Commissione Tributaria Regionale aveva avallato il metodo dell’Ufficio, che aveva determinato la plusvalenza basandosi sulla rettifica del valore dell’atto ai fini dell’imposta di registro. La Cassazione ha censurato questa impostazione, richiamando una norma di interpretazione autentica (art. 5, comma 3, d.lgs. n. 147/2015) che esclude la possibilità di determinare in via induttiva la plusvalenza basandosi esclusivamente su tale valore. Per poter accertare un maggior corrispettivo, l’Ufficio deve individuare ulteriori indizi gravi, precisi e concordanti, cosa che nel caso di specie non era avvenuta.

Il diritto alla deduzione dei costi sui ricavi presunti

Il secondo e ancor più rilevante motivo di accoglimento si fonda su una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 10/2023). L’Agenzia aveva recuperato a tassazione l’intero importo dei prelevamenti bancari non giustificati, considerandoli ricavi occulti, senza tenere conto dei costi che l’imprenditore avrebbe necessariamente sostenuto per produrli. La Cassazione ha affermato che, a fronte della presunzione legale di ricavi derivanti da prelevamenti non giustificati, l’imprenditore può sempre opporre la prova contraria, eccependo un’incidenza percentuale forfettaria di costi di produzione. Tali costi devono essere detratti dall’ammontare dei maggiori ricavi presunti. Ignorare questa componente, infatti, violerebbe il principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 della Costituzione.

Le motivazioni della decisione

Le motivazioni della Corte si fondano su un’attenta interpretazione della normativa e dei principi costituzionali. Riguardo alla plusvalenza, la Cassazione ha ribadito che il valore definito ai fini dell’imposta di registro ha una finalità diversa e non può automaticamente traslare nel campo delle imposte dirette senza un supporto probatorio ulteriore a carico del Fisco. Questo per evitare accertamenti automatici e privi di un solido fondamento fattuale.
Sul fronte dei prelevamenti, la Corte ha recepito l’orientamento della Consulta, riconoscendo che presumere che un prelevamento non giustificato sia interamente un ricavo netto è una finzione che contrasta con la realtà economica. Ogni ricavo d’impresa presuppone dei costi. Pertanto, negare la deducibilità di questi ultimi, anche in via forfettaria, si tradurrebbe in una tassazione su un reddito inesistente. La Corte ha quindi stabilito che il giudice di merito dovrà riconsiderare la questione, tenendo conto di questo principio.
Gli altri tredici motivi sono stati invece rigettati per diverse ragioni, tra cui inammissibilità per genericità, infondatezza nel merito o perché volti a un riesame dei fatti non consentito in sede di legittimità, anche in applicazione del principio della “doppia conforme”.

Le conclusioni: implicazioni pratiche per imprese e professionisti

La sentenza n. 15337/2024 ha due importanti implicazioni pratiche. In primo luogo, rafforza le tutele del contribuente contro accertamenti induttivi sulla plusvalenza da cessione, richiedendo all’Agenzia delle Entrate un onere probatorio più stringente. Non basta più basarsi sul valore di registro, ma occorrono prove concrete di un maggior corrispettivo.
In secondo luogo, e in modo ancora più incisivo, sancisce definitivamente il diritto alla deduzione forfettaria dei costi in caso di accertamenti bancari basati sui prelevamenti. Questo principio riequilibra il rapporto tra Fisco e contribuente, evitando che la presunzione legale si trasformi in una tassazione iniqua e sproporzionata rispetto alla reale capacità contributiva dell’impresa. Gli imprenditori sottoposti a verifiche di questo tipo hanno ora uno strumento difensivo più forte per contrastare la pretesa fiscale e veder riconosciuta la componente di costo insita nella loro attività.

L’Agenzia delle Entrate può calcolare una plusvalenza basandosi solo sul valore accertato ai fini dell’imposta di registro?
No. La Corte di Cassazione, richiamando una specifica norma (art. 5, comma 3, d.lgs. n. 147/2015), ha stabilito che l’Amministrazione finanziaria non può determinare la plusvalenza basandosi esclusivamente sul valore dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro. È necessario che l’Ufficio fornisca ulteriori indizi gravi, precisi e concordanti che supportino l’esistenza di un maggior corrispettivo rispetto a quello dichiarato dal contribuente.

Se un imprenditore non giustifica dei prelevamenti bancari, può comunque dedurre dei costi sui ricavi che il Fisco presume?
Sì. A seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 10/2023, la Cassazione ha confermato che il contribuente imprenditore può opporre alla presunzione di ricavi una prova contraria, eccependo un’incidenza percentuale forfettaria di costi di produzione. Tali costi devono essere detratti dall’ammontare dei maggiori ricavi presunti, per non violare il principio di capacità contributiva.

La motivazione di un avviso di accertamento che si limita a richiamare un verbale della Guardia di Finanza è legittima?
Sì. La Corte ha confermato che la motivazione per relationem, ovvero tramite rinvio a un altro atto come il processo verbale di constatazione (PVC), è legittima. Ciò è ammesso in quanto non arreca alcun pregiudizio al diritto di difesa del contribuente, specialmente se, come nel caso di specie, si tratta di un atto già noto al destinatario.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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