Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 10356 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 10356 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 19/04/2025
ICI
sul ricorso iscritto al n. 5203/2018 del ruolo generale, proposto
DA
COGNOME (codice fiscale CODICE_FISCALE, rappresentata e difesa, giusta procura speciale e nomina da intendersi poste in calce al ricorso, dall’avv. NOME COGNOME (codice fiscale CODICE_FISCALE).
– RICORRENTE –
CONTRO
il COMUNE COGNOME (codice fiscale CODICE_FISCALE, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale e nomina da considerarsi poste in calce al controricorso, dall’avv. NOME COGNOME (codice fiscale CODICE_FISCALE.
per la cassazione della sentenza n. 947/3/2017 pronunciata dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, depositata il 9 novembre 2017, notificata il 13 dicembre 2017.
UDITA la relazione svolta all’ adunanza camerale del 24 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Oggetto di controversia è la pretesa di cui all’avviso di accertamento indicato in atti con il quale il Comune de L’Aquila liquidò l’ICI per l’anno di imposta 2010, in ragione del suo omesso versamento in relazione a beni di cui la contribuente era risultata comproprietaria nella misura del 33,33%.
La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo con la suindicata sentenza, decidendo sull’appello proposto dalla sopra menzionata ricorrente, lo rigettò, osservando che:
-l’avviso era da considerarsi correttamente motivato tramite l’individuazione dei beni immobili oggetto di tassazione, dell’entità dell’imposta e dei suoi accessori, avendo peraltro la contribuente dimostrato di aver ben compreso l’oggetto della controversia, impregiudicato il tema della spettanza dell’imposta con riferimento ai beni tassati;
-l’avviso aveva individuato gli immobili oggetto di tassazione, siti nella frazione di Arischia del Comune de L’Aquila, distinti al folio 19, particelle n. 550, sub. 0, e 1438, subb. 1, 2, 4, 9 e 10 (classificati in cat. A e C);
per gli immobili di cui alla particella n. 1438 erano state le stesse ammissioni della contribuente, secondo cui essi costituivano l’abitazione principale della stessa, a dimostrarne la titolarità in capo alla ricorrente, già presunta in
ragione delle risultanze catastali, mentre doveva escludersi, per difetto di prova, ogni esenzione dal pagamento dell’imposta per l’asserita destinazione dei beni (accorpati con modifiche strutturali e delle destinazioni) ad abitazione principale della contribuente;
-quanto all’immobile di cui alla particella 550, sub. 0, la proprietà del bene in capo all’istante derivava, sul piano presuntivo, dall’intestazione catastale, in termini non superati dalle difese della ricorrente, la quale aveva richiamato due visure catastali dalle quali però emergeva che gli asseriti proprietari del bene (che la COGNOME aveva indicato nei sigg.ri NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME) erano risultati, in realtà, intestatari dei subalterni 1 e 2, non anche di quello oggetto di causa, contrassegnato con il n. 0.
Avverso tale pronuncia NOME COGNOME proponeva ricorso per cassazione, notificandolo al Comune de L’Aquila il 31 gennaio 2018, formulando cinque motivi d’impugnazione, depositando, in data 11 gennaio 2025, memoria ex art. 380bis .1, c.p.c.
Il Comune de L’Aquila resisteva con controricorso notificato il 9/14 marzo 2018.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso va respinto per le ragioni che seguono.
Modificando l’ordine delle censure sviluppato dalla difesa della ricorrente, lo scrutinio in rassegna si dirige considerando, in primo luogo, la prima, la terza e la quarta censura, che concernono l’immobile di cui alla particella n. 550, sub. 0, e poi i restanti motivi.
Con il primo motivo di ricorso la contribuente ha eccepito, in relazione al canone di cui all’art. 360, primo comma, num. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, rappresentato dalla circostanza dell’inesistenza per la particella n. 550 del subalterno 0, considerato, invece, sussistente dal Giudice regionale, con ciò quindi deducendo l’errore nel quale sarebbe incorso la Commissione regionale affermando l’esistenza di un immaginario subalterno 0, che non risulta in catasto, con la conseguenza che l’avviso avrebbe dovuto essere decurtato dell’importo di 12,89 €.
Con la stessa censura la ricorrente ha rimproverato al Giudice regionale di aver offerto una motivazione apparente e contraddittoria sul motivo di appello concernente il difetto di motivazione dell’avviso impugnato, per non avere il Comune spiegato per quale ragione l’unità immobiliare, adibita ad abitazione principale, non dovesse godere del beneficio dell’esenzione previsto dall’art. 1 d.l. n. 93/2008.
2.1. Il motivo risulta inammissibile, oltre che infondato.
Sotto il primo profilo e con riferimento alla prima parte, la censura di cui all’art. 360, primo comma, num. 5, c.p.c. risulta, infatti, preclusa dalla cd. doppia conforme, avendo anche il primo Giudice rigettato il ricorso della contribuente, la quale, dal suo canto, ha omesso di allegare nella doglianza in esame l’eventuale diversità delle ragioni del rigetto da parte dei giudici di merito.
In tale direzione, va osservato che questa Corte ha più volte avuto modo di chiarire che la previsione all’art. 348 -ter , quinto comma, c.p.c. esclude che possa essere impugnata con ricorso per cassazione ex art. 360, primo comma, num. 5, c.p.c. la sentenza di appello (nella specie depositata il 9 novembre 2017 con riferimento ad un giudizio di appello
incardinato nell’anno 2017) che conferma la decisione di primo grado, precisandosi, altresì, che la predetta previsione si applica anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale (cfr. Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053; da ultimo, anche Cass., Sez. T., 23 ottobre 2024, n. 27547).
L’evidenza della previsione normativa non richiede soverchie argomentazioni per ritenere l’inammissibilità del ricorso in esame, in ragione della esistenza, alla luce di quanto sopra illustrato, di una doppia decisione ‘conforme’ sugli stessi fatti sia da parte della sentenza di primo grado, che da parte della pronuncia di secondo grado, ribadendo che la ricorrente non ha dimostrato -come era suo onere – che le due pronunce si siano, invece, basate su valutazioni diverse, indicando cioè che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello erano state tra loro differenti (cfr., su tali pacifici principi, tra le tante, Cass., Sez. III, 20 settembre 2023, n. 26934; Cass., Sez. L., 7 marzo 2023, n. 6826, che richiama Cass., Sez. II, 10 marzo 2014, n. 5528; Cass., Sez. VI/II, 15 marzo 2022, n. 8320, che richiama Cass., Sez. T, 18 dicembre 2014, n. 26860 e Cass., Sez. I, 22 dicembre 2016, n. 26774 e, nello stesso senso Cass., Sez. VI/II, 9 marzo 2022, n. 7724, nonché Cass., Sez. 6/T, 24 febbraio 2023, n. 5746).
Appena aggiungendo sul punto che la decisione resa in sede di appello non deve necessariamente corrispondere in toto a quella di primo grado, ma è sufficiente che le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico -argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa. Non osta, dunque, alla configurazione della cd. ‘doppia conforme’ il fatto che il giudice di appello, nel condividere e
confermare la decisione impugnata, abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (cfr. Cass. Sez. VI/II, 9 marzo 2022, n. 7724).
2.2. La censura si rivela ancora inammissibile ed altresì infondata, laddove assume, da un lato, che «è macroscopico l’errore in cui è incorso il giudice di secondo cure nell’affermare l’esistenza nel catasto terreni di un fantomatico sub 0 (v. pagina n. 9 del ricorso), per poi lamentare che « la sentenza impugnata omette di esaminare il fatto decisivo della inesistenza di un sub. 0, dotato di rendita catastale, riferibile alla odierna ricorrente » (v. pagina n. 10 del ricorso), così ondeggiando, peraltro in termini contraddittori, tra l’erronea valutazione del fatto ed il suo omesso esame.
E ciò, soprattutto trascurando di considerare che vi è stato, in realtà, da parte del Giudice regionale uno scrutinio specifico sul punto in esame, all’esito del quale è giunto alla conclusione che per l’immobile « distinto al Foglio 19, part. 550, sub. 0, sussiste anzitutto l’elemento presuntivo rappresentato dall’iscrizione in Catasto dell’immobile di cui trattasi intestato alla stessa COGNOME » (v. pagina n. 3 della sentenza).
Risulta, allora, evidente come la doglianza in esame tradisca il tentativo di contestare la valutazione di merito fornita dalla Commissione, patrocinando una diversa lettura dei fatti e finendo con il coinvolgere la Corte in un inammissibile apprezzamento di natura fattuale.
2.3. Come sopra accennato, la ricorrente ha, con il motivo in esame, ha criticato la sentenza impugnata, reputandola altresì affetta da motivazione apparente e contraddittoria nella parte in cui ha dapprima considerato l’avviso di accertamento
adeguatamente motivato, per poi ritenere sussistente la problematica della spettanza o meno del tributo, stante la negazione della contribuente circa la titolarità del bene.
2.4. Anche in tal caso si tratta di censura inammissibile, oltre che infondata.
Sotto il primo aspetto, va, infatti, rilevato che la ricorrente non ha provveduto a riassumere il contenuto dell’avviso impugnato nel suo contenuto rilevante ai fini della decisione, per cui il motivo difetta di autosufficienza (cfr. su tale principio, tra le tante, Cass., Sez. T. 10 giugno 2024, n. 16096; Cass., Sez. T, 27 giugno 2023, n. 18387; Cass., Sez. T, 21 giugno 2023).
Per altro verso, la doglianza si rivela infondata, giacché la motivazione della pronuncia è chiara nell’aver ritenuto, con argomenti specifici e non apparenti, l’avviso motivato, in ragione dell’individuazione dei beni, della misura dell’imposta e dei suoi accessori, tenendo correttamente distinto tale profilo dalla prova della pretesa con riferimento alla contestata titolarità di taluni beni, il tutto con motivazione più che rispettosa del minimo costituzionale richiesto.
Deve, peraltro, sul punto aggiungersi che, come chiarito da questa Corte, non va confusa la motivazione dell’avviso (ritenuta sussistente, come sopra esposto) con la dimostrazione (prova) dei fatti costitutivi della pretesa fiscale, ove si consideri che la motivazione dell’avviso di accertamento costituisce requisito formale di validità dell’atto impositivo, distinto da quello dell’effettiva sussistenza degli elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria, l’indicazione dei quali è disciplinata dalle regole processuali dell’istruzione probatoria operanti nell’eventuale giudizio avente ad oggetto detta pretesa (così Cass., Sez. T., 14
maggio 2024, n. 13305, che richiama Cass., sez. V., 21 febbraio 2020, n. 4639; nello stesso senso, tra le tante, Cass., Sez. T., 10 maggio 2022, n. 14744).
2.5. Va, infine, pure osservato, per mera completezza di analisi, che l’onere motivazionale dell’avviso non comporta anche l’obbligo di esporre le ragioni giuridiche relative al mancato riconoscimento di esenzioni, poiché è onere del contribuente dedurre e provare l’eventuale ricorrenza di una causa di esclusione dell’imposta (così, anche da ultimo, Cass., Sez. T, 8 agosto 2024, n. 22031 cit., che richiama Cass., 24 agosto 2021, n. 23386; Cass., 24 gennaio 2018, 1694; Cass., 11 giugno 2010, n. 14094) ed anche, tra le altre, Cass., Sez. T, 9 dicembre 2024, n. 31640).
In tale prospettiva, va pertanto ribadito che la condizione di abitazione principale costituisce situazione fattuale (dichiarata dal contribuente, accertata o altrimenti conosciuta dal Comune) che non rientra nel contenuto motivazionale dell’atto, ma attiene al diritto o meno di ottenere la riduzione dell’imposta, profilo questo che concerne il merito della controversia (cfr. Cass., Sez. T., 9 agosto 2024, n. 22584).
Con la terza doglianza l’istante ha lamentato, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3 c.p.c., la violazione dell’art. 2697 c.c., ribadendo che per l’immobile di cui alla particella n. 550 non sussiste alcun sub. 0 e che non era stata dimostrata la proprietà del bene tassato in capo alla ricorrente.
3.1. Come sopra, il motivo risulta, per un verso, inammissibile, per altro, infondato.
Sotto il primo profilo, infatti, la censura utilizza impropriamente il canone della violazione di legge (art. 360,
promo comma, num. 3, c.p.c.), coinvolgendo la Corte in inammissibili questioni fattuali circa la sussistenza o meno del predetto subalterno.
Sotto il secondo profilo, non è poi vero che il Giudice regionale abbia sovvertito l’onere probatorio in ordine alla titolarità della suddetta unità immobiliare (sub. 0), avendo tratto il convincimento della riferibilità del bene alla contribuente in base alle risultanze catastali, vale a dire in base all’« elemento presuntivo rappresentato dall’iscrizione in Catasto dell’immobile di cui trattasi intestato alla stessa COGNOME» (così nella sentenza impugnata).
E ciò, in linea con l’orientamento di questa Corte secondo cui, al di fuori dell’ipotesi della rivendicazione, per la quale l’art. 948 c.c. prevede un regime probatorio rigoroso, la proprietà può essere provata, come tutti i fatti, anche con presunzioni e quindi anche attraverso il ricorso alle risultanze catastali (così Cass. n. 7567/2019 che richiama Cass. n. 16094 del 2003 e, nello stesso senso, Cass. n. 504/1982, Cass. n. 4372/1980, Cass. n. 6163/1979, Cass. n. 2805/1971).
Per lo stesso motivo di cui sopra, la quarta censura risulta inammissibile.
Con essa è stata lamentata, con riguardo all’art. 360, primo comma, num. 3, c.p.c., la violazione falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., osservando che la pronuncia impugnata aveva fondato la decisione sulla base di unica presunzione (l’intestazione catastale dei beni), che era stata, in realtà, smentita dalla documentazione prodotta, da cui risultava che l’immobile di cui alla particella 550, sub. 1, 2 e 3 appartenevano ai signori COGNOME.
Senonché , anche in tal caso il parametro di cui all’art. 360, primo comma, num. 3, c.p.c. è stato utilizzato in modo inappropriato per coinvolgere la Corte in un inammissibile riesame della documentazione prodotta e, con essa, del merito della controversia, su cui il Giudice regionale ha formulato le sue pertinenti valutazioni di natura fattuale.
Con la seconda ragione di contestazione la ricorrente ha eccepito, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 d.l. 27 maggio 2008, n. 93 e 5 del regolamento comunale, assumendo, con riguardo al bene di cui alla particella sub. 1438, che non era mai stata negata la titolarità del medesimo in capo alla stessa, ma era stato, invece, rivendicato il fatto che esso costituiva dimora e residenza abituale della ricorrente, come tale esente dal pagamento dell’ICI, per cui l’avviso doveva essere annullato anche per la relativa somma di 57,29 €.
5.1. Anche qui la doglianza si rivela inammissibile sotto un primo profilo ed infondata sotto altro aspetto.
La contestazione, infatti, non si misura con l’ulteriore ratio decisoria della sentenza impugnata, chiaramente basata sulla ritenuta assenza di prova in ordine al dedotto diritto all’agevolazione per l’abitazione principale nella parte in cui la Commissione ha espressamente escluso « per difetto di congruo conforto su tale aspetto, ogni presunta possibile esenzione dall’imposta finanche la rappresentazione della qualità di ‘prima abitazione’ » (cosi alle pagine nn. 2 e 3 della sentenza in rassegna).
Per altro verso, nello stesso motivo in esame si seguita a sostenere che «La signora COGNOME ha enunciato che l’unità immobiliare costituisce la dimora abituale, quella di
residenza abituale, e va pertanto esente da ICI» (v. pagina n. 15 del ricorso), con ciò valorizzando il dato dell’enunciazione del suo presupposto, laddove il Giudice regionale, con apprezzamento di fatto non sindacabile con il canone censorio prescelto, ha ritenuto insussistente la relativa, necessaria, prova.
6. Neanche la quinta censura può essere accolta.
6.1. Con tale doglianza la ricorrente si è doluta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, c.p.c., della violazione dell’art. 4 della tariffa forense approvata con d.m. 55/2014, reputando esorbitante l’importo liquidato di 580,00 €, a titolo di competenze, a fronte di un valore di causa ricompreso nel primo scaglione (sino a 1.100,00 €) e liquidabili (per la somma di 270,00 €) solo per le fasi di studio ed introduttiva, non essendo stata prodotta documentazione, segnalando che, in ogni caso, i compensi medi si adeguavano alla misura di 540,00 €.
6.2. La censura non è fondata.
Va, in primo luogo, osservato che nel vigore del d.m. n. 140/ 2012 e del d.m. n. 55/2014, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.m. n. 37/2018, la quantificazione del compenso e delle spese processuali è espressione di un potere discrezionale riservato al giudice e la liquidazione, se contenuta entro i valori tabellari minimi e massimi, non è sottoposta al controllo di legittimità, fatto salvo l’obbligo di non attribuire somme simboliche, lesive del decorso professionale (cfr. Cass. Cass. n. 34842/2023, che richiama Cass. n. 28325/2022; Cass. n. 14198/2022; Cass. n. 19989/2021; Cass. n. 89/2021; Cass. n. 10343/2020).
Va poi evidenziato che in materia di spese processuali, ai fini della liquidazione del compenso spettante al difensore, il
d.m. n. 55/2014 non prevede alcun compenso specifico per la fase istruttoria, ma stabilisce un compenso unitario per la fase di trattazione che comprende anche quella istruttoria, con la conseguenza che nel computo dell’onorario deve essere compreso anche il compenso spettante per la fase istruttoria, a prescindere dal suo concreto svolgimento (cfr. Cass. n. 18723/2024, che richiama Cass. n. 8561/2023).
Ora, senza considerare la fase cautelare, l’importo massimo liquidabile secondo la tariffa di cui al d.m. 55/2014, ratione temporis applicabile (precedente alla modifica di cui al d.m. 37/2018) era di 992,00 €, ben superiore a quella liquidata dalla Commissione (580,00 €), che risulta essere prossima al valore medio, il che dimostra l’infondatezza del motivo.
Alla stregua delle complessive ragioni che precedono il ricorso va complessivamente respinto.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.
Non solo. Sussistono, altresì, i presupposti per la condanna prevista dell’art. 96, terzo comma, c.p.c.
La causa in oggetto ha un valore dichiarato di complessive 70,18 € (v. pagina n. 21 del ricorso, di cui la somma di 12,89 € ha impegnato tre motivi di ricorso), addirittura inferiore al contributo unificato pari a 86,00 €, ed il ricorso in esame si è caratterizzato per l’articolazione di motivi palesemente inammissibile ed infondati, anche per più concorrenti ragioni, come tali ritenuti anche dai giudici di merito.
Non solo. A fronte di un valore economico scarsamente apprezzabile, l’impugnazione si è distinta per il tentativo di coinvolgere la Corte in un inammissibile terzo grado di giudizio di merito, senza porre nessun tema o questione di rilevanza
generale o nomofilattica tale da giustificare il ricorso al giudice di legittimità.
La Corte costituzionale ha sottolineato -sia pure in altro contesto, ma con affermazione di principio di natura generale -come il legislatore abbia avvertito che « la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera» (cfr. Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77), avendo, peraltro, già chiarito, con riferimento alla disposizione in esame, che la condanna di cui all’art. 96, terzo comma, c.p.c., ha natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa (v. Corte cost. 6 giugno 2019, n. 139, che richiama Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152).
In particolare, è stato chiarito da tali pronunce che detta condanna partecipa di una concorrente finalità sanzionatoria, ponendosi come rimedio avente scopo di deterrenza contro l’abuso del processo, cui si aggiunge la finalità indennitaria, essendo la somma di cui alla condanna destinata alla controparte (cfr. Corte cost. 6 giugno 2019, n. 139, che richiama Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152).
Nella fattispecie in esame ricorrono le condizioni di un utilizzo abusivo del processo, essendo ravvisabili quelle condotte tipizzate dalla giurisprudenza di questa Corte (la condotta di abuso del processo, Cass., Sez. VI-3, 18 novembre 2019, n. 29812, richiamata da Cass. Sez. I, 25 dicembre 2024, n. 34429 ), che qui si individuano nell’insistito esercizio dell’azione, lungo i due gradi del giudizio di merito e nel corso del giudizio di legittimità, senza porre temi di natura giuridica o nomofilattica, senza intercettare fenomeni economici destinati a riproporsi in cause seriali, ma sollevando solo
questioni di prova, come tali valevoli solo per il presente contenzioso (ed annualità di imposta) e per il conseguimento di un non apprezzabile vantaggio economico, in ciò manifestandosi un uso strumentale del processo, con il quale si è privilegiata la prospettiva di un esito prevedibilmente negativo del contenzioso rispetto al pagamento di una modesta imposta inevasa.
Va, dunque, espresso il seguente principio di diritto: «ai fini della condanna di cui all’art. 96, terzo comma, c.p.c. per l’ipotesi di abuso del processo costituisce, nel giudizio di cassazione, indice sintomatico di un uso strumentale del processo lo scarso valore economico della controversia, qualora l’impugnazione si caratterizzi per la mancata prospettazione di questioni giuridiche o di rilevanza nomofilattica o aventi ricadute economiche rilevanti in contenziosi seriali (anche se ciascuno di scarso valore) e si riveli palesemente inammissibile e/o infondata».
In applicazione di tale principio la ricorrente va, dunque, condannata, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., al pagamento in favore del Comune de L’Aquila di una somma equitativamente determinata secondo un multiplo delle spese di lite (cfr. Cass., Sez. III, 20 novembre 2020, n. 26435), come in dispositivo.
Va, infine, dato atto che sussistono i presupposti di cui all’art 13, comma 1 -quater , d.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento da parte della ricorrente di una somma pari a quella eventualmente dovuta a titolo di contributo unificato per il ricorso.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna NOME COGNOME al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in
favore del Comune de L’Aquila nella somma di 600,00 € per competenze, nonché al pagamento in favore del Comune de L’Aquila dell’importo di 600,00 € equitativamente determinato, oltre accessori e 200,00 € per spese vive.
Dà atto che sussistono i presupposti di cui all’art 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento da parte della ricorrente di una somma pari a quella eventualmente dovuta a titolo di contributo unificato per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 24 gennaio