Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 10357 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 10357 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data pubblicazione: 19/04/2025
ICI
sul ricorso iscritto al n. 5702/2018 del ruolo generale, proposto
DA
COGNOME NOME (codice fiscale CODICE_FISCALE, rappresentata e difesa, giusta procura speciale e nomina da intendersi poste in calce al ricorso, dall’avv. NOME COGNOME (codice fiscale CODICE_FISCALE).
– RICORRENTE –
CONTRO
il COMUNE COGNOME (codice fiscale CODICE_FISCALE, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale e nomina da considerarsi poste in calce al controricorso, dall’avv. NOME COGNOME (codice fiscale CODICE_FISCALE.
per la cassazione della sentenza n. 948/3/2017 pronunciata dalla Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo, depositata il 9 novembre 2017, notificata il 13 dicembre 2017.
UDITA la relazione svolta all’ adunanza camerale del 24 gennaio 2025 dal Consigliere NOME COGNOME
FATTI DI CAUSA
Oggetto di controversia è la pretesa di cui all’avviso di accertamento indicato in atti con il quale il Comune de L’Aquila liquidò l’ICI per l’anno di imposta 2010, in ragione del suo omesso versamento in relazione a beni di cui la contribuente era risultata comproprietaria nella misura del 33,33%.
La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo con la suindicata sentenza, decidendo sull’appello proposto dalla sopra menzionata ricorrente, lo rigettò, osservando che:
-l’avviso era da considerarsi correttamente motivato tramite l’individuazione dei beni immobili oggetto di tassazione, dell’entità dell’imposta e dei suoi accessori, avendo peraltro la contribuente dimostrato di aver ben compreso l’oggetto della controversia, impregiudicato il tema della spettanza dell’imposta con riferimento ai beni tassati;
-l’avviso aveva individuato gli immobili oggetto di tassazione, siti nella frazione di Arischia del Comune de L’Aquila, distinti al folio 19, particelle n. 550, sub. 0, e 1438, subb. 1, 2, 4, 9 e 10 (classificati in cat. A e C);
per gli immobili di cui alla particella n. 1438 erano state le stesse ammissioni della contribuente, secondo cui essi costituivano l’abitazione principale della stessa, a
dimostrarne la titolarità in capo alla ricorrente, già presunta in ragione delle risultanze catastali, mentre doveva escludersi, per difetto di prova, ogni esenzione dal pagamento dell’imposta per l’asserita destinazione dei beni (accorpati con modifiche strutturali e delle destinazioni) ad abitazione principale della contribuente;
-quanto all’immobile di cui alla particella 550, sub. 0, la proprietà del bene in capo all’istante derivava, sul piano presuntivo, dall’intestazione catastale, in termini non superati dalle difese della ricorrente, la quale aveva richiamato due visure catastali dalle quali però emergeva che gli asseriti proprietari del bene (che la COGNOME aveva indicato nei sigg.ri NOME COGNOME NOME e NOME COGNOME) erano risultati, in realtà, intestatari dei subalterni 1 e 2, non anche di quello oggetto di causa, contrassegnato con il n. 0.
Avverso tale pronuncia NOME COGNOME proponeva ricorso per cassazione, notificandolo al Comune de L’Aquila il 9 febbraio 2018, formulando cinque motivi d’impugnazione, depositando in data 11 gennaio 2025, memoria ex art. 380bis .1, c.p.c.
Il Comune de L’Aquila resisteva con controricorso notificato il 16/26 marzo 2018.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Il ricorso va respinto per le ragioni che seguono.
Con il primo motivo l’istante ha dedotto in relazione al canone di cui all’art. 360, primo comma, num. 5, c.p.c., l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, rappresentato dalla circostanza che i beni di cui alla particella n. 1438, subalterni nn. 9 e 10, costituivano un unico
appartamento, mentre i subalterni subb. 1, 2 e 3 della stessa particella erano stati soppressi per la costituzione del subalterno n. 4, che rappresentava l’abitazione principale della contribuente, profilo questo pure omesso di considerare nella valutazione del Giudice regionale.
1.2. Il motivo risulta inammissibile, oltre che infondato.
La censura di cui all’art. 360, primo comma, num. 5, c.p.c. risulta infatti preclusa dalla cd. doppia conforme, avendo anche il primo Giudice rigettato il ricorso della contribuente, la quale, dal suo canto, ha omesso di allegare nella censura in esame l’eventuale diversità delle ragioni del rigetto da parte dei giudici di merito.
In tale direzione va osservato che questa Corte ha più volte avuto modo di chiarire che la previsione all’art. 348 -ter , quinto comma, c.p.c. esclude che possa essere impugnata con ricorso per cassazione ex art. 360, primo comma, num. 5, c.p.c. la sentenza di appello (nella specie depositata il 9 novembre 2017 con riferimento ad un giudizio di appello incardinato nell’anno 2017) che conferma la decisione di primo grado, precisandosi, altresì, che la predetta previsione si applica anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale (cfr. Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053; da ultimo, anche Cass., Sez. T., 23 ottobre 2024, n. 27547).
L’evidenza della previsione normativa non richiede soverchie argomentazioni per ritenere l’inammissibilità del ricorso in esame, in ragione dell’esistenza, alla luce di quanto sopra illustrato, di una doppia decisione ‘conforme’ sugli stessi fatti sia da parte della sentenza di primo grado, che da parte della pronuncia di secondo grado, ribadendo che la ricorrente non ha dimostrato -come era suo onere – che le
due pronunce si siano, invece, basate su valutazioni diverse, indicando cioè che le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello erano state tra loro differenti (cfr., su tali pacifici principi, tra le tante, Cass., Sez. III, 20 settembre 2023, n. 26934; Cass., Sez. L., 7 marzo 2023, n. 6826, che richiama Cass., Sez. II, 10 marzo 2014, n. 5528; Cass., Sez. VI/II, 15 marzo 2022, n. 8320, che richiama Cass., Sez. T, 18 dicembre 2014, n. 26860 e Cass., Sez. I, 22 dicembre 2016, n. 26774 e, nello stesso senso Cass., Sez. VI/II, 9 marzo 2022, n. 7724, nonché Cass., Sez. 6/T, 24 febbraio 2023, n. 5746).
Appena aggiungendo sul punto che la decisione di secondo grado non deve necessariamente corrispondere in toto a quella di primo grado, ma è sufficiente che le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico -argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa. Non osta, dunque, alla configurazione della cd. ‘doppia conforme’ il fatto che il giudice di appello, nel condividere e confermare la decisione impugnata, abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (cfr. Cass. Sez. VI/II, 9 marzo 2022, n. 7724).
1.3. Per altro verso, la censura si rivela infondata, avendo la Commissione espressamente esaminato i fatti dedotti (soppressione subalterni nn. 1, 2 e 3 e costituzione subalterno n. 4, con accorpamento ai predetti subalterni nn. 9 e 1) e tuttavia « escludendo sin d’ora, per difetto di ogni congruo conforto su tale aspetto, ogni presunta possibile esenzione dall’imposta per il prospettato accorpamento e modificazione catastale di quei subalterni e, finanche, la rappresentazione della qualità di ‘prima abitazione’ (in ipotesi ‘abitazione
principale’) » (cosi alle pagine nn. 2 e 3 della sentenza in rassegna).
Con la seconda ragione di contestazione la ricorrente ha lamentato, con riguardo all’art. 360, primo comma, num. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 1, comma 162, della legge n. 296/2006, sostenendo che l’avviso di accertamento non fosse motivato non avendo spiegato le ragioni del mancato riconoscimento dell’esenzione derivante dall’essere l’immobile tassato destinato ad abitazione principale della contribuente, né avendo la Commissione regionale chiarito come avesse ritenuto superata tale omissione.
Sotto altro aspetto, l’istante s’é doluta della mancata motivazione della determinazione, per il subalterno 9, prima della somma di 13,92 e poi dell’importo di 34,79 €.
2.1. Anche in tal caso il motivo risulta inammissibile, oltre che infondato.
Secondo l’orientamento costante di questa Corte, nel giudizio tributario, in base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione sancito dall’art. 366 c.p.c., qualora il ricorrente censuri la sentenza sotto il profilo della congruità del giudizio espresso in ordine alla motivazione di un avviso di accertamento è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso ne riporti (o riassuma) i passi che si assumono erroneamente interpretati o pretermessi, al fine di consentirne la verifica esclusivamente in base al ricorso medesimo, essendo il predetto avviso non un atto processuale, bensì amministrativo, la cui legittimità è necessariamente integrata dalla motivazione dei presupposti di fatto e dalle ragioni giuridiche poste a suo fondamento (cfr., tra le tante, Cass., Sez. 5, 13 aprile 2021, n. 9630; Cass., Sez. 5, 8 luglio 2021, n. 19395; Cass., Sez. 6-5, 8 settembre 2021, n. 24247; Cass.,
Sez. 6-5, 27 ottobre 2021, n. 30215; Cass., Sez. 5, 4 gennaio 2022, n. 29; Cass., Sez. 5, 11 agosto 2023, n. 24547; Cass., Sez. 5, 12 marzo 2024, n. 6501).
Nel caso di specie, il motivo difetta del predetto requisito di autosufficienza, non essendo stati trascritti o riepilogati nel corpo del ricorso il contenuto rilevante, ai fini della decisione, dell’impugnato avviso di accertamento, quantomeno sul tema della diversa applicazione dell’imposta per il subalterno n. 9, precludendo quindi alla Corte la possibilità di verificare la corrispondenza del contenuto dell’atto impositivo rispetto a quanto asserito dalla contribuente, con conseguenza inammissibilità della censura (cfr. Cass., Sez. T., 24 aprile 2024, n. 11128 cit.).
2.2. Per il resto, va, invece, osservato che questa Corte ha ripetutamente affermato che l’obbligo motivazionale dell’accertamento deve ritenersi adempiuto tutte le volte in cui il contribuente sia stato posto in grado di conoscere la pretesa tributaria nei suoi elementi essenziali e, quindi, di contestare efficacemente l’ an ed il quantum dell’imposta; in particolare, il requisito motivazionale esige, oltre alla puntualizzazione degli estremi soggettivi ed oggettivi della posizione creditoria dedotta, soltanto l’indicazione dei fatti astrattamente giustificativi di essa, che consentano di delimitare l’ambito delle ragioni adducibili dall’ente impositore nell’eventuale successiva fase contenziosa, restando, poi, affidate al giudizio di impugnazione dell’atto le questioni riguardanti l’effettivo verificarsi dei fatti stessi e la loro idoneità a dare sostegno alla pretesa impositiva (così, anche da ultimo, Cass., Sez. T., 14 aprile 2024, n. 11128; Cass., Sez. T, 5 agosto 2024, n. 22031, che richiama Cass., 24 agosto 2021, n. 23386; Cass., 30 gennaio 2019, n. 2555; Cass., 8 novembre 2017, n. 26431; Cass., 10 novembre 2010, n. 22841; Cass., 15 novembre
2004, n. 21571; nello stesso senso, Cass., Sez. T, 2 maggio 2023, n, 11449 e 11443 e, nello stesso senso, Cass., Sez. T., 27 luglio 2023, n. 22702).
Né – si è aggiunto – detto onere di motivazione comporta anche l’obbligo di esporre le ragioni giuridiche relative al mancato riconoscimento di esenzioni, poiché è onere del contribuente dedurre e provare l’eventuale ricorrenza di una causa di esclusione dell’imposta (così, anche da ultimo, Cass., Sez. T, 8 agosto 2024, n. 22031 cit., che richiama Cass., 24 agosto 2021, n. 23386; Cass., 24 gennaio 2018, 1694; Cass., 11 giugno 2010, n. 14094; ed anche Cass., Sez. T, 9 dicembre 2024, n. 31640).
In tale prospettiva, va pertanto ribadito che la condizione di abitazione principale costituisce situazione fattuale (dichiarata dal contribuente, accertata o altrimenti conosciuta dal Comune) che non rientra nel contenuto motivazionale dell’atto, ma attiene al diritto o meno di ottenere la riduzione dell’imposta, profilo questo che concerne il merito della controversia (cfr. Cass., Sez. T., 9 agosto 2024, n. 22584).
Con la terza doglianza l’istante ha eccepito, in relazione all’art. 360, primo comma, num. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 d.l. 27 maggio 2008, n. 93 e 5 del regolamento comunale, assumendo che non era mai stata negata la titolarità del bene in capo alla stessa, ma rivendicato il fatto che esso costituiva dimora e residenza abituale come tale esente dal pagamento dell’ICI, per cui l’avviso doveva essere annullato anche per la relativa somma di 57,29 €.
3.1. Come sopra, la doglianza si rivela inammissibile sotto un profilo ed infondata sotto altro aspetto.
La contestazione, infatti, non si misura con la ratio decisoria della sentenza impugnata, chiaramente basata sulla ritenuta assenza di prova in ordine al dedotto diritto all’agevolazione per l’abitazione principale nella parte in cui la Commissione ha espressamente escluso « per difetto di congruo conforto su tale aspetto, ogni presunta possibile esenzione dall’imposta finanche la rappresentazione della qualità di ‘prima abitazione’ » (così alle pagine nn. 2 e 3 della sentenza in rassegna).
Per altro verso, nello stesso motivo in esame si seguita a sostenere che «La signora COGNOME ha enunciato che l’unità immobiliare costituisce la dimora abituale, quella di residenza abituale, e va pertanto esente da ICI» (v. pagine nn. 13 e 14 del ricorso), con ciò infondatamente ritenendo applicabile l’agevolazione in base all’enunciazione del suo presupposto, non anche in base alla relativa, necessaria, prova, che il Giudice regionale (come quello di primo grado) ha ritenuto non essere stata fornita dall’istante, senza tacere che la deduzione dalla conoscenza, da parte del Comune, della residenza in detta unità abitativa, coinvolge la Corte in un’inammissibile questione di merito.
Con la quarta censura, la ricorrente ha denunciato, con riferimento al parametro di cui all’art. 360, primo comma, num. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 2697 c.c., segnalando che il Comune non aveva dimostrato che il bene tassato non costituiva abitazione principale della contribuente.
4.1. Il motivo è palesemente infondato.
Vanno, infatti, sul punto richiamate le considerazioni in precedenza espresse (v. § sub 2.2.) secondo cui è onere del contribuente dedurre e provare l’eventuale ricorrenza di una causa di esclusione dell’imposta (v., ancora, tra le tante Cass.,
Sez. 5, 24 gennaio 2018, n. 1694; Cass., Sez. 5, 24 agosto 2021, n. 23386; Cass., Sez. 5, 7 dicembre 2022, nn. 36028 e 36032; Cass., Sez. T, 5 agosto 2024, n. 22031).
Non incombeva, quindi, sul Comune l’onere dimostrativo dell’insussistenza delle condizioni di esonero dal pagamento dell’imposta, essendo tale compito, per consolidato orientamento di questa Corte, riservato, come per tutte le agevolazioni o esenzioni tributarie, al contribuente (cfr., tra le tante, Cass., Sez. T., 23 ottobre 2024, n. 27441, che richiama Cass., Sez. 6-5, 4 ottobre 2017, n. 23228), sicché non ricorre nella specie alcuna violazione della regola del riparto probatorio di cui all’art. 2697 c.c.
5. Anche la quinta censura non può essere accolta.
5.1. Con tale doglianza la ricorrente si è doluta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, num. 3, c.p.c., della violazione dell’art. 4 della tariffa forense approvata con d.m. 55/2014, reputando esorbitante l’importo liquidato di 580,00 €, a titolo di competenze, a fronte di un valore di causa ricompreso nel primo scaglione (sino a 1.100,00 €) e liquidabili (per la somma di 270,00 €) solo per le fasi di studio ed introduttiva, non essendo stata prodotto documentazione, segnalando che, in ogni caso, i compensi medi si adeguavano alla misura di 540,00 €.
5.2. La censura non è fondata.
Va, in primo luogo, osservato che nel vigore del d.m. n. 140/2012 e del d.m. n. 55/2014, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal d.m. 37/2018, la quantificazione del compenso e delle spese processuali è espressione di un potere discrezionale riservato al giudice, e la liquidazione, se contenuta entro i valori tabellari minimi e massimi, non è sottoposta al controllo di legittimità, fatto salvo l’obbligo di non
attribuire somme simboliche, lesive del decorso professionale (cfr. Cass. Cass. n. 34842/2023, che richiama Cass. n. 28325/2022; Cass. n. 14198/2022; Cass. n. 19989/2021; Cass. n. 89/2021; Cass. n. 10343/2020).
Va poi evidenziato che in materia di spese processuali, ai fini della liquidazione del compenso spettante al difensore, il D.M. n. 55 del 2014 non prevede alcun compenso specifico per la fase istruttoria, ma stabilisce un compenso unitario per la fase di trattazione che comprende anche quella istruttoria, con la conseguenza che nel computo dell’onorario deve essere compreso anche il compenso spettante per la fase istruttoria, a prescindere dal suo concreto svolgimento (cfr. Cass. n. 18723/2024, che richiama Cass. n. 8561/2023).
5.3. Ora, senza considerare la fase cautelare, l’importo massimo liquidabile secondo la tariffa di cui al d.m. 55/2014, ratione temporis applicabile (precedente alla modifica di cui al d.m. 37/2018) era di 992,00 € superiore a quella liquidata dalla Commissione ben superiore a quella liquidata dalla Commissione (580,00 €), che risulta essere prossima al valore medio, il che dimostra l’infondatezza del motivo.
Alla stregua delle complessive ragioni che precedono il ricorso va complessivamente respinto.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.
Non solo. Sussistono, altresì, i presupposti per la condanna prevista dell’art. 96, terzo comma, c.p.c.
La causa in oggetto ha un valore dichiarato di complessive 57,29 € (v. pagina n. 22 del ricorso), addirittura inferiore al contributo unificato pari a 86,00 €, ed il ricorso in esame si è caratterizzato per l’articolazione di motivi palesemente inammissibile ed infondati, anche per più concorrenti ragioni, come tali ritenuti anche dai giudici di merito.
Non solo. A fronte di un valore economico scarsamente apprezzabile, l’impugnazione si è distinta per il tentativo di coinvolgere la Corte in un inammissibile terzo grado di giudizio di merito, senza porre nessun tema o questione di rilevanza generale o nomofilattica tale da giustificare il ricorso al giudice di legittimità.
La Corte costituzionale ha sottolineato -sia pure in altro contesto, ma con affermazione di principio di natura generale -come il legislatore abbia avvertito che « la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera» (cfr. Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77), avendo, peraltro, già chiarito, con riferimento alla disposizione in esame, che la condanna di cui all’art. 96, terzo comma, c.p.c., ha natura sanzionatoria dell’abuso del processo, commesso dalla parte soccombente, non disgiunta da una funzione indennitaria a favore della parte vittoriosa (v. Corte cost. 6 giugno 2019, n. 139, che richiama Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152).
In particolare, è stato chiarito da tali pronunce che detta condanna partecipa di una concorrente finalità sanzionatoria, ponendosi come rimedio avente scopo di deterrenza contro l’abuso del processo, cui si aggiunge la finalità indennitaria, essendo la somma di cui alla condanna destinata alla controparte (cfr. Corte cost. 6 giugno 2019, n. 139, che richiama Corte cost. 23 giugno 2016, n. 152).
Nella fattispecie in esame ricorrono le condizioni di un utilizzo abusivo del processo, essendo ravvisabili quelle condotte tipizzate dalla giurisprudenza di questa Corte (la condotta di abuso del processo, Cass., Sez. VI-3, 18 novembre 2019, n. 29812, richiamata da Cass. Sez. I, 25 dicembre 2024, n. 34429 ), che qui si individuano nell’insistito esercizio
dell’azione, lungo i due gradi del giudizio di merito e nel corso del giudizio di legittimità, senza porre temi di natura giuridica o nomofilattica, senza intercettare fenomeni economici destinati a riproporsi in cause seriali, ma sollevando solo questioni di prova, come tali valevoli solo per il presente contenzioso (ed annualità di imposta) e per il conseguimento di un non apprezzabile vantaggio economico, in ciò manifestandosi un uso strumentale del processo, con il quale si è privilegiata la prospettiva di un esito prevedibilmente negativo del contenzioso rispetto al pagamento di una modesta imposta inevasa.
Va, dunque, espresso il seguente principio di diritto: «ai fini della condanna di cui all’art. 96, terzo comma, c.p.c. per l’ipotesi di abuso del processo costituisce, nel giudizio di cassazione, indice sintomatico di un uso strumentale del processo lo scarso valore economico della controversia, qualora l’impugnazione si caratterizzi per la mancata prospettazione di questioni giuridiche o di rilevanza nomofilattica o aventi ricadute economiche rilevanti in contenziosi seriali (anche se ciascuno di scarso valore) e si riveli palesemente inammissibile e/o infondata».
In applicazione di tale principio la ricorrente va, dunque, condannata, ai sensi dell’art. 96, terzo comma, c.p.c., al pagamento in favore del Comune de L’Aquila di una somma equitativamente determinata secondo un multiplo delle spese di lite (cfr. Cass., Sez. III, 20 novembre 2020, n. 26435), come in dispositivo.
Va, infine, dato atto che sussistono i presupposti di cui all’art 13, comma 1 -quater , d.P.R. n. 115 del 2002, per il versamento da parte della ricorrente di una somma pari a
quella eventualmente dovuta a titolo di contributo unificato per il ricorso.
P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna NOME COGNOME al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in favore del Comune de L’Aquila nella somma di 600,00 € per competenze, nonché al pagamento in favore del Comune de L’Aquila dell’importo di 600,00 € equitativamente determinato, oltre accessori e 200,00 € per spese vive.
Dà atto che sussistono i presupposti di cui all’art 13, comma 1quater , d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, per il versamento da parte della ricorrente di una somma pari a quella eventualmente dovuta a titolo di contributo unificato per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 24 gennaio