Ordinanza di Cassazione Civile Sez. 5 Num. 2371 Anno 2025
Civile Ord. Sez. 5 Num. 2371 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data pubblicazione: 31/01/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
RAGIONE_SOCIALE , in persona del Direttore pro tempore , rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato ;
– ricorrente
–
contro
NOME RAGIONE_SOCIALE sedente in Roma, in persona del legale rappresentante, con avv. NOME COGNOME;
– controricorrente –
Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, n. 5393/17 depositata il 21 settembre 2017.
Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16 ottobre 2024 dal consigliere NOME COGNOME
Si dà atto che il Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME ha chiesto l’accoglimento del ricorso .
RILEVATO CHE
L’Agenzia emetteva avviso di accertamento a carico della società contribuente avendo disconosciuto parte dei costi per canone di locazione da essa corrisposti a RAGIONE_SOCIALE da cui era interamente partecipata, che gestiva il fondo immobiliare IRS, in relazione a una serie di immobili inseriti in un centro
ABUSO DEL DIRITTO
commerciale. Il rapporto contrattuale tra RAGIONE_SOCIALE e la contribuente odierna controricorrente prevedeva una porzione di canone fisso, ed una variabile, commisurata ai ricavi rinvenienti dalle locazioni ed affitti d’azienda che la stessa RAGIONE_SOCIALE avesse stipulato. In particolare, a parte una soglia di € 120 mila, tutti i ricavi superiori -nella misura del 98 %, pari -per l’anno d’imposta 2008 -ad € 459.762,34 (dedotto il canone fisso di € 2.600.000,00) – dovevano essere corrisposti alla società RAGIONE_SOCIALE STABILI, che però non avrebbe pagato su di essi imposte in quanto esenti per la normativa propria dei fondi immobiliari. La CTP accoglieva il ricorso e anche la CTR rigettava l’appello proposto dall’Agenzia, che quindi propone ricorso in cassazione affidato a due motivi. La contribuente resiste a mezzo di controricorso e successivamente ha depositato memoria illustrativa.
CONSIDERATO CHE
1. Con il primo motivo si deduce violazione dell’art. 112, cod. proc. civ., per violazione della corrispondenza tra chiesto e pronunciato. Osserva infatti l’Agenzia che la CTR avrebbe ritenuto la nullità dell’avviso in quanto sarebbe mancato il previo contraddittorio previsto dall’art. 37 -bis, d.p.r. n. 600/1973, laddove la parte contribuente si sarebbe limitata ad eccepire il difetto di motivazione dell’atto, e comunque non avrebbe reiterato la questione della violazione dell’art. 37 -bis cit. in sede di controdeduzioni in appello.
1.1. Il motivo è fondato.
Fermo restando che i profili di violazione del difetto di contraddittorio in tema di procedimento tributario non sono rilevabili d’ufficio (cfr. Cass. 22549/22), attesa la struttura impugnatoria del processo tributario, non può ammettersi il rilievo d’ufficio né la prospettazione di motivi di nullità diversi da quelli originariamente posti alla base del ricorso. Ove il giudice, dunque,
decida sulla base di un motivo non rilevato dalla parte, incorre nel vizio di ultra-petizione.
Nella specie la pronuncia d’appello è fondata su due rationes decidendi : l’una tesa a smentire i presupposti di una manovra elusiva; l’altra invece basata sulla assunta nullità dell’avviso per omesso preventivo contraddittorio imposto a pena di nullità dall’art. 37-bis d.p.r. n. 600/1973.
Sotto tale secondo profilo, che qui rileva, dalle stesse difese contenute nel controricorso emerge che la contribuente ebbe a denunciare solo il diverso vizio di insufficiente motivazione.
La stessa ha bensì alluso alla disposizione richiamata sopra, ma non per dedurre il difetto di instaurazione del contraddittorio preventivo, bensì per censurare il ben diverso fatto (coerente con la denuncia di motivazione carente, e non di nullità per mancata instaurazione del contraddittorio) per cui ‘non vi è traccia alcuna del modo in cui l’ufficio ha valutato le giustificazioni addotte dal contribuente’.
La parte del motivo di primo grado in cui si fa comunque riferimento alla nullità derivante dalla mancata instaurazione del contradditorio, è estranea all’evidenza alla censura proposta, essendo impostata come argomento per absurdum, poiché esclude che l’avviso sia fondato sull’art. 37 -bis cit. (‘Non è ipotizzabile la fattispecie di elusione fiscale…perché se così fosse l’Ufficio non solo avrebbe espressamente indicato tale norma, ma soprattutto perché prima dell’emissione dell’avviso…avrebbe certamente avviato la procedura …circa la preventiva richiesta di chiarimenti’, e ancora ‘l’eventuale richiamo implicito,…ad una fattispecie elusiva ai sensi del summenzionato art. 37 bis deve essere scartata…’) e perciò non può logicamente sostenersi che quel profilo sia dedotto come motivo di impugnazione dell’atto.
Col secondo mezzo si censura la prima delle rationes decidendi che caratterizzano la pronuncia impugnata, deducendosi
che la stessa violi gli artt. 1 e 109, TUIR, 1343, cod. civ. e 53 Cost. La pronuncia sarebbe in particolare errata laddove ha ritenuto l’insussistenza di una manovra elusiva in quanto il contratto stipulato non avrebbe avuto ‘alternative per mettere a frutto le proprie disponibilità finanziarie’.
2.1. Anche tale motivo dev’essere accolto.
L’accordo intervenuto tra la società contribuente e la propria partecipante totalitaria, era nel senso che, oltre alla corresponsione a quest’ultima di un canone fisso, la prima si obbligava altresì a corrispondere -dedotto un plafond fisso di € 120.000,00, il 98 % dei canoni (o meglio del differenziale fra i canoni percepiti e il canone base corrisposto di € 2.600.000,00) che le sarebbero stati corrisposti da locatari e affittuari (tre infatti erano le locazione commerciali, e 52 gli affitti di rami d’azienda).
Si deve anzitutto notare che i canoni suddetti rappresentano l’intero ricavo dell’attività aziendale, per cui con l’anzidetta clausola, dedotta una quota (il ‘fisso’ di € 120.000), determina di fatto il trasferimento di quasi tutto il fatturato alla partecipante, essendo potenzialmente idonea a privare ab origine la società contribuente anche solo della possibilità di conseguire la remunerazione della propria attività imprenditoriale che costituisce l’essenza di qualsiasi attività economica, collettiva od individuale che sia, esercitata professionalmente in virtù del disposto di cui all’art. 2082, cod. civ.
2.2. L’esclusione anche in astratto della possibilità di conseguire un utile renderebbe l’operazione, dal punto di vista della società odierna controricorrente, del tutto deprivata di ragioni economiche valide, che non siano quelle di consentire il trasferimento dell’intero lucro alla società partecipante, la quale per quanto s’è premesso non è poi assoggettata a imposizione fiscale.
Né coglie il segno l’osservazione del giudice d’appello secondo cui tale operazione non aveva alternativa: certamente il fondo
immobiliare non poteva gestire in prima persona l’attività imprenditoriale, ma ciò non le impediva di avvalersi di un soggetto (imprenditore), sia pure interamente partecipato, che conformemente alle disposizioni remunerasse la propria attività, rendendo la stessa rispondente ad una logica economica.
Né vale poi l’osservazione per cui non vi sarebbe alcun aggiramento della disciplina fiscale in quanto comunque i fondi immobiliari non sarebbero soggetti a tassazione, perché ciò non toglie che a tassazione sarebbe soggetto chi svolge un’attività imprenditoriale ordinaria, come appunto la ricorrente, che non sceglie quindi fra alternative possibili quella che è fiscalmente più vantaggiosa, ma sceglie una strada che come già detto è del tutto ingiustificata perché priva di qualsivoglia valida ragione economica (esercitare un’impresa senza alcuna possibile remunerazione in astratto).
Né il motivo devolve al giudice della legittimità la rinnovazione di un esame nel merito, ma semplicemente quest’ultimo viene chiamato a verificare la corretta applicazione di una disposizione -quella della disciplina anti-elusiva -che si giustifica quando l’operazione sia posta in essere in assenza di valide ragioni economiche. Si tratta dunque non di accertare i fatti, che sono pacifici (è infatti pacifica la clausola e la distribuzione del ricavato in base alla stessa), quanto la loro qualificazione (appunto, di operazioni prive o aventi valide ragioni economiche) che consenta la corretta sussunzione della fattispecie nella disposizione suddetta.
Né le ulteriori deduzioni in ordine al rapporto fra il valore aziendale e il margine comunque riservato alla ANDRIA (i già ricordati € 120.000,00 e il 2 % dei canoni) assumono rilievo preclusivo all’accoglimento del motivo, sia perché è evidente che il volume dei ricavi (potenziali, in quanto poi nella quasi totalità oggetto di trasferimento a titolo di canone) determina dei costi proporzionali, sia perché la (bassa) valutazione aziendale non può
che essere influenzata dai vincoli contrattuali stipulati dall’impresa, in particolare da quelli qui riportati e di cui si discute che la deprivavano di gran parte dell’utile d’esercizio.
In accoglimento dei superiori motivi deve dunque essere cassata la sentenza impugnata, con rinvio al giudice di secondo grado che dovrà provvedere ad una concreta rivalutazione della vicenda alla luce dei principi qui espressi, nonché all’esame di eventuali questioni rimaste assorbite, incluse quelle inerenti alle sanzioni per le quali dovrà farsi applicazione della sopravvenuta lex mitior (art. 15, d.lgs. n. 158/15) e altresì alla liquidazione delle spese.
P. Q. M.
La Corte accoglie il ricorso e, cassata la sentenza impugnata, rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio perché, in diversa composizione, adeguandosi ai principi espressi nella presente pronuncia proceda a nuovo giudizio, anche in relazione all’esame di eventuali questioni rimaste assorbite, incluse quelle inerenti alle sanzioni per le quali dovrà farsi applicazione della sopravvenuta lex mitior, provvederà altresì alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, il 16 ottobre 2024