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Violenza a pubblico ufficiale: minaccia e reato

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna per il reato di violenza a pubblico ufficiale nei confronti di un imputato che aveva minacciato un medico del pronto soccorso per costringerlo a modificare una prognosi già formulata. Secondo la Corte, il reato si configura anche se l’atto è già stato compiuto, qualora la condotta sia finalizzata a contrastare o a far rivedere la decisione del pubblico ufficiale, proteggendo così la sua libertà d’azione e il buon andamento della pubblica amministrazione.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Violenza a Pubblico Ufficiale: la Minaccia è Reato anche se l’Atto è Già Compiuto

Il reato di violenza a pubblico ufficiale rappresenta una tutela fondamentale per garantire il corretto e sereno svolgimento delle funzioni pubbliche. Una recente sentenza della Corte di Cassazione ha offerto importanti chiarimenti sui confini di questa fattispecie, specificando che il reato sussiste anche quando la minaccia è diretta a far modificare un atto che il pubblico ufficiale ha già compiuto. Questo principio è cruciale, specialmente in contesti ad alta tensione come i pronto soccorso ospedalieri.

I Fatti di Causa

Il caso esaminato trae origine da un episodio avvenuto in un pronto soccorso. Un paziente, dopo essere stato visitato, manifestava il suo dissenso per la prognosi ricevuta, ritenuta inadeguata. La sua reazione sfociava in un comportamento aggressivo e minaccioso nei confronti del medico di turno. In particolare, l’uomo proferiva frasi ingiuriose, sbatteva i pugni sul tavolo e minacciava il medico con l’intento di costringerla a modificare la prognosi e a prescrivergli farmaci oppiacei. Per questi fatti, veniva condannato in primo e secondo grado per il reato di cui all’art. 336 del codice penale.

Il Ricorso in Cassazione e la configurazione della violenza a pubblico ufficiale

La difesa dell’imputato proponeva ricorso per cassazione, sostenendo un punto giuridico cruciale: poiché il certificato medico con la prognosi era già stato emesso, la condotta minacciosa non avrebbe potuto costringere il medico a compiere un atto contrario ai propri doveri, in quanto l’atto era già stato perfezionato. Secondo questa tesi, la condotta non era idonea a ledere il bene giuridico protetto dalla norma, ovvero la libertà di autodeterminazione del pubblico ufficiale. Di conseguenza, il fatto avrebbe dovuto essere derubricato a reati minori, come l’ingiuria o la minaccia semplice.

La Distinzione tra Violenza e Resistenza

La Corte di Cassazione, nel respingere il ricorso, ha innanzitutto ribadito la distinzione fondamentale tra il reato di violenza o minaccia a un pubblico ufficiale (art. 336 c.p.) e quello di resistenza (art. 337 c.p.).
Violenza (art. 336 c.p.): la condotta è posta in essere prima del compimento dell’atto per costringere il pubblico ufficiale a ometterlo o a compierlo in modo contrario ai propri doveri.
Resistenza (art. 337 c.p.): la violenza o minaccia avviene durante il compimento dell’atto d’ufficio, al fine di impedirlo.

La Corte chiarisce che l’art. 336 c.p. punisce non solo la costrizione a compiere un atto, ma anche la condotta finalizzata a influire su di esso. È un reato di mera condotta che si perfeziona con l’azione violenta o minacciosa, purché idonea a coartare la volontà del pubblico ufficiale, a prescindere dal raggiungimento dello scopo.

Le Motivazioni della Decisione

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato, affermando che la tesi difensiva si basava su un’interpretazione troppo restrittiva della norma. Sebbene il certificato fosse stato materialmente redatto, la condotta dell’imputato era palesemente finalizzata a contrastare la decisione del medico e a ottenerne una revisione. L’obiettivo era quello di influire sull’operato della dottoressa per farle mutare la prognosi.

Secondo la Corte, la tutela penale non si esaurisce nel momento esatto in cui l’atto viene compiuto, ma si estende a proteggere il pubblico ufficiale da ogni coazione che miri a invalidare o modificare le sue decisioni legittime. La condotta dell’imputato era, quindi, pienamente idonea a comprimere la libertà d’azione del medico e a turbare il corretto svolgimento della funzione pubblica. La minaccia, manifestata sia verbalmente sia con gesti violenti (i pugni sul tavolo in prossimità del volto del medico), era oggettivamente capace di generare timore e limitare la libertà morale del soggetto passivo.

Le Conclusioni

Con questa sentenza, la Corte di Cassazione consolida un principio di grande rilevanza pratica: il delitto di violenza a pubblico ufficiale si configura non solo quando si cerca di impedire un atto, ma anche quando si tenta di influenzarne l’esito o di ottenerne una modifica dopo il suo compimento. La norma protegge l’autonomia e la serenità del pubblico ufficiale nell’intero arco del suo operato. Questa interpretazione rafforza la tutela di categorie professionali esposte a rischi, come il personale sanitario, garantendo che le loro decisioni, prese in adempimento di un dovere pubblico, non siano soggette a intimidazioni volte a ottenerne una revisione forzata.

Quando si configura il reato di violenza a pubblico ufficiale secondo l’art. 336 c.p.?
Il reato si configura quando si usa violenza o minaccia nei confronti di un pubblico ufficiale per costringerlo a compiere un atto contrario ai propri doveri, a omettere un atto del suo ufficio, o comunque per influire sulla sua attività. È un reato di mera condotta, quindi è sufficiente l’azione minacciosa con tale finalità, non essendo necessario che il pubblico ufficiale ceda alla pressione.

È punibile la minaccia a un medico per fargli cambiare una prognosi già formulata?
Sì. La Corte di Cassazione ha stabilito che anche se l’atto (la formulazione della prognosi) è già stato compiuto, la condotta minacciosa finalizzata a ottenerne una revisione o a contrastare la decisione del medico integra il reato. La norma, infatti, tutela la libertà del pubblico ufficiale anche da coazioni successive volte a invalidare il suo operato.

Qual è la differenza tra il reato di violenza (art. 336 c.p.) e quello di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.)?
La differenza risiede nel momento in cui avviene la condotta violenta o minacciosa rispetto all’atto d’ufficio. Si ha violenza (art. 336) quando l’azione è posta in essere ‘anteriormente’ all’atto per costringere il pubblico ufficiale. Si ha resistenza (art. 337) quando l’azione avviene ‘durante’ il compimento dell’atto per impedirlo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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