Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 25744 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 6 Num. 25744 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 15/04/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOMECOGNOME nato a Ferrara il 19/03/1963
avverso la sentenza del 06/05/2024 della Corte di appello di Bologna visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procurator generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarat
inammissibile;
lette le conclusioni del difensore, avv. NOME COGNOME che ha chiesto, anche replica alle sopra indicate richieste, l’annullamento della sentenza impugnata, accoglimento dei motivi proposti.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Bologna h confermato la sentenza del Tribunale di Rimini del 7 giugno 2021, che aveva condannato NOME COGNOME per il reato di cui all’art. 336 cod. pen., comm GLYPH o il 24 agosto 2019.
All’imputato era stato contestato di aver usato violenza e minaccia nei confronti della dott.ssa COGNOME medico del Pronto soccorso ospedaliero, pe costringerla a refertare una malattia inesistente ed ottenere farmaci di derivazion oppiacea.
Secondo la Corte di appello, la circostanza che il certificato fosse stato g emesso dalla dottoressa non era rilevante ai fini della configurabilità del rea secondo quanto affermato dalla Suprema Corte con la sentenza n. 1702 del 2022.
In ogni caso l’art. 336 cod. pen. rende punibile, come si evince dall’ultim comma, anche la condotta di “influire” sull’atto di ufficio.
Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, denunciando i motivi di annullamento, di seguito sintetizzati conformemente al disposto dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 336 cod pen. e alla sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato.
In ordine alla configurabilità del reato in esame va segnalato un contrasto d giurisprudenza in ordine al momento in cui la condotta di violenza e minaccia deve essere compiuta rispetto all’attività del pubblico agente: secondo un orientamento, essa deve precedere il compimento dell’atto, risolvendosi nel diverso caso in una condotta di tipo diverso (ingiuria, minaccia, ecc.), perseguibile a querela; secon altro orientamento, è irrilevante il momento del compimento dell’atto, rilevando quest’ultimo solo ai fini del dolo specifico, ovvero alla finalità del priva costringere il pubblico agente a fare un atto contrario ai doveri di ufficio.
Secondo la difesa, al di là del dolo, è comunque necessario che l’atto non sia stato compiuto e che la condotta dell’agente possa quindi incidere sull’attività d pubblico ufficiale.
Nel caso in esame, difetta appunto tale idoneità della condotta del ricorrent a turbare il pubblico ufficiale, rispetto ad un atto già compiuto (il certificat zero giorni di prognosi), e la sentenza impugnata non spiega tale aspetto risultando anche intrinsecamente illogica la motivazione là dove si afferma che la condotta del ricorrente era finalizzata a impedire o comunque contrastare la decisone della dottoressa COGNOME.
In ogni caso, la condotta si è tradotta in volgarità ingiuriosa o in atteggiamento genericamente minaccioso, ovvero in comportamenti non idonei a fondare la penale responsabilità per il reato contestato.
Devono essere effettuate alcune precisazioni in ordine all’esatta ricostruzione del fatto, posto che la Corte di appello è incorsa in errore o in travisamento: circostanza dell’aver il ricorrente colpito con calci e pugni le porte era stata ri (come accertato in primo grado) alla COGNOME da alcuni infermieri e quindi non
percepita dal medico; il ricorrente non ha contestato la decisione di prescrivere u medicinale (in quanto a lui già somministrato al momento del fatto). In definitiv l’unica condotta ascrivibile al ricorrente è di aver proferito la frase ingiurios dottoressa contestando la prognosi formulata e di aver sbattuto per la rabbia pugni sul tavolo.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 336 cod pen. e alla sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato e al mancata rideterminazione del trattamento punitivo.
Nel ribadire le questioni già sopra esaminate, la difesa fa presente che la Cort di appello, nel ritenere l’ipotesi di cui all’art. 336, terzo (rectius, secondo) comma cod. pen. non ha diminuito la pena.
Disposta la trattazione scritta del procedimento, in mancanza di richiesta nei termini ivi previsti di discussione orale, il Procuratore generale e la difesa ricorrente hanno depositato conclusioni scritte, come in epigrafe indicate.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso va rigettato per le ragioni di seguito illustrate.
Il primo motivo è complessivamente infondato, risultando a tratti anche inammissibile.
2.1. Preliminarmente è opportuno avanzare talune precisazioni in ordine alla fattispecie delittuosa in esame.
Secondo un principio affermato dalle Sezioni unite, le fattispecie di cui agl artt. 336 e 337 cod. pen., che puniscono i delitti di violenza e resistenza a pubbl ufficiale, sono entrambe caratterizzate dal dolo specifico (Sez. U, n. 10 d 24/04/1976, Cadinu, Rv. 133367).
Si è inoltre precisato che il delitto di cui all’art. 336 cod. pen. è consumat la finalità che l’agente si propone con il suo comportamento di violenza e minaccia è di costringere il pubblico agente a fare un atto contrario ai propri doveri omettere un atto dell’ufficio, indipendentemente dal raggiungimento dello scopo prefissosi dal reo. E ciò in quanto l’atto contrario ai doveri di ufficio non fa dell’elemento oggettivo del reato, ma soltanto di quello soggettivo (Sez. 2, n. 170 del 26/10/2021, dep. 2022, Rv. 282434 – 01).
Trattandosi quindi di reato di mera condotta, si è ritenuto sufficiente integrare il delitto ex art. 336 cod. pen. l’uso di qualsiasi coazione, anche indiretta, nei confronti del pubblico agente, purché idonea a comprimere la libertà d’azione del pubblico ufficiale (Sez. 6, n. 24624 del 15/04/2003, Rv. 225492; Sez. 6, n.
4909 del 04/12/2024, dep. 2025, Rv. 287598) o comunque a turbare il pubblico ufficiale nell’assolvimento dei suoi compiti istituzionali (Sez. 6, n. 20320 07/05/2015, Rv. 263398; Sez. 6, n. 6164 del 10/01/2011, Rv. 249376).
In tale prospettiva, si è anche affermato che, ai fini della consumazione de reato di cui all’art. 336 cod. pen., l’idoneità della condotta posta in esser costringere il pubblico ufficiale a compiere un atto contrario ai propri doveri de essere valutata con un giudizio “ex ante”, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto (Sez. 6, n. 32705 del 17/04/2014, Rv. 260324; Sez. 6, n. 34880 del 07/02/2007, Rv. 237603).
Il rapporto con l’attività del pubblico ufficiale segna anche la distinzione con delitto di cui all’art. 337 cod. pen.
Quando la violenza o la minaccia dell’agente nei confronti del pubblico ufficiale è posta in essere “durante” il compimento dell’atto d’ufficio, per impedirlo, si resistenza ai sensi dell’art. 337 cod. pen., mentre si versa nell’ipotesi di cui a 336 cod. pen. se la violenza o la minaccia è portata contro il pubblico ufficiale per costringerlo a omettere un atto del suo ufficio “anteriormente” all’iniz dell’esecuzione (Sez. 6, n. 51961 del 02/10/2018, Rv. 274509).
Rispetto ai consolidati principi sopra ricordati, effettivamente – come h rilevato la difesa del ricorrente – appare distonico l’orientamento che ha richiama la sentenza impugnata, che ritiene integrato il reato di cui all’art. 336 cod. valorizzando la sola finalità che l’agente si propone con il suo comportamento, indipendentemente dall’idoneità della condotta ad incidere sull’operato del pubblico agente, perché l’attività commissiva o l’omissione cui è finalizzata l’azio dell’agente sono state già realizzate (Sez. 6, n. 7346 del 22/01/2004, Rv. 229162; Sez. 2, n. 1702 del 26/10/2021, dep. 2022, Rv. 282434).
Questo orientamento si è formato in relazione alla particolare ipotesi in cu l’agente, nel porre in essere la condotta di minaccia o violenza, al fine costringere il p.u. ad omettere l’atto di ufficio, non era a conoscenza de circostanza che l’atto era stato già compiuto.
Si tratta di un’esegesi che non si confronta con il principio di offensività de condotta, configurando una tutela meramente astratta del buon funzionamento della p.a.
Va rammentato che il delitto di violenza a pubblico ufficiale ha come sua obiettività giuridica la tutela della libertà del pubblico ufficiale al compimento d atti del suo ufficio, criminalizzando quindi qualsiasi comportamento palesemente o intenzionalmente aggressivo, idoneo a generare timore e a limitare la libertà morale del soggetto passivo (Sez. 1, n. 3316 del 04/11/1987, dep. 1988, Rv. 177862 – 01).
a
Il recente arresto delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 18474 del 28/11/2024, dep. 2025, COGNOME. Rv. 287944) ha ricordato invero come il principio di offensività costituisca un criterio generale posto a presidio della selezione da parte legislatore dei fatti “meritevoli di punizione”, nonché un parametro alla cui streg il giudice è tenuto ad apprezzare la condotta concreta, pur se tipica, cui attribu idoneità lesiva, con danno o messa in pericolo del bene protetto.
2.2. Fatte queste precisazioni sul piano generale, la sentenza impugnata non merita comunque censura.
Quant’anche la Corte di appello abbia richiamato un principio non condivisibile, la fattispecie nel caso in esame era ben diversa da quella presa considerazione dall’arresto sopra citato.
Come emerge anche dal capo di imputazione la condotta contestata al ricorrente era volta a costringere o comunque influire sull’operato della dottoress per fare mutare la prognosi o la prescrizione. La sentenza di primo grado aveva accertato la sussistenza della condotta delittuosa in particolare nella minacc rivolta alla dottoressa (sia verbale sia sbattendo i pugni sul tavolo in prossim del volto della donna) per ottenere il riconoscimento di una “prognosi maggiore” (cfr. pag. 3 della sentenza di primo grado).
Quindi, il precedente giurisprudenziale citato dalla Corte di appello non si attagliava alla fattispecie in esame.
Ed infatti la stessa Corte di appello precisa che il comportamento tenuto dal ricorrente mirasse in modo evidente a “contrastare” la decisione della dottoressa di non assegnare alcun giorno di prognosi, ovvero, come aveva motivato il primo giudice, a far rivedere la prognosi già formulata.
2.3. Nel resto il motivo declina censure infondate e non consentite.
L’appello invero era volto a qualificare i fatti come la mera, anche se non consona, “reazione” alla pregressa attività dell’operatore sanitario.
Considerati pertanto i temi sottoposti nell’appello, la risposta della Corte appello che ha ritenuto evidente la finalizzazione della minaccia ad influir sull’operato della dottoressa, non appare inadeguata, alla luce di quanto gi accertato in primo grado in ordine alla condotta tenuta dal ricorrente.
Le censure versate nel ricorso mirano piuttosto a introdurre aspetti di fatt notoriamente preclusi in sede di legittimità.
3. Infondato è anche l’ultimo motivo.
La citazione del comma dell’art. 336 cod. pen. (nell’attuale versione, il terz – che riguarda l’ipotesi del fatto commesso per costringere il pubblico agente compiere un atto del proprio ufficio o servizio o per influire, comunque, su di ess
è stata fatta dalla Corte di appello solo per dimostrare che anche la finalit
“influire” sull’atto sia penalmente rilevante, non versandosi all’evidenza nel c di condotta volta a costringere il pubblico agente a compiere un regolare att
d’ufficio, per quello che si è già deto.
4. Sulla base di quanto premesso, il ricorso deve essere rigettato con l condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 15/04/2025.