Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 1253 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 1253 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/11/2023
SENTENZA
sui ricorsi proposti da COGNOME NOMECOGNOME nato a Salerno il 12/8/1978 NOMECOGNOME nato a Salerno il 27/5/1970
avverso la sentenza del 28/3/2023 della Corte di appello di Salerno; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto dichiarare inammissibili i ricorsi
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 28/3/2023, la Corte di appello di Salerno confermava la pronuncia emessa il 28/10/2021 dal locale Tribunale, con la quale numerosi imputati erano stati condannati per i delitti di cui agli artt. 403, 405 cod. pen.
Propongono ricorso per cassazione NOME COGNOME e NOME COGNOME deducendo i seguenti motivi:
NOME
-Violazione degli artt. 405, 131-bis, 133 cod. pen. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna per il reato di cui all’art. 405 cod. pen. con argomento estremamente sintetico, che non terrebbe conto del ruolo avuto dal ricorrente nella vicenda: l’istruttoria, infatti, avrebbe dimostrato che il Simone sarebbe stato un mero spettatore, del tutto ignaro dei cambiamenti apportati alla processione, e che avrebbe agito in modo impulsivo, limitandosi a manifestare disappunto. La condotta, dunque, sarebbe priva tanto del profilo oggettivo (assenza di concreta offensività del fatto), quanto di quello psicologico, e sul punto la sentenza sarebbe carente di motivazione;
-con analoga censura, poi, si contesta la motivazione quanto all’esclusione della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto. Il giudizi negativo espresso dalla Corte si fonderebbe su due soli argomenti l’importanza dell’evento religioso compromesso e le contumelie formulate da alcuni – che non potrebbero riferirsi all’imputato, assolto dalla contestazione di cui all’art. 403 cod. pen. Il diniego dell’art. 131-bis cod. pen., inoltre, non sarebbe sostenuto dalla valutazione degli indici di cui il giudice dovrebbe tener conto, come da costante giurisprudenza, e non valuterebbe neppure gli esiti istruttori (testi COGNOME e COGNOME) dai quali risulterebbe il legittimo contegno tenuto dal ricorrente, anche successivamente ai fatti del 21/9/2014.
COGNOME
-Contraddittorietà e/o manifesta illogic:ità della motivazione; travisamento della prova in ordine alla commissione del reato di cui all’art. 403 cod. pen. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna senza riscontrare che il soggetto cui erano rivolte le offese non era l’arcivescovo di Salerno, ma il capo dei portatori della statua di San Matteo, come emergerebbe da numerosi elementi istruttori riportati nello stesso motivo; la sentenza, peraltro non avrebbe esaminato gli specifici motivi di gravame sul punto, ribadendo in modo sbrigativo la motivazione della prima sentenza;
-il vizio di motivazione è poi dedotto con riguardo all’elemento soggettivo dello stesso reato, sul quale la Corte avrebbe omesso qualunque argomento. In particolare, anche a voler ipoteticamente ritenere che le offese fossero dirette all’alto prelato, le stesse – per come emerso con chiarezza – non sarebbero state certamente volte ad offendere il sentimento religioso, ma, semplicemente, le modalità organizzative della processione;
la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, poi, sono dedotte con riguardo al reato di cui all’art. 405 cod. pen., i cui elementi oggettivi non sarebbero stati provati, tantomeno nei confronti del ricorrente, trovatosi nel corso di una veemente protesta scatenata da altri. Le contumelie, peraltro, sarebbero state pronunciate in un momento in cui la processione sarebbe stata già sospesa, cosicché la condotta del COGNOME non vi avrebbe apportato alcun turbamento;
il vizio di motivazione, ancora, è lamentato con riferimento alla circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 3 cod. pen., della quale – contrariamente a quanto affermato dalla Corte di appello – ricorrerebbero i presupposti, secondo la costante giurisprudenza. La sentenza, peraltro, avrebbe parificato le posizioni dei portatori delle statue a quelle degli astanti, con evidente errore;
infine, si lamenta il mancato riconoscimento sito della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen., senza alcuna valutazione della condotta tenuta dal ricorrente, della sua incensuratezza e della non abitualità del comportamento.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso di NOME, relativo al reato di cui all’art. 405 cod. pen. (capo N), risulta infondato.
Al riguardo, occorre innanzitutto ribadire che il controllo del Giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene alla coerenza strutturale dell decisione di cui si saggia l’oggettiva tenuta sotto il profilo logico-argomentativo restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (tra le varie, Sez. 6, n. 47204 del 7/10/2015, COGNOME, Rv. 265482; Sez. 3, n. 12110 del 19/3/2009, Campanella, n. 121:L0, Rv. 243247). In tal modo individuato il perimetro di giudizio proprio della Suprema Corte, osserva allora il Collegio che le censure mosse al provvedimento impugnato sono infondate: il ricorso, infatti, trascura che la Corte di appello – pronunciandos proprio sulla questione – ha steso una motivazione del tutto congrua, fondata su oggettive risultanze dibattimentali e non manifestamente illogica; come tale, quindi, non censurabile. La sentenza, in particolare, ha evidenziato che il Simone – della cui identità non si dubitava – era stato ripreso dalle telecamere proprio nel momento in cui il vescovo e gli altri prelati erano giunti di fronte al palazz comunale di Salerno, apprestandosi a recitare una preghiera; in quel momento, insieme ad altre 4-5 persone, l’imputato si era rivolto al vescovo, mons. COGNOME
ad una distanza di pochi metri, gesticolando in modo esagitato ed aggressivo, nonché partecipando al coro “via, vai via”, che di fatto aveva impedito lo svolgimento della processione. In forza di questi elementi – la cui valutazione di merito non può essere nuovamente compiuta in questa sede – la Corte di appello ha quindi concluso che il ricorrente aveva turbato la celebrazione religiosa, con piena coscienza e volontà.
5.1. Con questa affermazione, dunque, la sentenza fa proprio il corrente orientamento che riconduce la processione ad una cerimonia della liturgia cattolica e dà seguito alla costante giurisprudenza di legittimità secondo cui il reato di cui all’art. 405 cod. pen. può essere perfezionato da due condotte antigiuridiche: l’impedimento della funzione, consistente nell’ostacolare l’inizio o l’esercizio della stessa fino a determinarne la cessazione, oppure la turbativa della funzione, che si verifica quando il suo svolgimento non avviene in modo regolare (Sez. 3, n. 20739 del 13/3/2003, COGNOME, Rv. 225740: nella specie la Corte ha ravvisato il suddetto reato nella turbativa causata dal comportamento dell’imputato, che aveva, nel corso della celebrazione della Messa, coinvolto e disturbato molti fedeli dal loro raccoglimento). La fattispecie, dunque, è sostenuta dal dolo generico, tanto che la medesima condotta di “turbamento” della funzione religiosa può essere integrata anche dalla sua strumentalizzazione per scopi contrari al sentimento religioso di chi vi prende parte e che la funzione stessa intende evocare e onorare. (Sez. 3, n. 2242 del 15/10/2021, COGNOME, Rv. 282695: fattispecie relativa a due soste dinanzi all’abitazione degli stretti congiunti del capo di “Cosa nostra”, effettuate, senza giustificazione, durante lo svolgimento di una processione religiosa, avvenuto in luogo pubblico e con l’assistenza di un ministro di culto). Ne consegue che nella giurisprudenza di questa Corte integra la condotta del “turbamento” il collocamento dei tavolini in strada al fine di imporre una sosta della processione dinanzi ad un esercizio commerciale (Sez. 6, n. 8055 del 12/1/2021, Rv. 281050), il manifestare con grida all’interno della chiesa, proferendo ingiurie alle autorità civili presenti a un funerale (Sez. 6, n. 28030 del 3/6/2009, Rv. 244281), il semplice distogliere l’attenzione dei fedeli o il denigrare la figura del ministro del culto (Sez. 3, n. 621 dell’11/5/1967, Rv. 104861), i gettare a terra l’ostia consacrata e calpestarla, generando “un trambusto” tra i fedeli presenti alla celebrazione della messa in carcere con conseguente allontanamento del detenuto che veniva ricondotto nella cella (Sez. 3 n. 2337 del 18/3/2021, n.m.), nel pregare ad alta voce al fine di coprire la voci dei celebranti e degli altri fedeli ed insultando e minacciando reiteratamente i celebranti e gli altri fedeli presenti alle funzioni (Sez. 3, n. 3072 dell’8/9/2016, n.m.). Corte di Cassazione – copia non ufficiale
5.2. Il primo motivo di ricorso, dunque, è infondato, in quanto, anziché confrontarsi con la motivazione redatta dalla Corte d’appello a giustificazione della
pronuncia di condanna, ribadisce argomenti di puro merito (il ruolo di mero spettatore, la mancata conoscenza del cambiamento del programma, il disappunto manifestato impulsivamente) che in alcun modo possono essere valutati dalla Corte di legittimità.
Alle stesse conclusioni, poi, il Collegio giunge con riguardo alla esclusione della causa di non punibilità di cui all’art. 131-bis cod. pen.; il relativo motivo ricorso, infatti, si fonda ancora su non condivisibili argomenti in fatto, con i qua si lamenta che sarebbero state pretermesse le dichiarazioni dei testi COGNOME e COGNOME, che avrebbero escluso qualunque intervento del ricorrente nella interruzione della funzione religiosa, in contrasto con evidenze istruttorie ritenute del tutto adeguate. Ancora, si lamenta che l’esimente sarebbe stata negata senza alcun richiamo ai canoni di cui all’art. 133 cod. pen., ma non si valuta adeguatamente che, in senso contrario, la Corte di appello ne ha dato applicazione sottolineando la gravità della condotta, con particolare riguardo all’importanza dell’evento religioso compromesso (festività del Santo patrono della città di Salerno) e del rilievo della carica rivestita dall bersaglio delle contumelie, quale i vescovo della locale diocesi.
Il ricorso di COGNOME, relativo agli artt. 403 e 405 cod. pen. (capo I), risul infondato.
7.1. Con riguardo alle doglianze sulla motivazione in punto di responsabilità per entrambi i delitti, il Collegio ne rileva il carattere palesemente fattual sostenuto dall’assunto per cui le frasi offensive di cui al capo I) sarebbero state rivolte al capo dei portatori della statua di San Matteo (tale NOME COGNOME), non all’arcivescovo di Salerno.
7.2. In particolare, la prima censura, dopo aver genericamente lamentato l’omessa valutazione dei motivi di appello, non specificati, si limita ad affermare che la sentenza avrebbe “sbrigativamente reiterato l’iter argornentativo utilizzato dal giudice di prime cure”, senza riscontrare che il COGNOME, per l’appunto, avrebbe indirizzato le proprie rimostranze verso un soggetto diverso dall’alto prelato, come peraltro sarebbe dimostrato da alcune immagini. Da qui, il travisamento della prova. Ebbene, questo motivo risulta inammissibile, poiché teso ad ottenere in questa sede una nuova e differente valutazione degli stessi elementi di prova esaminati dai Giudici di merito, non altrimenti rinnovabile dalla Corte di legittimità in assenza di vizi; nessuna incongruenza od illogicità, peraltro, si riscontra nella motivazione impugnata, che ha chiaramente riportato (pag. 53) le immagini di “RAGIONE_SOCIALE“, dalle quali risultava che – contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa – il bersaglio delle “scomposte rimostranze” non erano i “paranzieri” (cioè, i portatori delle statue), ma altri, e che i primi, anzi, sembravano “assecondarlo e rassicurarlo”. Che, poi, il destinatario delle contumelie fosse proprio il vescovo di
Salerno, come contestato, la sentenza lo ha tratto da un secondo frammento video (file 277 della polizia scientifica), che ritraeva proprio il COGNOME urlare – all’indi dell’alto prelato, a lui vicino, in assenza dei portatori di statue – le espressio indicate nel capo I).
7.3. Quanto, poi, al profilo soggettivo del reato ex art. 403 cod. pen., il ricorso contesta ancora l’assenza di motivazione sulle censure contenute nel gravame, ma l’argomento risulta generico, non specificando quali critiche fossero state lì sollevate alla sentenza di primo grado.
7.4. Si critica alla Corte di appello, poi, di non aver considerato che il reato non sarebbe integrato dal mero vilipendio alla religione, anche attraverso l’offesa al ministro del culto, ma richiederebbe il fine di offendere “il valor superindividuale” di cui lo stesso ministro rappresenta un simbolo, ossia la confessione religiosa. Per poi concludere che, anche a voler ammettere che le offese del COGNOME fossero rivolte al vescovo COGNOME, le stesse, “per come pacificamente emerso all’esito dell’istruttoria dibattimentale, “non erano certamente dirette ad offendere il sentimento religioso, ma semplicemente le modalità organizzative della processione”.
7.5. Ebbene, questo profilo, che costituisce il perno del ricorso, risulta infondato.
L’art. 403 cod. pen. sanziona chiunque offende una confessione religiosa mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto. Laddove la condotta consiste nel “tenere a vile”, ovvero nel manifestare un’offesa volgare e grossolana, che si concreta in atti che assumano caratteri evidenti di dileggio, derisione, disprezzo; atti sorretti dal dolo generico, ossia dalla volontà di commettere il fatto con la consapevolezza della loro idoneità a vilipendere, tale da rendere irrilevante il movente dell’azione (politico o sociale), che non vale perciò ad escluderlo (Sez. 3, n. 328 del 24/2/1967, Pasolini, Rv. 104261). Ancor più in particolare, questa Corte ha affermato – con pronuncia risalente ma ancora ben saldata ai vigenti principi costituzionali – che in materia religiosa la critica è le quando – sulla base di dati o di rilievi già in precedenza raccolti o enunciati – s traduca nella espressione motivata e consapevole di un apprezzamento diverso e talora antitetico, risultante da una indagine condotta, con serenità di metodo, da persona fornita delle necessarie attitudini e di adeguata preparazione: mentre trasmoda in vilipendio quando – attraverso un giudizio sommario e gratuito manifesti un atteggiamento di disprezzo verso la religione, disconoscendo alla istituzione e alle sue essenziali componenti (dogmi e riti) le ragioni di valore e di pregio ad essa riconosciute dalla comunità (Sez. 3, n. 41044 del 7/4/2015, Battaglia, Rv. 264932; Sez. 3, n. 1801 del 20/6/1966, COGNOME, Rv. 102510). E con l’ulteriore precisazione, riferibile anche al caso in esame, per cui, ai fini dell
configurabilità del reato, non occorre che le espressioni offensive siano rivolte a fedeli ben determinati, ma è sufficiente che le stesse siano genericamente riferibili alla indistinta generalità degli aderenti alla confessione religiosa (Sez. 3, n. 10535 dell’11/12/2008, COGNOME, Rv. 243084).
8.1. Questi principi hanno poi trovato sfogo anche nelle parole della Corte costituzionale, più volte chiamata a pronunciarsi in materia di sentimento religioso e fattispecie penale; al riguardo, particolarmente significativa’ risulta la sentenza n. 188 del 27 giugno 1975, con la quale la Corte ha offerto dell’art. 403 cod. pen. una lettura orientata ai principi costituzionali, con particolare riguardo a quell’art 21 Cost. che fonda il presente ricorso. Il Giudice delle leggi, nell’occasione, ha affermato che «il sentimento religioso, quale vive nell’intimo della coscienza individuale e si estende anche a gruppi più o meno numerosi di persone legate tra loro dal vincolo della professione di una fede comune, è da considerare tra i beni costituzionalmente rilevanti, come risulta coordinando gli artt. 2, 8 e 19 Cost., ed è indirettamente confermato anche dal primo comma dell’art. 3 e dall’art. 20. Perciò il vilipendio di una religione, tanto più se posto in essere attraverso i vilipendio di coloro che la professano o di un ministro del culto rispettivo, come nell’ipotesi dell’art. 403 cod. pen., che qui interessa, legittimamente può limitare l’ambito di operatività dell’art. 21: sempre che, beninteso, la figura della condotta vilipendiosa sia circoscritta entro í giusti confini, segnati, per un verso, dallo stess significato etimologico della parola (che vuol dire “tenere a vile”, e quindi additare al pubblico disprezzo o dileggio), e per altro verso, dalla esigenza di rendere compatibile la tutela penale accordata al bene protetto dalla norma in questione con la più ampia libertà di manifestazione del proprio pensiero in materia religiosa, con specifico riferimento alla quale non a caso l’art. 19 anticipa, in termini quanto mai espliciti, il più generale principio dell’art. 21. E’ evidente, ad esempio, a tace d’altro, che non sussisterebbe quella libertà di far “propaganda” per una religione, come espressamente prevede e consente l’art. 19, se chi di tale diritto si avvale non potesse altrettanto liberamente dimostrarne la superiorità nei confronti di altre, di queste ultime criticando i presupposti o i dogmi. Il vilipendio, dunque, non si confonde né con la discussione su temi religiosi, così a livello scientifico come a livello divulgativo, né con la critica e la confutazione pur se vivacemente polemica; né con l’espressione di radicale dissenso da ogni concezione richiamantesi a valori religiosi trascendenti, in nome di ideologie imrnanentistiche o positivistiche od altre che siano. Sono, invece, vilipendio, e pertanto esclusi dalla garanzia dell’art. 21 (e dell’art. 19), la contumelia, lo scherno, l’offesa, per dir così, fine a sé stessa, c costituisce ad un tempo ingiuria al credente (e perciò lesione della sua personalità) e oltraggio ai valori etici di cui si sostanzia ed alimenta il fenomeno religioso oggettivamente riguardato». Corte di Cassazione – copia non ufficiale
Tanto premesso, ed aderendo a questi principi, la Corte di appello ha sottolineato, con solido e non illogico argomento, che la condotta offensiva tenuta dal COGNOME all’indirizzo del vescovo non costituiva una critica, tantomeno ragionata e civile, al profilo meramente organizzativo di un evento pubblico, ma un’evidente offesa al sentimento religioso della comunità dei fedeli lì presenti, manifestata contestando la particolare autorevolezza che la stessa comunità attribuisce alla figura del vescovo nell’esercizio delle sue funzioni pastorali.
9.1. Al riguardo, la sentenza ha innanzitutto sottolineato un dato pacifico, ossia che la modifica al percorso della processione non aveva costituito un’estemporanea ed immotivata decisione di mons. COGNOME ma una scelta ponderata – in linea con le direttive impartite nel 2013 dalla Conferenza Episcopale Campana – volta a restituire alla processione stessa un maggior carattere spirituale, eliminando alcune tappe ritenute superflue; un tale “recupero” di spiritualità, peraltro, risultava pienamente coerente con la natura della processione del santo patrono, che per i credenti costituisce non una mera festa popolare, ma un vero ed autentico rito religioso, nel corso del quale la statua o la reliquia del santo stesso viene portata nelle strade, in un contesto di preghiere, di inni, di salmi o di litanie a contenuto evidentemente – ed esclusivamente religioso.
9.1. Muovendo da questa premessa, peraltro decisiva, ecco allora che la sentenza ha correttamente contestualizzato le contumelie rivolte (anche) dal ricorrente nei confronti del vescovo: con parole offensive ed un atteggiamento scomposto, infatti, l’imputato aveva voluto vilipendere – ossia mostrare di tenere a vile – non soltanto la figura dell’alto prelato, ma anche, e soprattutto, sentimento religioso di una comunità di fedeli che – nel rispetto delle gerarchie ecclesiastiche – riconosce(va) nel vescovo stesso il massimo riferimento spirituale della Chiesa locale. Quale vertice della diocesi di Salerno, infatti, mons. COGNOME era chiamato a curare, prima ancora di ogni aspetto organizzativo, la vita spirituale della comunità che guidava, compresa la “modulazione” dei riti, e dunque anche delle processioni, in modo da valorizzarne il profilo religioso, peraltro in adesione alle indicazioni della Conferenza Episcopale regionale. Come congruamente affermato dalla Corte di appello, dunque, la modifica del percorso “mirava al restituire alla cerimonia il suo originario carattere spirituale ed a mantenere l’attenzione dei fedeli sull’autentico significato religioso del rito, anche attraver l’esaltazione dei programmati momenti di preghiera”; e solo in questi termini, dunque, doveva interpretarsi – e la comunità dei fedeli aveva interpretato – il cambiamento che il vescovo aveva stabilito al rito stesso.
9.2. In forza di queste considerazioni, le sentenze di merito hanno dunque concluso, con argomento adeguato e non manifestamente illogico, che il ricorrente
fattosi, con altri, latore di una pretesa, differente ed indimostrata volont popolare – aveva offeso il sentimento religioso della collettività dei fedeli, che riconoscendo nel vescovo la propria guida spirituale, ne avevano seguito le indicazioni volte ad esaltare il carattere religioso della processione.
9.3. Il motivo di ricorso del COGNOME sull’art. 403 cod. pen., dunque, è infondato.
Con riguardo, poi, al reato di cui all’art. 405 cod. pen., il Collegio osserva che la censura si muove su un piano di puro merito, non consentito in questa sede: si sostiene, in particolare, che l’imputato avrebbe pronunciato le frasi offensive in un momento in cui la processione era ferma a causa dell’ordine di poggiare le statue a terra impartito dal capo paranza Amoroso, con l’effetto che non si sarebbe consumato alcun turbamento.
10.1. Questo argomento, peraltro, non sl confronta con la motivazione stesa dalla Corte di appello, già sopra richiamata, che ha correttamente delineato i termini della condotta di reato, che, con ogni evidenza, prescinde dal fatto che la processione si fosse momentaneamente arrestata, proprio per le accese contestazioni. La processione stessa, pertanto, era in corso, non era terminata, come ben affermato in sentenza, così da potersi ritenere integrato il reato.
Il ricorso del COGNOME di seguito, risulta del tutto infondato sul quart motivo, che contesta il mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62, n. 3 cod. pen.
11.1. La censura sostiene che la sentenza avrebbe impropriamente parificato le posizioni di portatori ed astanti, oltre a non considerare che il Barra avrebbe agito soltanto in seguito alle “plateali proteste” compiute dai capi paranza e alle “veementi discussioni” scaturitene. Un tale argomento, tuttavia, non è consentito in questa sede, perché proprio della sola fase di merito, e dunque non permette di superare la motivazione della sentenza sul punto: con questo argomento, in particolare, è stato ribadito che la circostanza attenuante dell’aver agito per suggestione di una folla in tumulto, prevista dall’art. 62 n. 3, cod. pen. presuppone che l’autore del reato non abbia concorso e non sia confluito con altri per provocare l’assembramento delle persone e compiere il fatto di reato, come invece nel caso di specie (tra le altre, Sez. 1, n. 15697 dell’11/1/2022, COGNOME, Rv. 282952).
Alle medesime conclusioni, infine, il Collegio giunge anche con riguardo all’ultimo motivo, che contesta il mancato riconoscimento dell’esimente di cui all’art. 131-bis cod. pen. ed il mancato esame della singola condotta, così come dell’incensuratezza del COGNOME. La Corte di appello, pronunciandosi sul punto, ha richiamato le stesse considerazioni sopra indicate quanto al Simone, e tale motivazione risulta incensurabile per le medesime considerazioni già espresse.
10. Entrambi i ricorsi, pertanto, debbono essere rigettati, ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali.
P.Q.N11.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 21 novembre 2023
igliere estensore
Il Presidente