Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 29723 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 29723 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 01/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a Galatina il 17/05/1987
avverso la sentenza del 15/01/2025 della Corte militare di appello di Roma
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto, con requisitoria scritta, dichiararsi la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, e il rigetto del ricorso nel resto.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza emessa in data 15 gennaio 2025 la Corte militare di appello di Roma, confermando la sentenza emessa in data 23 novembre 2023 dal giudice dell’udienza preliminare del Tribunale militare di Napoli, ha condannato il serg. NOME COGNOME alla pena di anni uno di reclusione militare, con le attenuanti generiche prevalenti e i benefici di legge, per il delitto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate, con l’aggravante del grado rivestito, per avere in data 07/10/2016 e in data 06/07/2017 pubblicato, sul proprio profilo social Facebook, frasi ingiuriose nei confronti dello Stato e del governo.
La Corte di appello ha in primo luogo respinto la richiesta, avanzata da entrambe le parti processuali, di sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 81 c.p.m.p. nella parte in cui non prevede la condizione di procedibilità dell’autorizzazione del Ministro della giustizia. L’art. 2 del d.l. n. 200/2008 ha abrogato, per il solo reato militare, la condizione di procedibilità costituita da tale autorizzazione, che è invece prevista dall’art. 313, comma 3, cod. pen. nel caso di commissione del delitto di cui all’art. 290 cod. pen. Secondo la Corte, la differenza di trattamento rispetto a tale analogo reato del codice penale non è ingiustificata, perché il codice militare di pace configura il reato di cui all’art. 81 c.p.m.p. con una gravità ben superiore all’analogo reato previsto dall’art. 290 cod. pen., prevedendo una pena detentiva da due a sette anni di reclusione, mentre l’art. 290 cod. pen. sanziona la condotta con la sola multa. Tale maggiore severità si giustifica con l’attribuzione al militare, da parte del legislatore, di un particolare dovere di fedeltà alla Repubblica e alle sue istituzioni, a cui si collega il dovere di non offenderle, neppure se non si condivida l’orientamento politico dei governanti o uno specifico provvedimento. La violazione del dovere di fedeltà proprio del militare rende giustificato che l’autorità giudiziaria possa procedere per il reato in questione senza dover attendere la valutazione politica della sua condotta, da parte di un’autorità diversa.
Nel merito, la Corte ha respinto la tesi difensiva, esposta in una memoria, dell’essere le frasi in questione non attribuibili al COGNOME, sottolineando che lo stesso imputato, nel suo interrogatorio, se ne è attribuito la paternità, ed ha respinto la tesi difensiva secondo cui dette frasi costituivano una mera critica, espressa proprio in attuazione del dovere di fedeltà ma senza alcun intento di offendere o disprezzare le istituzioni statali, affermando che esse veicolano un disprezzo radicale e non una mera critica formulata per ragioni di adesione ad un diverso schieramento politico, e contengono offese gratuite verso il governo e lo Stato, addirittura equiparando quest’ultimo alla mafia. La Corte ha altresì
affermato che l’uso di termini gravemente offensivi non può essere ritenuto legittimo o comunque consentito, neppure tenendo conto del linguaggio più facilmente impiegato sui social network, ed ha perciò valutato inapplicabile la scriminante di cui all’art. 51 cod. pen., anche sotto la forma dell’eccesso colposo, risultando evidente all’imputato la natura gratuitamente offensiva e spregiativa delle sue espressioni.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso il serg. NOME COGNOME per mezzo del suo difensore avv. NOME COGNOME articolando sei motivi.
2.1. Con il primo motivo ribadisce la richiesta di sollevare una questione di legittimità costituzionale dell’art. 81 c.p.m.p.
L’eliminazione, per detto reato, dell’autorizzazione a procedere del Ministro della giustizia è frutto di una svista del legislatore, e non di una scelta consapevole, essendo la stessa conseguente all’abrogazione dell’art. 3 del R.d.l. n. 1386/1941 operata da una legge diretta ad eliminare le norme emesse dal passato regime, in quanto ritenute in potenziale contrasto con l’ordinamento repubblicano. La motivazione con cui la Corte di appello ha respinto la richiesta è illogica, in quanto il trattamento sanzionatorio più severo, previsto dall’art. 81 c.p.m.p. rispetto all’art. 290 cod. pen., rende ancora più necessaria la previa valutazione, da parte dell’autorità politica, dell’opportunità di procedere, ovvero rende necessaria una garanzia procedurale aggiuntiva. La Corte di appello, poi, non ha tenuto conto del fatto che la rilevanza penale di un fatto deve essere valutata oggettivamente, e non in base alla qualità soggettiva del suo autore. Il regime di procedibilità, inoltre, ha una natura non solo processuale ma anche sostanziale, per cui all’identità delle fattispecie deve corrispondere anche l’identità di tale regime. La rilevante differenza di trattamento viola non solo l’art. 3 Cost., per la sua irragionevolezza intrinseca, la portata discriminatoria e l’irrazionalità sistemica, in quanto contrastante con la tendenza dell’ordinamento militare ad armonizzarsi con il diritto comune, ma anche l’art. 24 Cost., dal momento che elimina, per il militare, la garanzia processuale derivante dalla valutazione politica dell’opportunità di procedere penalmente, lede il principio di prevedibilità e quello dell’autodeterminazione difensiva, e infine viola l’art. 112 Cost., alterando il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. L’illegittimità dell’art. 81 c.p.m.p. può essere eliminata solo con una pronuncia additiva della Corte costituzionale, che deve essere ritenuta legittima perché non si configurerebbe come ‘creativa’, ma solo come ripristinatoria dell’uniformità normativa esistente prima del d.l. n. 200/2008.
2.2. Con il secondo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla configurabilità del delitto di vilipendio.
La sentenza impugnata ha adottato un concetto di ‘vilipendio’ ormai superato, avendo la stessa Corte di cassazione ritenuto che esso non possa sussistere quando le esternazioni consistano nell’esercizio del diritto di critica politica. Il ricorrente si è limitato a criticare, sia pure in modo aspro, non le istituzioni repubblicane ma il ceto politico che le governava all’epoca, usando dei termini ormai entrati nell’uso comune e privi, perciò, di una portata realmente offensiva. La sentenza, omettendo di riconoscere tale evoluzione del linguaggio e della critica politica, si è messa in contrasto con la più recente giurisprudenza della CEDU e della Corte di cassazione.
2.3. Con il terzo motivo deduce il vizio di motivazione in relazione all’elemento soggettivo del reato.
La Corte di appello ha omesso di motivare in merito alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato, in quanto non ha tenuto conto dell’affermazione, resa dal ricorrente nel suo interrogatorio, di avere voluto, con le frasi contestate, criticare non l’istituzione in sé, ma il modo in cui veniva interpretata e attuata. Il reato può essere ritenuto sussistente solo se l’agente ha la coscienza e volontà di esprimere giudizi offensivi verso le istituzioni, per suscitarne il disprezzo, volontà assente nel ricorrente. La Corte, inoltre, non ha tenuto conto del fatto che, nello scrivere le frasi sul suo profilo social, il ricorrente si rivolgeva agli altri cittadini non quale militare, ma quale privato cittadino.
2.4. Con il quarto motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’omesso riconoscimento della scriminante di cui all’art. 51 cod. pen.
La sentenza ha adottato un’interpretazione non costituzionalmente orientata dei limiti al diritto di critica, specialmente di quella politica. Il diritto di critica non può essere negato solo a causa dell’uso di termini offensivi o di iperboli, se funzionali alla critica esposta, e solo le manifestazioni di pensiero gratuitamente offensive e denigratorie possono essere ritenute penalmente rilevanti. Il linguaggio usato dal ricorrente, pertanto, deve essere contestualizzato, essendo oggi ritenuto legittimo, nell’ambito della critica politica, l’uso di frasi forti e offensive, in particolare in quel periodo storico, caratterizzato da forte sfiducia verso un ceto politico screditato e dalla sua delegittimazione da parte di un movimento politico al quale andavano le simpatie del ricorrente. Tale contestualizzazione deve essere operata anche con riferimento al luogo di condivisione delle frasi contestate, essendo l’uso di termini coloriti ed anche fortemente oltraggiosi una pratica comune sui social network, accettata da tutti i partecipanti.
2.5. Con il quinto motivo di ricorso deduce il travisamento della prova e l’illogicità della motivazione in ordine al reale significato delle frasi contestate.
La Corte di appello ha dato una interpretazione illogica al termine ‘rivolta’ più volte usato dal ricorrente, attribuendogli una valenza sovversiva, mentre, nel contesto in cui è inserito, esso aveva il solo significato di chiedere un cambiamento e un rinnovamento della classe politica, come reso evidente alla sua adesione al programma di un esponente politico, citato con il suo nome. Il termine ‘rivolta’, perciò, lungi dal dimostrare una volontà di sovvertire l’ordine repubblicano, rappresentava una piena adesione ai principi democratici, volendo riferirsi all’esercizio del diritto di sostituire un ceto politico ritenuto inadeguato con altri rappresentanti, ritenuti più aderenti alla propria visione politica dello Stato.
2.6. Con il sesto motivo di ricorso, infine, il ricorrente deduce la manifesta illogicità della motivazione.
La sentenza da un lato riconosce che l’ambiente dei social network è caratterizzato da una certa rilassatezza nel linguaggio, ma poi afferma che l’uso di parole quali quelle contestate non può in ogni caso essere consentito. La motivazione, pertanto, è contraddittoria, perché il riconoscimento dell’esistenza di una maggiore libertà espressiva nelle comunicazioni tramite social network doveva portare ad attribuire irrilevanza alle frasi contestate, il cui contenuto non può essere ritenuto fortemente offensivo, ma tipico di tali comunicazioni.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, con cui ha chiesto dichiararsi la manifesta infondatezza della questione di costituzionalità, e il rigetto dei restanti motivi di ricorso.
In data 01/07/2025 il difensore ha inviato una memoria con la quale lamenta la omessa o tardiva comunicazione della requisitoria del Procuratore generale miliare, e conclude chiedendo l’accoglimento di tutti i motivi di ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è infondato, nel suo complesso, e deve essere rigettato.
La richiesta di sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma contestata, avanzata con il primo motivo di ricorso, deve essere respinta, essendo tale questione manifestamente infondata, sia con riferimento alla mancata previsione della necessità dell’autorizzazione a procedere del Ministro della Giustizia, diversamente da quanto previsto per l’analogo reato di cui all’art. 290 cod. pen., sia con riferimento alla maggiore gravità del trattamento sanzionatorio stabilito per il reato qui contestato.
Il diverso trattamento previsto dall’art. 81 c.p.m.p., applicabile ai militari, rispetto al reato di cui all’art. 290 cod. pen., applicabile ai cittadini comuni, è una scelta del legislatore, che può violare l’art. 3 Cost. solo quando risulti irragionevole, non essendo in sé criticabile la previsione di una diversa disciplina per situazioni non identiche. Nel presente caso è evidente la diversità tra i due reati, sia per la qualità personale dell’autore, che nel caso dell’art. 81 c.p.m.p. deve essere un appartenente alle Forze armate, sia per il diverso trattamento sanzionatorio previsto: il reato del codice penale militare di pace sanziona il vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate con la pena detentiva da due a sette anni, mentre l’analogo reato previsto dall’art. 290 cod. pen. stabilisce una pena solo pecuniaria. Il legislatore, pertanto, ha ritenuto particolarmente grave la condotta di vilipendio tenuta dal militare, rispetto alla modesta gravità attribuita al medesimo comportamento tenuto dal cittadino comune. Tale diverso trattamento non appare irragionevole: le affermazioni di disprezzo pronunciate contro lo Stato da chi è preposto alla sua tutela inducono a mettere in dubbio la lealtà e la fedeltà di tale soggetto, e quindi anche le sue capacità e volontà di difendere le istituzioni repubblicane in caso di loro messa in pericolo, mentre tale fedeltà deve essere prestata alle istituzioni in modo costante, chiunque le rappresenti e qualunque sia il suo orientamento politico; inoltre esse producono, in chi le ascolta, un maggiore impatto suggestivo, potendo spingere l’ascoltatore a togliere rispetto a dette istituzioni se anche chi è preposto, per sua scelta, alla loro difesa dimostra di ‘tenerle a vile’, e di non nutrire fiducia in esse. Il diverso trattamento sanzionatorio tra le due fattispecie di reato non viola, quindi, l’art. 3 Cost., perché non appare irragionevole, bensì fondato su una effettiva, maggiore gravità del reato militare rispetto al reato previsto dal codice penale comune. Nella sentenza n. 531/2000 la Corte costituzionale, respingendo una questione di legittimità posta in riferimento al diverso trattamento sanzionatorio tra il reato di vilipendio della bandiera previsto all’art. 83 c.p.m.p. e quello previsto dall’art. 292 cod. pen., ed esprimendo un concetto applicabile anche alla questione qui sollecitata, ha affermato che «…la censura mossa alla norma impugnata si riduce ad una critica, di significato essenzialmente politico-legislativo, all’eccessiva severità sanzionatoria del codice militare. Ma è appunto al legislatore che incombe il dovere di ripensare e ridimensionare il sistema dei reati e delle pene recato da tale codice, avendo naturalmente riguardo, anzitutto, ai principi costituzionali. Interventi demolitori o “manipolativi” di questa Corte possono configurarsi solo in presenza di accertate violazioni dei precetti costituzionali in materia di reati e di pene, nella specie non dedotte, o di manifesta irragionevolezza delle previsioni sanzionatorie, di cui, nella specie, non è dimostrata in modo convincente la sussistenza».
La diversità tra i due reati rende insussistente anche l’asserita irragionevolezza del diverso regime di procedibilità. La scelta del legislatore, di escludere per il reato militare la necessità dell’autorizzazione del Ministro della giustizia, appare dettata, non irragionevolmente, proprio dalla ritenuta maggiore gravità del delitto, se commesso da un militare, che rende la sua repressione indispensabile, e non soggetta a valutazioni di opportunità politica. La giurisprudenza di legittimità, infatti, qualifica tale autorizzazione come un «atto politico, libero nei fini ed insindacabile da parte dell’autorità giudiziaria» (Sez. 1, n. 45074 del 28/09/2010, Rv. 249272; Sez, 1, n. 3739 del 18/12/1972, dep. 1973, Rv. 124073), per cui la scelta legislativa di escluderne la necessità assume la medesima valenza, di un atto politico, non sindacabile da parte dell’autorità giudiziaria. E’ erronea, pertanto, la qualificazione di tale autorizzazione, da parte del ricorrente, come una ‘garanzia processuale’, non avendo essa tale natura, e non incidendo la sua mancata previsione sulla prevedibilità o sulla obbligatorietà dell’azione penale, che non sono alterati dall’assenza di una condizione di procedibilità.
Il ricorso del ricorrente, pertanto, è infondato laddove egli basa la sua doglianza su un’asserita identità della fattispecie di reato a lui ascritta rispetto a quella prevista dal codice penale, essendo tale identità insussistente, e sulla privazione di una ‘garanzia processuale’, non avendo l’autorizzazione del Ministro tale natura o una tale finalità. La questione proposta appare, pertanto, manifestamente infondata, non solo con riferimento all’asserita violazione dell’art. 3 Cost., ma anche con riferimento a quella degli artt. 24 e 112 Cost.
Il primo motivo di ricorso deve, pertanto, essere rigettato perché infondato.
Il secondo motivo di ricorso è infondato, e ai limiti della inammissibilità.
Il ricorrente deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’interpretazione data dalla Corte di appello al concetto di ‘vilipendio’, ma in realtà contesta la sua valutazione circa la portata offensiva dei termini contestati, e chiede a questa Corte una diversa valutazione dei medesimi elementi probatori, nonostante la non manifesta illogicità di quella contenuta nelle due sentenze di merito. Deve infatti sottolinearsi che la motivazione della sentenza impugnata costituisce una ‘doppia conforme’, che sussiste quando «la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzati nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale» (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, Rv. 277218). Gli asseriti vizi motivazionali della sentenza di secondo grado, pertanto, devono essere valutati alla luce del richiamo che essa fa all’intero complesso argomentativo di
quella di primo grado, potendo tale richiamo contribuire alla completezza della motivazione.
La sentenza di primo grado, infatti, ha valutato approfonditamente, anche sotto il profilo dell’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 51 cod. pen., la qualificabilità delle espressioni usate dall’imputato come un legittimo esercizio del diritto di critica e di manifestazione del pensiero, ribadendo però che esso trova il suo limite nell’uso di espressioni gratuitamente volgari, offensive e lesive del prestigio del soggetto criticato, e nell’uso di espressioni di disprezzo, quali ‘Italia di merda’ (Sez 1, n. 28730 del 21/03/2013, Rv. 256781) o ‘Stato di merda’ (Sez. 1, n. 35988 del 15/01/2019, n.m.). Tale valutazione, a cui la sentenza di appello si conforma, appare non manifestamente illogica né contraria a norme di legge o alla giurisprudenza di questa Corte o a quella della CEDU. I giudici di merito hanno valutato, infatti, la gratuità dei termini volgari e ingiuriosi utilizzati, non inseriti in un discorso strutturato di critica politica né riferiti a specifici comportamenti, bensì diretti a svilire e dileggiare non solo il governo in carica ma lo Stato stesso e l’intera classe politica, che rappresenta il corpo elettorale, ai quali sono stati rivolti epiteti volgari e non motivati.
La sentenza impugnata, pertanto, non ha omesso di distinguere la condotta di vilipendio dall’esercizio del diritto di critica politica, ma ha valutato che le parole dell’imputato «anziché contenere una critica, anche aspra, veicolano un disprezzo radicale per il bersaglio scelto, e non una presa di distanza fornita di motivazioni politiche» (pag. 17). Tale valutazione, come detto, non appare manifestamente viziata, e si fonda, al contrario, sulla volgarità stessa dei termini utilizzati, più volte giudicati da questa Corte, anche in analoghi contesti, come gratuitamente offensivi e tali da poter costituire, in astratto, l’elemento oggettivo del reato di vilipendio allo Stato o alle sue istituzioni. Questo motivo di ricorso, pertanto, deve essere respinto perché «esula … dai poteri della Corte di cassazione quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali» (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, COGNOME, Rv. 207944).
4. Il terzo motivo del ricorso è infondato.
Il ricorrente lamenta l’omessa valutazione della sussistenza dell’elemento soggettivo, in particolare per non avere la Corte tenuto conto delle dichiarazioni dell’imputato, che in sede di interrogatorio ha chiarito la sua finalità di critica non dell’istituzione statale, ma solo del modo in cui essa era attuata. Tale doglianza è infondata: la sentenza impugnata ha valutato approfonditamente le spiegazioni fornite dall’imputato nel suo interrogatorio e in una successiva memoria, ma le
ha ritenute non idonee ad escludere l’elemento soggettivo, perché il fatto che le espressioni utilizzate costituissero non esternazioni immotivate, ma manifestazioni di un orientamento politico contrario ai governanti in carica, non le rende lecite.
Questa valutazione è logica, non contraddittoria, e conforme alle risultanze processuali: le spiegazioni dell’imputato intendono giustificare le sue parole come una critica politica, ma non escludono la natura gratuitamente volgare, spregiativa e ingiuriosa dei termini usati, dal momento che, come ribadito nel paragrafo che precede, la liceità della critica politica trova un limite nell’utilizzo di tali espressioni. Il dolo richiesto dall’art. 81 c.p.m.p. è un dolo generico, che consiste nella mera coscienza e volontà di indirizzare allo Stato e alle istituzioni repubblicane parole offensive e contenenti disprezzo, che possono oggettivamente costituire vilipendio; la motivazione del gesto è irrilevante e non idonea ad escludere tali coscienza e volontà, per le quali è sufficiente l’evidenza della natura offensiva e spregiativa delle espressioni usate, l’assenza di un articolato ragionamento politico, la volontà di esprimere il proprio dissenso con parole esprimenti disprezzo per le istituzioni nel loro complesso. La sentenza di appello ha ritenuto dimostrati tali elementi, rinvenendo nelle spiegazioni fornite dall’imputato l’indicazione della motivazione della sua azione, ma anche la piena coscienza e volontà di usare i termini contestati, pur nella consapevolezza della loro violenza espressiva: la sua valutazione, circa la piena sussistenza del dolo richiesto dalla norma, è pertanto motivata in modo logico e non contraddittorio, e si sottrae al sindacato di questa Corte.
Del tutto irrilevante, e comunque infondata, è l’affermazione che il ricorrente si rivolgeva agli altri cittadini non quale militare, ma quale privato cittadino: l’appartenenza alle Forze armate è permanente, così come il particolare dovere di lealtà e fedeltà che ad essa si accompagna.
Anche il quarto motivo del ricorso è infondato, e deve essere rigettato.
La sentenza, conformandosi anche sotto questo aspetto a quella di primo grado, ha escluso la sussistenza della esimente di cui all’art. 51 cod. pen. con motivazione congrua, logica e conforme ai principi costantemente espressi dalla giurisprudenza di legittimità.
Il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia escluso la giustificabilità delle espressioni usate quali manifestazione del diritto di critica politica decontestualizzandole e omettendo di tenere conto del clima dell’epoca, caratterizzato da profonda sfiducia nella classe politica tradizionale, e del mezzo usato, essendo comune, sui social network, l’utilizzo di un linguaggio non formale, ed anzi aggressivo e disinvolto. Tale doglianza non è fondata, perché la sentenza ha ampiamente valutato, come già rilevato nei precedenti paragrafi,
l’affermazione del ricorrente di avere inteso esprimere solo una critica politica, e l’ha ritenuta non fondata o comunque non idonea a giustificare l’uso dei termini contestati, per la loro gratuita oltraggiosità e portata denigratoria, tale da eccedere i limiti consentiti ad un esercizio, anche aspro, del diritto di critica. La sentenza inoltre, alla pag. 18, ha anche tenuto conto dell’evoluzione del linguaggio, che ha reso oggi accettabili espressioni colorite e scorrette, nonché dell’abituale utilizzo, sui social network, di termini crudi e diretti, ma ha valutato il contenuto contestato come inaccettabile anche alla luce di tali possibili giustificazioni, ribadendone la portata fortemente denigratoria e spregiativa.
Tale motivazione appare non manifestamente illogica, ed anzi conforme ai principi costantemente ribaditi da questa Corte, sui limiti che il diritto di critica, anche se aspra ed aggressiva, sempre incontra, e sulla idoneità di certi termini e di certi accostamenti, come l’equiparazione tra lo Stato e la mafia, a costituire vilipendio, in quanto diretti a suscitare disprezzo verso le istituzioni (si veda Sez. 5, n. 31263 del 14/09/2020, Rv. 279909, quanto alla idoneità di un simile accostamento a superare il limite della critica politica). Questa Corte, in relazione all’art. 292 cod. pen., ha infatti precisato che «In tema di reati contro la personalità dello Stato, esulano dall’esercizio del diritto di libera manifestazione di opinioni politiche ed integrano il delitto di vilipendio alla bandiera espressioni di ingiuria e di disprezzo, lesive del prestigio e dell’onore dello Stato, dei suoi emblemi e delle sue istituzioni, ovvero offese grossolane e brutali, prive di correlazione con una critica obiettiva» (Sez. 1, n. 1903 del 26/10/2017, dep. 2018, Rv. 272045).
Deve perciò essere nuovamente applicato il principio, sopra richiamato, della non sindacabilità della motivazione da parte di questa Corte, se non viziata, non potendo essa proporre una propria valutazione dei medesimi elementi probatori, se quella esposta nella sentenza impugnata sia esente dai vizi che, ai sensi dell’art. 606 cod. proc. pen., costituiscono l’ambito di verifica attribuito dal legislatore al giudice di legittimità.
Il quinto motivo del ricorso, invece, deve essere dichiarato inammissibile per mancanza di specificità.
Il ricorrente lamenta che la Corte di appello abbia travisato il termine ‘rivolta’, attribuendogli una valenza sovversiva, ma non si confronta con la sentenza che, alle pagine 18-19, ha espressamente affermato, sulla base delle spiegazioni offerte dall’imputato, che esso, in questo processo, «viene in considerazione per il suo tratto offensivo e spregiativo, non come proposito o istigazione a passare a vie di fatto». Detta parola, pertanto, è stata valutata solo sotto tale profilo, e ritenuta anch’essa manifestazione del «disprezzo radicale» evidenziato in tutte le espressioni utilizzate dal ricorrente, senza
neppure obliterare le dichiarazioni di fedeltà al Paese contenute in altre parti dei suoi commenti sul proprio profilo facebook, e rivendicate dall’imputato, nel suo interrogatorio, come prova della sua lealtà.
La doglianza, pertanto, è manifestamente infondata, non avendo la sentenza impugnata mai attribuito al ricorrente espressioni che dimostrassero propositi sovversivi, che risulterebbero peraltro estranei al delitto di vilipendio.
E’ infondato, infine, il sesto motivo di ricorso.
La motivazione non è contraddittoria laddove, pur riconoscendo l’abitualità dell’utilizzo, sui social network, di un linguaggio più disinvolto ed anche aggressivo, ha escluso che ciò potesse giustificare la condotta del ricorrente. Al contrario, essa appare logica, avendo valutato che i termini usati oltrepassano il limite consentito dalle norme penali, giungendo a configurare il reato contestato.
La Corte di appello, infatti, ha esaminato la tesi difensiva nuovamente esposta in questo motivo di ricorso, ma ha ritenuto, in modo logico e conforme ai principi giurisprudenziali citati al paragrafo 3, che le espressioni concretamente utilizzate costituiscano ancora oggi il delitto di vilipendio, avendo esse mantenuto, anche nel linguaggio comunemente usato sui social network, un significato fortemente offensivo e spregiativo, e non potendosi peraltro ritenere lecito, giustificato, ovvero non penalmente rilevante tutto ciò che viene compiuto attraverso tali nuovi sistemi di comunicazione, solo in virtù del mezzo di trasmissione utilizzato (si veda, in tema di necessità del rispetto dei valori fondamentali anche nell’utilizzo dei social network, Sez. 5, n. 8898 del 18/01/2021, Rv. 280571; Sez. 5, n. 13979 del 25/01/2021, Rv. 281023; Sez. 5, n. 39047 del 29/05/2019, Rv. 276855).
Anche in questo caso, peraltro, il ricorrente chiede a questa Corte una diversa valutazione della portata spregiativa ed offensiva dei termini usati, valutazione che non è consentita, stanti i limiti del giudizio di legittimità.
Sulla base delle considerazioni che precedono il ricorso deve pertanto essere respinto, e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 01 luglio 2025