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Traduzione sentenza: quando è inammissibile il ricorso?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un imputato condannato per reati legati agli stupefacenti, che lamentava la mancata traduzione della sentenza di primo e secondo grado. La Suprema Corte ha ritenuto il motivo manifestamente infondato, poiché dagli atti processuali emergeva la prova che l’imputato possedeva una conoscenza della lingua italiana sufficiente a garantirgli una partecipazione consapevole al processo e un pieno esercizio del diritto di difesa. La decisione sottolinea che il diritto alla traduzione della sentenza non è assoluto se l’imputato comprende la lingua del procedimento.

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Pubblicato il 7 novembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Traduzione della sentenza: non è un diritto assoluto se l’imputato conosce l’italiano

Il diritto alla difesa è uno dei pilastri del nostro ordinamento giuridico, e per un imputato straniero, questo include il diritto a comprendere gli atti del processo. Tuttavia, una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce i limiti di questo principio, in particolare riguardo alla traduzione della sentenza. Vediamo come la conoscenza della lingua italiana da parte dell’imputato possa rendere inammissibile un ricorso basato sulla sua mancata traduzione.

I Fatti del Caso

Il caso trae origine dal ricorso presentato da un cittadino straniero, condannato in primo e secondo grado per reati legati alla normativa sugli stupefacenti (art. 73 del D.P.R. 309/1990). L’imputato ha adito la Corte di Cassazione lamentando un vizio di nullità assoluta, derivante dalla mancata traduzione delle sentenze emesse nei suoi confronti dalla Corte d’Appello di Bologna. A suo avviso, questa omissione avrebbe leso il suo diritto a una piena comprensione delle decisioni giudiziarie e, di conseguenza, il suo diritto di difesa.

La Decisione della Corte di Cassazione e il tema della traduzione della sentenza

La Settima Sezione Penale della Corte di Cassazione, con l’ordinanza in esame, ha dichiarato il ricorso inammissibile. La Corte ha respinto la doglianza del ricorrente, condannandolo al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria di tremila euro a favore della Cassa delle ammende. La decisione si fonda su una duplice valutazione: l’inammissibilità del motivo in sé e la sua manifesta infondatezza nel merito.

Le Motivazioni della Decisione

La Suprema Corte ha articolato le sue motivazioni su due punti principali.

In primo luogo, il ricorso è stato giudicato inammissibile perché non rientrava tra quelli consentiti dalla legge in quella specifica fase processuale. Ma è la seconda motivazione ad essere di maggiore interesse. Il ricorso è stato ritenuto manifestamente infondato.

Dagli atti processuali, infatti, emergeva chiaramente la prova che l’imputato parlava e conosceva la lingua italiana in misura più che adeguata. Lo stesso ricorso, implicitamente, ammetteva questa circostanza. La Corte ha stabilito che la conoscenza della lingua era tale da “consentirgli una consapevole partecipazione al processo e un pieno diritto di difesa”.

In altre parole, il diritto a ottenere la traduzione degli atti non è un automatismo. La sua funzione è quella di garantire che l’imputato che non comprende la lingua del processo sia messo in condizione di difendersi efficacemente. Se, al contrario, è dimostrato che l’imputato possiede le competenze linguistiche per comprendere le accuse e le decisioni, la richiesta di traduzione perde la sua ragione d’essere e non può essere utilizzata per lamentare una presunta violazione dei diritti difensivi.

Le Conclusioni: Implicazioni Pratiche

Questa pronuncia della Cassazione ribadisce un principio fondamentale: i diritti processuali, incluso quello alla traduzione degli atti, non devono essere strumentalizzati. La valutazione sulla necessità della traduzione va condotta caso per caso, verificando l’effettiva capacità dell’imputato di comprendere la lingua processuale. Se tale capacità è acclarata, la mancata traduzione della sentenza non costituisce un vizio che può portare all’annullamento della decisione. Questa interpretazione mira a bilanciare la tutela dei diritti fondamentali dell’imputato con l’esigenza di un corretto e celere svolgimento del processo, prevenendo abusi procedurali che potrebbero rallentare la giustizia.

Un imputato straniero ha sempre diritto alla traduzione della sentenza?
No, non sempre. Secondo questa ordinanza, se è provato che l’imputato conosce la lingua italiana a un livello tale da consentirgli di partecipare consapevolmente al processo e di esercitare pienamente il suo diritto di difesa, la mancata traduzione della sentenza non costituisce un motivo valido per impugnare la decisione.

Perché il ricorso basato sulla mancata traduzione è stato dichiarato inammissibile?
Il ricorso è stato ritenuto inammissibile per due ragioni: primo, perché il motivo sollevato non era consentito dalla legge per quel tipo di procedimento; secondo, perché era manifestamente infondato, dato che dagli atti risultava chiaramente la conoscenza della lingua italiana da parte del ricorrente.

Cosa si intende per “consapevole partecipazione al processo”?
Significa che l’imputato deve essere in grado di comprendere le accuse a suo carico, seguire lo svolgimento delle udienze e comunicare efficacemente con il proprio difensore. Se la conoscenza della lingua italiana garantisce queste capacità, il diritto di difesa è considerato pienamente tutelato, anche in assenza di una traduzione formale degli atti.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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