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Traduzione atti condannato: quando è un diritto?

La Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso di un condannato straniero che lamentava la mancata traduzione degli atti del procedimento di esecuzione. La Corte ha chiarito che il diritto alla traduzione atti condannato non è automatico, ma sorge solo a seguito di una specifica e tempestiva richiesta da parte dell’interessato, che deve evidenziare la necessità di comunicare con il proprio difensore.

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Pubblicato il 12 dicembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Traduzione Atti Condannato Straniero: Non un Diritto Automatico ma un Onere della Difesa

Nel contesto della procedura penale, la tutela dei diritti dell’imputato o del condannato che non comprende la lingua italiana è un principio cardine. Tuttavia, una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce i confini e le modalità di esercizio di tale diritto, soprattutto nella fase esecutiva. La questione centrale riguarda la traduzione atti condannato: è un obbligo automatico del giudice o una prerogativa che la difesa deve attivare? L’ordinanza in esame sposta l’ago della bilancia verso la seconda ipotesi, ponendo un onere specifico sull’interessato.

I fatti del caso

Il caso trae origine da un’ordinanza della Corte di Appello di L’Aquila che, in qualità di Giudice dell’esecuzione, aveva revocato il beneficio della sospensione condizionale della pena a un cittadino straniero. Tale beneficio era stato concesso in una precedente sentenza del 2019. La revoca si è resa necessaria perché il condannato aveva commesso un nuovo delitto nel 2021, per il quale era stato condannato nel 2023.

Avverso questa decisione, il difensore del condannato ha proposto ricorso in Cassazione, lamentando un vizio procedurale fondamentale: l’omessa traduzione, in una lingua a lui nota, sia dell’ordinanza di revoca sia degli altri atti del procedimento di esecuzione. Secondo la difesa, questa mancanza avrebbe leso il diritto del suo assistito a comprendere appieno la vicenda processuale che lo riguardava.

La questione giuridica: il diritto alla traduzione atti condannato è assoluto?

Il cuore della controversia non risiede nel merito della revoca della sospensione condizionale, ma in una questione prettamente procedurale. Il ricorso solleva un quesito di notevole importanza pratica: il diritto di un condannato straniero a ricevere la traduzione degli atti è un obbligo che il giudice deve adempiere d’ufficio in ogni caso, oppure è un diritto che deve essere specificamente richiesto dalla difesa? La Corte di Cassazione è stata chiamata a definire i contorni di questa garanzia difensiva nella fase di esecuzione della pena, una fase successiva alla sentenza di condanna definitiva.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, fornendo una motivazione chiara e basata su un principio di diritto già consolidato. Gli Ermellini hanno stabilito che, nel procedimento di esecuzione, il diritto del condannato straniero a un interprete o alla traduzione atti condannato è funzionale a un preciso scopo: permettergli di comunicare efficacemente con il proprio difensore per presentare richieste, memorie o istanze al giudice.

Di conseguenza, non si tratta di un diritto automatico. Grava sull’interessato, e per esso sul suo difensore, l’onere di formulare una ‘apposita richiesta’ al giudice dell’esecuzione, evidenziando concretamente tale ‘necessità’. Nel caso di specie, la difesa non ha mai presentato una richiesta specifica e tempestiva in tal senso.

Inoltre, la Corte ha specificato che l’eventuale omissione della traduzione integra una ‘nullità a regime intermedio’. Questo significa che non è una nullità assoluta e insanabile, ma un vizio che deve essere eccepito dalla difesa entro termini precisi. Poiché tale eccezione non è stata sollevata nei tempi e modi dovuti durante il procedimento di esecuzione, la presunta irregolarità si è sanata. Il ricorso, pertanto, è stato giudicato inammissibile.

Conclusioni

La decisione della Cassazione rafforza un principio di auto-responsabilità processuale della difesa. Il diritto alla comprensione degli atti per il condannato straniero è sacrosanto, ma il suo esercizio richiede un’attivazione esplicita. La difesa non può rimanere passiva e lamentare solo a posteriori la mancata traduzione. Deve, invece, rappresentare tempestivamente al giudice la necessità del proprio assistito, formulando una richiesta formale. Questa pronuncia serve da monito: le garanzie processuali esistono per essere esercitate attivamente e non possono essere invocate come espedienti tardivi per rimettere in discussione decisioni divenute definitive. La conseguenza per il ricorrente è stata la condanna al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro alla Cassa delle ammende.

Un condannato che non parla italiano ha sempre diritto alla traduzione degli atti nel procedimento di esecuzione?
No, secondo la Corte questo diritto non è automatico. È funzionale alla comunicazione con il difensore e deve essere attivato tramite una specifica e motivata richiesta al giudice dell’esecuzione da parte dell’interessato o del suo legale.

Cosa succede se il giudice non provvede alla traduzione degli atti?
L’omessa traduzione degli atti costituisce una ‘nullità a regime intermedio’. Questo significa che per far valere il vizio, la difesa deve sollevare un’eccezione entro specifici termini procedurali. Se l’eccezione non viene presentata tempestivamente, il vizio si considera sanato.

Qual è l’onere della difesa in questi casi?
La difesa ha l’onere di richiedere formalmente e tempestivamente la nomina di un interprete o la traduzione degli atti, dimostrando al giudice la concreta necessità per il proprio assistito di comprendere gli atti al fine di esercitare efficacemente il proprio diritto di difesa nel procedimento.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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