Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 13405 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 13405 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 14/02/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a TROPEA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 24/10/2023 del TRIB. LIBERTA’ di REGGIO CALABRIA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
Lette le conclusioni scritte per l’udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 dl. 137/2020 conv. dalla I. n. 176/2020, come prorogato ex art. 16 d.l. 228/21 conv. con modif. dalla 1.15/22 e successivamente ex art. 94, co. 2, del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, come sostituito prima dall’art. 5-duodecies della I. 30.12.2022, n. 199, di conversione in legge del d.l. n. 162/2022) e poi dall’art. 17 del D.L. 22 giugno 2023, conv. con modif. dalla I. 10.8.2023 n. 112, del P.G., in persona del Sost. Proc. Gen. NOME COGNOME, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso
RITENUTO IN FATTO
1. Con ordinanza del 24/10/2023 il Tribunale di Reggio Calabria ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza con cui la Corte d’Appello di Reggio Calabria in data 22/9/2023 ha rigettato le richieste di declaratoria di inefficacia della custodia cautelare in carcere avanzata nell’interesse dell’odierno ricorrente COGNOME NOME, destinatario il 23/7/2019 di ordinanza applicativa della custodia in carcere per aver promosso un sodalizio dedito al traffico di stupefacenti, attivo in Reggio Calabria e in centri limitrofi nell’anno 2017, nonché per condotte di detenzione e cessione di droga leggera e pesante, maturate nel predetto contesto associativo, ed ancora per numerosi reati contro il patrimonio (usura, estorsione, truffa, riciclaggio) e pe reali in materia di armi.
Il titolo genetico è stato confermato dal iribunale del riesame con decisione divenuta definitiva e conseguente formazione del giudicato cautelare.
Per i reati ascrittigli COGNOME NOME ha riportato in primo grado condanna alla pena di anni sedici. mesi tre e giorni venti di reclusione, ridotta in appell giusta sentenza del 4/11/202. ad anni quindici e mesi quattro di reclusione.
Alla richiesta di declaratoria d’inefficacia della custodia cautelare in carcere per decorso del termine di fase, la Corte d’Appello di Reggio Calabria con il provvedimento del 22/9/2023 ha opposto un diniego, argomentando che, in presenza di c.d. doppia conforme, opera il termine massimo di cui all’art. 303 co. 4 lett. c cod. proc. pen. di anni sei, in quanto COGNOME è stato condanNOME per il delitto di cui all’art. 74 co. 1,2,3 DPR 309/90.
Nel procedimento incidentale il difensore ha reiterato la prospettazione a fondamento della prima istanza, secondo cui a seguito della pronuncia della sentenza d’appello continuerebbe ad operare il termine di cui all’art. 303 lett. d cod. proc. pen.
Il Tribunale reggino, con il provvedimento impugNOME, ha rigettato l’impugnazione f ritenendo che la prospettazione non meritasse adesione, in quanto in contrasto col chiaro dettato dell’art. 303 co. 1 lett. d) cod. proc. pen., relativo computo dei termini di custodia dopo la sentenza di condanna in appello, secondo cui «se vi è stata condanna in primo grado, ovvero se l’impugnazione è stata proposta esclusivamente dal pubblico ministero si applica soltanto la disposizione del cominci 4.».
In linea col dettato normativo -rileva il provvedimento impugNOME– la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che «nel caso di condanna in grado di appello, anche qualora sia stata ridotta la pena comminala in primo grado, i termini di custodia cautelare cui deve farsi riferimento sono quelli stabiliti per la durata massima delle misure cautelari dal quarto comma dell’art. 303 cod. proc. pen. e non invece quelli di fase rapportati alla pena in concreto irrogata» (sentenze n.
29554/2014 e n. 27408/2010, secondo cui «I termini di custodia cautelare da applicare in caso di conferma in appello della condanna di primo grado sono quelli complessivi di cui all’art. 303, comma quarto, cod. proc. pen. per il cui computo deve farsi riferimento alla pena edittale prevista per il reato ritenuto in sentenz e non a quella irrogata in concreto con la medesima»).
2. Ricorre il COGNOME, a mezzo del proprio difensore di fiducia, deducendo, con un unico motivo, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall’art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen. violazione ed erronea applicazione dell’art. 303, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
Il ricorrente lamenta l’errata applicazione della no-ma in quanto il kribunale del riesame prima e la corte di appello poi hanno ritenuto applicabile, nel caso di condanna anche in grado di appello, soltanto l’art. 303 comma 4 e quindi la durata complessiva della custodia cautelare.
In tal modo -si sostiene- sono stati aboliti i termini di fase riferiti al te tra la decisione di primo grado e quella di secondo. Ciò laddove l’art. 303 comma 1 lett. c cod. proc. pen. prevede il termine di fase dalla pronuncia di primo grado a quella in appello non superiore ad anni uno e mesi sei, aggiungendo “salve le ipotesi di cui alla lettera b) n. 3 bis e cioè la possibilità di aumento dei termin fase fino a sei mesi quando si procede per delitti di cui all’art. 407 comma 2 lett. a)”.
L’applicazione esclusiva del comma 4, secondo la tesi del ricorrente, sì riferisce alla possibilità di aumento dei termini fino a sei mesi secondo la disposizione della lett. b) n.3; infatti se vi è stata condanna anche in appello o l’impu gnazione è stata proposta solo dal pubblico ministero, il termine di fase non può essere aumentato fino a sei mesi perché non può computarsi l’aumento alla fase precedente in quanto interamente consumata, né al periodo successivo interamente esaurito.
Nel caso che ci occupa, quindi, andrebbe applicato il termine massimo di fase senza aumento, applicando il termine previsto per la durata complessiva della carcerazione preventiva.
Una lettura diversa della norma sarebbe illogica e contraria ai principi costituzionali.
Chiede pertanto che questa Corte annulli l’ordinanza impugnata, con i provvedimenti consequenziali.
Nei termini di legge ha rassegNOME le proprie conclusioni scritte per l’udienza senza discussione orale (art. 23 co. 8 di. 137/2020), il P.G., che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi sopra richiamati sono inammissibili, in quanto assolutamente privi di specificità in tutte le loro articolazioni e del tutto essertivi.
Gli stessi, in particolare, non sono sorretti da concreta specificità e pertinenza censoria, perché non si coniugano alla enunciazione di specifiche richieste con connessa indicazione delle ragioni di diritto e dei dati di fatto che le sorreggono e sono privi della puntuale enunciazione delle ragioni di diritto giustificanti il rico e dei correlati congrui riferimenti alla motivazione dell’atto impugNOME.
Il ricorrente si duole del malgoverno della disciplina di cui all’art. 303 co 1 lett. d) cod. proc. pen., a fronte della conferma dell’ordinanza con la quale la Corte di Appello di Reggio Calabria aveva rigettato la richiesta di declaratoria di inefficacia della custodia cautelare in carcere per decorso del termine di fase.
La tesi del ricorrente, secondo il quale, nonostante la pronuncia di conforme sentenza di condanna in appello, continuerebbe ad operare il termine di cui all’art. 303 lett. d) cod. proc. pen., è manifestamente infondata.
Per contro, con motivazione corretta in punto di diritto ed assolutamente congrua, il – tribunale del riesame ha ritenuto che i termini di custodia cautelare cui deve farsi riferimento sono, ai sensi dell’art. 303 cod. proc. pen., comma 1, lett. d), seconda parte, quelli stabiliti per la durata massima delle misure cautelari dal quarto comma dello stesso articolo, e non invece quelli di fase rapportati alla pena in concreto irrogata, secondo l’assunto del ricorrente. Con conseguente conferma del diniego della declaratoria di inefficacia per decorrenza dei termini dell’ordi nanza cautelare custodiale.
Il provvedimento impugNOME opera un buon governo dei principi affermati oltre che nelle pronunce richiamate (che paiono pertinenti), e ricordate in premessa da:
Sez. 2, n. 16752 del 21/12/2020, dep. 2021 (relativa ad una questione assimilabile a quella in esame, per come prospettata dalla difesa, sfociata in declaratoria di inammissibilità del ricorso), secondo cui: «I termini di custodia cautelare da applicare in caso di conferma in appello della condanna di primo grado sono quelli complessivi di cui all’art. 303, comma 4, cod. proc. pen., per il cui computo deve farsi riferimento alla pena edittale prevista per il reato ritenuto in sentenza e non a quella irrogata in concreto con la medesima».
Nella condivisibile motivazione di tale sentenza si ricorda «l’assolutamente pacifico orientamento della Corte di cassazione, che ha chiarito che i termini di
custodia cautelare da applicare in caso di conferma in appello della condanna di primo grado sono quelli complessivi di cui all’art. 303 cod. proc. pen., comma 4, per il cui computo deve farsi riferimento alla pena edittale prevista per il reat ritenuto in sentenza e non a quella irrogata in concreto con la medesima”, (Sez. 6, Sentenza n. 27408 del 16/06/2010, COGNOME Rv. 247779 – 01). E’ irrilevante, dunque, la misura della pena inflitta in concreto all’imputato, poiché , l’art. 303 comma 4, cod. proc. pen., fa un chiaro riferimento alla pena stabilita dalla legge, modulando sull’entità della sanzione astratta la durata massima della misura (Sez. 5, n. 21028 del 27/03/2013, COGNOME, Rv. 255482; Sez. 6, n. 27408 del 16/06/2010, COGNOME, Rv. 247779; più di recente v., ad es., Sez. 4, n. 18715 del 19/04/2018, COGNOME, n. m. nonché Sez. 1, n. 1123 del 05/10/2016, dep. 2017, COGNOME, n. m.) – così, in motivazione, Sez. 2, n. 18558 del 20.2.2020, COGNOME, non massimata».
Sez. 4, n. 27747 del 14/05/2014 ove si spiega la ragione di quanto testualmente prevede il disposto della norma in esame, con riguardo all’ipotesi di c.d. doppia conforme (che prescinde dalla sovrapponibilità delle statuizioni relative alla pena) e cioè che: «Al riguardo è stato condivisibilmente affermato che qualora, come nel caso di specie “in relazione ad un autonomo capo di imputazione vi sia stata condanna sia in primo che in secondo grado, il relativo titolo cautelare vedrà avvalorata la prognosi di futura trasformazione di esso in titolo definitivo di ese cuzione della pena, donde è giustificato il passaggio alla più severa disciplina di durata della custodia cautelare prevista dall’art. 303 cod. proc. pen., comma 1, lett. d), nella parte in cui fa espresso rinvio all’art. 303 cod. proc. pen., comm 4». Con l’ulteriore precisazione che: «la ratio della norma qui contestata, che è quella di spostare il punto di equilibrio tra le esigenze di tutela sociale e quelle tutela della libertà individuale a favore delle prime, allorquando il principio di no colpevolezza sia attenuato in esito ad una duplice pronuncia di condanna, in due successivi gradi di giudizio, sul fatto costituente oggetto del medesimo titolo custodiale» (Sez. 4, n. 13172 del 05/02/2008, Rv. 239599, conf. Sez. 6, n. 27175 del 21/06/2011 Rv. 25073).
Sez. 2 n. 139 del 16/10/2013, nella cui motivazione si legge: «Per il giudizio di appello e di cassazione il termine di fase è invece diversificato in ragione della pena in concreto irrogata, ad eccezione delle ipotesi di condanna in primo grado confermata in appello (c.d. doppia conforme) o di ricorso per cassazione proposto esclusivamente dal pubblico ministero, in cui (art. 303, comma 1, lett. D) ultimo i periodo) si applica il termine di durata massima complessivo di cui all’art. 303 cod. proc. pen., comma 4, che fa riferimento nuovamente alla pena edittale».
Sez. 4, n. 5424 del 02/12/2022, dep. 2023, Cikantuono, non mass. che risulta di particolare interesse, poiché esplica ulteriormente -a confutazione della diversa prospettazione del ricorrente- l’interpretazione della prima parte della norma in esame, concernente l’ipotesi in cui la condanna sia intervenuta solo in grado di appello, dalla seconda parte della stessa (che inizia con la congiunzione “Tuttavia”), relativa all’ipotesi -quale quella in esame- di c.d. doppia conforme.
In tale prospettiva sembra utile riportare la motivazione di tale pronuncia che il Collegio condivide: « 2. E pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, ch nel caso di condanna in grado di appello, anche qualora sia stata ridotta la pena comminata in primo grado, i termini di custodia cautelare cui deve farsi riferimento sono quelli stabiliti per la durata massima delle misure cautelari dall’art. 303 01. 1,L3 GLYPH 3.( GLYPH . comma 4′ e nornnveCe quelli di fase rapportati alla pena in concreto -irrogata (cfr. Sez. 6, n. 29554 del 03/04/2014, Rv. 259814 – 01).
A fronte di tale pacifico orientamento, peraltro corrispondente ad una logica e piana interpretazione del dato testuale di cui alla norma in riferimento, non si può sostenere – come osservato dalla difesa ricorrente – che tale interpretazione renderebbe inapplicabile la disposizione invocata.
Invero, la prima parte della disposizione di cui alla lett. d) dell’art. 303 cod proc. pen. fa riferimento al caso in cui la condanna (per uno o più delitti) sia in tervenuta solo in grado di appello, con contestuale esecuzione della misura. Del resto, non può escludersi la teorica possibilità di una misura cautelare disposta successivamente alla sentenza di assoluzione di primo grado, in caso di emersione di nuovi elementi gravemente indiziari nei confronti di un imputato mai sottoposto in precedenza a misura cautelare, cui faccia seguito il ribaltamento in condanna della sentenza di appello: situazione che ricadrebbe pienamente nella previsione di cui alla norma invocata dalla difesa. Infatti, l’art. 300 cod. proc. pen., comma 5, nel prevedere la possibilità che l’imputato prosciolto o nei confronti del quale sia stata emessa sentenza di non luogo a procedere sia sottoposto, in caso di successiva condanna, a misure coercitive, non preclude affatto la possibilità che tali misure vengano disposte anche in assenza di detta condanna, quando trattisi di soggetto al quale esse non siano mai state applicate in precedenza per lo stesso fatto (cfr. Sez. 1, n. 7266 del 20/12/1999 – dep. 2000, Rv. 214963 – 01).
In ogni caso, è pacifico che la seconda parte della norma in disamina esclude l’applicabilità del termine di fase in caso di condanna intervenuta in primo grado, pur se parzialmente riformata in appello in punto di pena, posto che la detta disciplina fa esclusivo riferimento alla intervenuta “condanna” e non alla misura della pena irrogata. Ne consegue che nella specie, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, ci si trova di fronte ad una cd. “doppia conforme” di condanna,
cosicché non può operare il termine di fase previsto dalla prima parte dell’art. 303 cod. proc. pen., lett. d)».
Infine, manifestamente infondata è anche la tesi prospettata dal ricorrente, che ritiene che la seconda parte della norma, nel richiamare l’applicazione esclusiva del comma 4, farebbe riferimento all’impossibilità dell’aumento dei termini fino a sei mesi di cui alla disposizione della lettera b) n. 3 bis dell’art. 3 cod. proc. pen. -e, quindi, a maggior ragione all’operatività nel caso in esame del principio generale di cui all’art. 303 lett. d) cod. proc. pen., senza nemmeno l’istituto eccezionale del c.d. termine supplementare.
Tale convincimento presta il fianco ai seguenti rilievi:
1. La lettera della norma fa “salve le ipotesi di cui alla lettera b) numero 3 bis)”, in tal modo richiamando un meccanismo di durata dei termini cautelari di fase e dei relativi calcoli, come tale operante anche nella fase dell’appello; per poi subito dopo precisare che, “tuttavia” se vi è stata condanna in primo grado -ovvero l’ipotesi della c.d. doppia conforme- si applica “soltanto” la disposizione del comma 4, ovvero il parametro della “durata complessiva” e non già del termine di fase.
E’ stato precisato, con riferimento a tale ultima ipotesi, che, in caso di applicazione del solo termine massimo complessivo di cui all’art. 303 co. 4 cod. proc. pen., la riduzione dei termini di cui all’art. 303 lett. d) non opera nell’ipote di c.d. doppia conforme (Sez. 1 n. 23895/2010; nonché Sez. 2 n. 41180 del 26/09/2013, n.41180, secondo cui: “In tema di durata massima della custodia cautelare, l’ulteriore termine di sei mesi, previsto dall’art. 303 comma 1 lett. b) n. 3 bis cod. proc. pen. per i reati di cui all’art. 407 comma 2 lett. a) stesso codice, qualora non utilizzato completamente dal giudice di primo grado, non può essere utilizzato per il periodo compreso tra la sentenza di primo grado e quella d’appello”; con l’ulteriore precisazione che “E’ di tutta evidenza che tale aggiunta non comporta, in realtà, un maggiore aggravio per la complessiva custodia cautelare, in quanto l’eventuale plus di custodia durante la fase del dibattimento di primo grado sarà compensato o da una minore durata nella fase precedente (indagini preliminari e udienza preliminare) ovvero da una minor durata in pendenza del giudizio di cassazione”).
Di recente Sez. 2, n.45960 del 13/10/2022, dopo aver richiamato la pronuncia n. 41180 del 26/09/2013, Rv. 257071 di cui sopra, ha condivisibilmente precisato: «Posto che ai sensi dell’art. 303 cod. proc. pen., comma 4, il termine massimo complessivo non può essere superato, è stato quindi elaborato un particolare meccanismo di applicazione di quel termine aggiuntivo, caratterizzato da una peculiare flessibilità osmotica (ancorché unidirezionale), nel senso dell’utilizzazione dell’eventuale frazione residua del termine della fase precedente, ove non
interamente utilizzato, ovvero dell’imputazione del tempo necessario ai termini di fase relativi al giudizio di cassazione, per intero o per la frazione necessaria, con conseguente contrazione proporzionale della relativa durata. Il che significa che “spalmando” il termine aggiuntivo, sino a sei mesi, su fasi diverse, utilizzandone l’eventuale eccedenza ovvero imputandone l’intero o quanto necessario al termine di una fase successiva, il giudice del dibattimento può disporre di un ulteriore periodo di sei mesi, senza che perda efficacia la misura cautelare, nel rigoroso rispetto del termine complessivo indicato all’art. 303 cod. proc. pen., comma 4, che rappresenta il limite invalicabile. Ne consegue che tale termine di sei mesi non comporta, in realtà, alcun aggravio per la complessiva custodia cautelare, in quanto l’eventuale prolungamento della custodia nella fase del dibattimento di primo grado sarà compensato o da una minore durata nella fase precedente delle indagini preliminari, ovvero da una minor durata in pendenza del giudizio di cassazione».
Essendo il ricorso inammissibile e, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo
Vanno dati gli avvisi di cui all’art. 94 c. 1 ter disp. att. cod. proc. pen.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma 1-ter disp. att. cod. proc. pen.
Così deciso un Roma il 14 febbraio 2024
Il C 1 6ìisigliere estensore
Il Presidente