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Tentato omicidio: la Cassazione chiarisce i limiti

Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 25804 del 2025, affronta la distinzione tra tentato omicidio e lesioni personali aggravate. Il caso analizzato riguarda un accoltellamento durante una lite. La Corte ha ribadito che, per configurare il tentato omicidio, è decisivo l’animus necandi, ovvero l’intenzione di uccidere, desumibile da elementi oggettivi come la natura dell’arma, la parte del corpo attinta e la violenza del colpo. La sentenza sottolinea l’importanza di questi indicatori per una corretta qualificazione giuridica del fatto.

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Pubblicato il 25 settembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Tentato omicidio o lesioni? La Cassazione traccia la linea di confine

Una recente pronuncia della Corte di Cassazione, la sentenza n. 25804 del 2025, offre un’analisi cruciale sulla differenza tra il delitto di tentato omicidio e quello di lesioni personali aggravate. Comprendere questa distinzione è fondamentale, poiché le conseguenze penali per l’imputato cambiano radicalmente. La decisione si concentra sull’interpretazione della volontà omicida (il cosiddetto animus necandi) basandosi su elementi oggettivi e concreti dell’azione criminale.

I fatti alla base della decisione

Il caso esaminato dalla Suprema Corte trae origine da un violento alterco tra due individui, culminato nell’accoltellamento di uno dei due. La vittima, pur riportando gravi ferite, era riuscita a sopravvivere grazie a un tempestivo intervento medico. Nei gradi di merito, il dibattito si era incentrato sulla corretta qualificazione giuridica del fatto: si trattava di un’aggressione finalizzata a ferire gravemente (lesioni aggravate) o di un vero e proprio tentativo di porre fine alla vita della vittima (tentato omicidio)? La difesa dell’imputato sosteneva la prima ipotesi, evidenziando la mancata morte della persona offesa come prova dell’assenza di una reale intenzione di uccidere.

Il criterio distintivo nel tentato omicidio

La Corte di Cassazione ha rigettato la tesi difensiva, chiarendo quali siano gli elementi da valutare per accertare la sussistenza del tentato omicidio. Secondo i giudici, non è necessario che l’evento morte si verifichi, ma è sufficiente che l’azione compiuta fosse oggettivamente idonea a provocarlo e che l’agente avesse la volontà di cagionarlo.

Gli indicatori oggettivi dell’intenzione

Per stabilire se l’aggressore avesse o meno l’intenzione di uccidere (animus necandi), la Corte ha indicato una serie di criteri oggettivi e fattuali da analizzare:

* La natura dell’arma utilizzata: L’impiego di un’arma con un’elevata capacità lesiva, come un coltello a lama lunga, è un primo indizio.
* La zona del corpo attinta: Colpire aree del corpo notoriamente vitali (come il torace, l’addome o il collo) è un elemento fortemente indicativo della volontà omicida.
* La violenza e la reiterazione dei colpi: La forza impressa nel fendente e il numero di colpi inferti possono dimostrare una determinazione che va oltre la semplice volontà di ferire.

Nel caso di specie, l’aggressore aveva sferrato un unico ma profondo colpo all’addome, una zona che ospita organi vitali. Questo, secondo la Corte, è stato sufficiente a dimostrare un’azione idonea e diretta in modo non equivoco a causare la morte.

Le motivazioni della Corte di Cassazione

Nelle motivazioni, la Corte ha spiegato che la distinzione tra i due reati risiede nell’elemento psicologico del reo, il quale deve essere accertato attraverso un rigoroso esame degli elementi esterni dell’azione. L’evento della mancata morte non esclude di per sé il tentato omicidio, ma può dipendere da fattori esterni e indipendenti dalla volontà dell’aggressore, come la reazione della vittima o la rapidità dei soccorsi. La Corte ha quindi affermato che l’idoneità dell’azione deve essere valutata ex ante, cioè sulla base delle circostanze esistenti al momento del fatto, senza farsi condizionare dall’esito finale. L’aver diretto un colpo potenzialmente letale verso una zona vitale del corpo integra, secondo un criterio di normale prevedibilità, un’azione finalizzata a uccidere.

Le conclusioni

In conclusione, la sentenza n. 25804/2025 ribadisce un principio consolidato nella giurisprudenza penale: per configurare il delitto di tentato omicidio, è necessario provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, non solo che l’azione fosse materialmente idonea a uccidere, ma anche che l’agente avesse la specifica intenzione di farlo. Tale prova non deve basarsi su mere congetture, ma su indicatori fattuali e oggettivi che, nel loro complesso, rivelino in modo inequivocabile la volontà omicida. Questa decisione fornisce un’importante guida per gli operatori del diritto, sottolineando la necessità di un’analisi attenta e circostanziata in casi di aggressioni violente.

Come si distingue il tentato omicidio dalle lesioni aggravate?
La distinzione si basa sull’elemento psicologico dell’aggressore, ovvero l’intenzione di uccidere (animus necandi). Per il tentato omicidio, l’azione deve essere non solo idonea a causare la morte, ma anche accompagnata dalla volontà di provocarla, desumibile da elementi oggettivi.

Quali elementi oggettivi indicano l’intenzione di uccidere?
Secondo la Cassazione, gli elementi principali sono: la tipologia di arma utilizzata (la sua potenzialità letale), la parte del corpo colpita (se vitale o meno) e l’intensità o la ripetizione dei colpi inferti.

La sopravvivenza della vittima esclude automaticamente il tentato omicidio?
No, la sopravvivenza della vittima non esclude il reato. Se l’azione era idonea a uccidere e l’intenzione omicida è provata, il reato di tentato omicidio sussiste. L’esito non letale può dipendere da fattori indipendenti dalla volontà dell’aggressore, come un errore di mira o un soccorso tempestivo.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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