Sentenza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 6010 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 2 Num. 6010 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 05/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato il DATA_NASCITA a MONTENERO DI BISACCIA avverso la sentenza in data 24/02/2023 della CORTE DI APPELLO DI L’AQUILA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME;
letta la requisitoria del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME, che ha concluso per il rigetto del ricorso; letta la nota dell’AVV_NOTAIO, che ha replicato alla requisitoria della Procuratore generale e ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
COGNOME NOME impugna la sentenza in data 24/02/2023 della Corte di appello di L’Aquila, che ha confermato la sentenza in data 19/04/2019 del Tribunale di Pescara, che lo aveva condannato per il reato di cui all’art. 707 cod. proc. pen..
Deduce:
Violazione di legge in relazione all’art. 601, comma 5, cod. proc. pen..
Il ricorrente premette che con le conclusioni rassegnate nel processo cartolare aveva eccepito il mancato rispetto del termine di cui all’art. 601, comma 5, cod. proc. pen., visto che il decreto di citazione nel giudizio di appello era stato notificato al difensore a mezzo EMAIL senza che venissero rispettati i quaranta giorni liberi prima dell’udienza previsti dalla norma.
Denuncia l’omessa risposta alla deduzione difensiva e la nullità della sentenza impugnata.
Violazione di legge con riferimento agli artt. 125 e 545-bis cod. proc. pen..
Anche in questo caso il ricorrente premette di avere chiesto con le conclusioni la conversione della pena con una delle sanzioni sostitutive previste dalla legge.
Denuncia l’omessa risposta anche su tale istanza.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è infondato.
1.1. La questione sottesa al motivo di ricorso impinge il tema della individuazione della norma applicabile in relazione alle impugnazioni quando vi sia stata una successione di norme processuali senza che nulla sia stato disposto quanto al regime intertemporale.
Va rilevato che, nel caso in esame, la sentenza di primo grado è stata pronunciata il 19/04/2019 dal Tribunale di Pescara e che l’appello è stato presentato il 30/04/2019: entrambi gli atti, dunque, sono stati compiuti in data anteriore all’entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia, vigente dal 10 gennaio 2023).
Il 19/01/2023 -dopo l’entrata in vigore della c.d. riforma Cartabia- la Corte di appello emetteva il decreto di citazione a giudizio.
Tale decreto veniva notificato nel rispetto del termine a comparire fissato dall’art. 601, comma 5, cod. proc. pen. nella formulazione vigente fino al 31/12/2022 (ossia venti giorni), ma non nel rispetto del termine fissato dalla stessa norma, così come riformulata dall’art. 34 del decreto legislativo 10 ottobre 2022 (ossia quaranta giorni).
Il ricorrente sostiene che quest’ultima norma sia quella applicabile al caso in esame, in forza del principio tempus regit actum, in quanto quella era la norma vigente al tempo dell’emissione del decreto di citazione nel giudizio in appello.
L’assunto difensivo è infondato.
1.1.1. La questione coinvolge la questione relativa alla sussistenza o meno di una norma transitoria che disciplini l’entrata in vigore della nuova formulazione dell’art. 601 cod. proc. pen. nella parte in cui raddoppia i c.d. termini a comparire e, in particolare, se il novellato art. 94, comma 2, decreto legislativo n. 150 del 2022 sia riferibile anche agli atti preliminari al giudizio di cui all’art. 601 cod. pro pen..
In realtà la questione è già stata affrontata dalle Sezioni Unite di questa Corte che, sciogliendo analogo problema interpretativo sorto in relazione al tempo
di applicabilità dell’art. 573, comma 1-bis, cod. proc. pen. e con specifico riguardo all’interazione tra entrata in vigore della cd. riforma Cartabia, testo delle sue norme transitorie e loro interazione con l’art. 601 cod. proc. pen., ha puntualizzato che «Non pare infine ostativo alla conclusione qui prescelta neppure l’art. 34, comma 1, lett. g), del d.lgs. n. 150 del 2022, con cui si è eliminato, nell’art. 601, comma 1, cod. proc. pen., l’obbligo, per il presidente del collegio, di ordinare la citazione dell’imputato non appellante quando l’appello sia proposto per i soli interessi civili (…); se infatti ritenga che, anche con riguardo ad essa, difetti una specifica norma transitoria ove si reputi inapplicabile l’art. 94 d.lgs. n. 150 del 2022, (che avrebbe infatti prorogato, per le impugnazioni proposte entro il 30 giugno 2023, l’applicazione delle norme “emergenziali” Covid con stretto riferimento alla sola disciplina dell’udienza camerale cartolare), dovrebbe anche per essa, proprio in quanto collegata al nuovo comma 1-bis, operare il medesimo momento temporale di delimitazione rappresentato dall’atto di costituzione di parte civile», (così, in motivazione, Sezioni Unite, Sentenza n. n. 38481 del 25/05/2023).
Tanto induce il Collegio a discostarsi dalle diverse conclusioni raggiunte dalla sentenza di questa Corte n. 49644 del 2/11/2023 (Sez. 2, COGNOME, non massi mata).
Con riferimento alle modalità di svolgimento può quindi affermarsi che la Riforma prevede che il giudizio d’appello sia di regola trattato con rito camerale non partecipato, sul modello di quanto è avvenuto per effetto della disciplina introdotta nel 2020 per fronteggiare l’emergenza pandemica.
In relazione agli atti preliminari al giudizio, invece, difetta una norma transitoria, così che, per risolvere la questione posta all’attenzione, si dovrà fare applicazione del principio tempus regit actum e, a tale riguardo, occorre fare riferimento a quanto chiarito dalle Sezioni Unite con la sentenza c.d. Lista (Sez. U, Sentenza n. 27614 del 29/03/2007, Rv. 236537 – 01), che ha precisato che «Ai fini dell’individuazione del regime applicabile in materia di impugnazioni, allorché si succedano nel tempo diverse discipline e non sia espressamente regolato, con disposizioni transitorie, il passaggio dall’una all’altra, l’applicazione del principi “tempus regit actum” impone di far riferimento al momento di emissione del provvedimento impugnato e non già a quello della proposizione dell’impugnazione».
Nell’affermare questo principio di diritto, le Sezioni Unite si sono soffermate sulla nozione di “atto” cui fare riferimento per l’individuazione della disciplina applicabile, e hanno osservato che la corretta applicazione del principio tempus regit actum «impone la esatta individuazione dell’actus, che va focalizzato ed isolato, sì da cristallizzare la disciplina giuridica ad esso riferibile. Per actus non può intendersi l’intero processo, che è concatenazione di atti -e di fasi- tutti tra loro legati da
perseguimento del fine ultimo di accertamento definitivo dei fatti; una tale identificazione comporterebbe la conseguenza che il processo “continuerebbe ad essere regolato sempre e soltanto dalle norme vigenti al momento della sua instaurazione”, il che contrasterebbe con l’immediata operatività del novum prescritta dall’art. 11 preleggi, comma 1. Il concetto di atto deve essere rapportato, come incisivamente precisato in dottrina, “allo stesso grado di atomizzazione che presentano le concrete e specifiche vicende disciplinate dalla norma processuale coinvolta nella successione”. L’atto cioè va considerato nel suo porsi in termini di “autonomia” rispetto agli altri atti dello stesso processo.
Non può, inoltre, avallarsi, ai fini che qui interessano, una nozione indifferenziata di “atto” processuale, poiché deve aversi riguardo anche alle “dimensioni temporali” del medesimo, per modulare correttamente il parametro intertemporale e stabilire se sia applicabile il vecchio o il nuovo regime. È necessario distinguere tra varie specie di atti: quello con effetti istantanei “che si esaurisce senza residui nel suo puntuale compimento” e ha, per così dire, una funzione “autoreferenziale”; quello che, pur essendo di esecuzione istantanea, presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga ed è strettamente ancorato ad altro atto che lo legittima e che finisce con l’assumere rilievo centrale; quello che ha “carattere strumentale e preparatorio” rispetto ad una successiva attività del procedimento, con la quale va a integrarsi e completarsi in uno spazio temporale anch’esso più o meno ampio, dando luogo ad una fattispecie processuale complessa. La regola tempus regit actum non può non tenere conto della variegata tipologia degli atti processuali e va modulata in relazione alla differente situazione sulla quale questi incidono e che occorre di volta in volta governare. […1.
Altro problema, infatti, che la disciplina intertemporale applicabile alle impugnazioni pone e che va approfondito è l’individuazione del momento dal quale la lex superveniens governa l’impugnazione.
Quantunque sia unanime l’opinione che al principio tempus regit actum debba farsi ricorso per stabilire, in assenza di disposizioni transitorie, quale disciplina applicare in caso di successione di leggi in materia di impugnazione, si discute, invece, sull’individuazione dell’actus al quale fare in concreto riferimento per l’individuazione di tale disciplina. Sul punto, la giurisprudenza di legittimità non è concorde, nel senso che alcune decisioni fanno coincidere tale momento con quello di presentazione dell’impugnazione (Cass. sez. 4″ 17/11/2004 n. 3484/2005; sez. 5^ 12/3/2004 n. 15596; sez. 4^ 4/12/2003 n. 4860/2005; sez. 3^ 13/3/2002 n. 20769; sez. 3^ 18/12/2000 n. 8340/2001; sez. 6^ 3/7/2000 n. 3058; sez. 6^ 10/4/2000 n. 5558; sez. 5^ 19/5/2000 n. 7329), altre con quello della pronuncia della sentenza (Cass. sez. 5^ 22/9/2003 n. 45094; sez. 3^ 28/5/2001 n. 30541; sez. 5^ 11/1/2007 n. 11659). . Ritengono le Sezioni Unite di privilegiare il
secondo indirizzo ermeneutico. La formula tempus regit actum, se intesa nel suo significato letterale, riferita cioè alla legge del tempo in cui l’atto, isolatamente considerato, è compiuto (nella specie, presentazione dell’impugnazione), conduce ad esiti irragionevoli. Si pensi al caso in cui, in pendenza del termine per impugnare e in prossimità della sua scadenza, una nuova legge abroghi il grado di appello, mantenendo il ricorso per cassazione: l’imputato (o altra parte) può venirsi a trovare in grave difficoltà nella predisposizione del mezzo di gravame appropriato, può determinarsi una dissimmetria tra le posizioni, sostanzialmente analoghe, di due imputati (o di altre parti); si immagini ancora il caso, assolutamente emblematico, di due soggetti in identica posizione processuale che maturano nella stessa data il termine, di medesima durata, per impugnare la sentenza: l’uno deposita l’impugnazione diversi giorni prima della scadenza e nel vigore della legge che la consente, l’altro attende gli ultimi giorni per proporla ma, essendo nel frattempo intervenuta la norma che abroga tale facoltà, la relativa domanda non può sfuggire alla sanzione. . Per ovviare agli inconvenienti cui innanzi si è fatto cenno, il regime delle impugnazioni va ancorato, in base alla regola intertemporale di cui all’art. 11 delle preleggi, non alla disciplina vigente al momento della loro presentazione ma a quella in essere all’atto della pronuncia della sentenza, posto che è in rapporto a quest’ultimo actus e al tempus del suo perfezionamento che vanno valutati la facoltà di impugnazione, la sua estensione, i modi e i termini per esercitarla.
Non è fuori luogo fare richiamo, al riguardo, all’esigenza di tutela dell’affidamento maturato dalla parte “in relazione alla fissità del quadro normativo”. L’affidamento, come valore essenziale della giurisdizione, che va ad integrarsi con l’altro – di rango costituzionale – della “parità delle armi”, soddisfa l’esigenza di assicurare ai protagonisti del processo la certezza delle regole processuali e dei diritti eventualmente già maturati, senza il timore che tali diritti, pur non ancora esercitati, subiscano l’incidenza di mutamenti legislativi improvvisi e non sempre coerenti col sistema, che vanno a depauperare o a disarticolare posizioni processuali già acquisite. “La certezza dei rapporti preteriti costituisce un indubbio cardine della civile convivenza e della tranquillità dei cittadini” (C. Cost. sent n. 155/1990). Il potere d’impugnazione trova la sua genesi proprio nella sentenza e non può che essere apprezzato in relazione al momento in cui questa viene pronunciata, con la conseguenza che è al regime regolatore vigente in tale momento che deve farsi riferimento, regime che rimane insensibile a eventuali interventi normativi successivi, non potendo la nuova legge processuale travolgere quegli effetti dell’atto che si sono già prodotti prima dell’entrata in vigore della medesima legge, nè regolare diversamente gli effetti futuri dell’atto (cfr. in senso conforme Cass. S.U. civili sent. 20/12/2006 n. 27172; S.U. penali sentenze 27/3/2002 n. 16101 e
o
n. NUMERO_DOCUMENTO, …)».
Alla luce di tale traccia ermeneutica, nel caso in esame, non può che giungersi alla conclusione che la disciplina applicabile era quello previgente rispetto alla c.d. riforma Cartabia, ossia l’art. 601, comma 5, cod. proc. pen. nella formulazione che fissava il termine a comparire in venti giorni, visto che sia la pronuncia della sentenza impugnata, sia la presentazione dell’atto di appello si concretizzavano sotto l’egida di quella norma.
Tanto in coerenza con la considerazione che il decreto di citazione a giudizio non ha autonoma rilevanza, ma rappresenta un mero atto esecutivo, strettamente ancorato ad altro atto, posto a monte di esso (ossia, la sentenza di primo grado come espressamente stabilito dalle cit. SSUU Lista), che lo legittima e che ha rilievo centrale ai fini dell’individuazione del regime applicabile, che deve essere già individuato nel momento in cui il Presidente della Corte di appello ordina la citazione dell’imputato e dispone che venga dato avviso ai difensori.
Da qui il rigetto del primo motivo di ricorso.
2. Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.
Il ricorrente fa presente che con le conclusioni chiedeva alla Corte di appello di disporre la conversione della pena con una sanzione sostitutiva prevista ex lege; si duole della mancanza di alcuna motivazione a tale riguardo.
L’istanza, in effetti, non può considerarsi intempestiva, avendo questa Corte già chiarito che «In tema di pene sostitutive, ai sensi della disciplina transitoria contenuta nell’art. 95 d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all’applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all’art. 20-bis cod. pen., è necessaria una richiesta in tal senso dell’imputato, da formulare non necessariamente con l’atto di gravame, ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell’udienza di discussione in appello», (Sez. 6 – , Sentenza n. 33027 del 10/05/2023, NOME, Rv. 285090 – 01).
Va ricordato che secondo la giurisprudenza di questa Corte sviluppatasi nel previgente regime normativo, questa Corte ha precisato che «La sostituzione delle pene detentive brevi è rimessa ad una valutazione discrezionale del giudice, che deve essere condotta con l’osservanza dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., prendendo in esame, tra l’altro, le modalità del fatto per il quale è intervenuta condanna e la personalità del condannato» (ex multis, Sez. 3, n. 19326 del 27/01/2015, Pritoni, Rv. 263558 – 01). Tale principio è trasferibile anche alle nuove “pene sostitutive”, atteso che la disciplina normativa introdotta continua a subordinare la sostituzione a una valutazione giudiziale ancorata ai parametri di cui al cit. art. 133 cod. pen..
Più in particolare, è stato precisato che «La valutazione della sussistenza dei presupposti per l’adozione di una sanzione sostitutiva è legata agli stessi criteri previsti dalla legge per la determinazione della pena, e quindi il giudizio prognostico positivo cui è subordinata la possibilità della sostituzione non può prescindere dal riferimento agli indici individuati dall’art. 133 cod. pen. (Fattispecie nella quale si è ritenuto che il giudice può negare la sostituzione della pena anche soltanto perché i precedenti penali rendono il reo immeritevole del beneficio, senza dovere addurre ulteriori e più analitiche ragioni)», (Sez. 2, Sentenza n. 25085 del 18/06/2010, Amato, Rv. 247853 – 01).
A fronte di ciò, la presenza di un totale di 81 provvedimenti presenti nel certificato del Casellario giudiziario, di cui circa sessanta sentenze di condanna oltre ad alcune ordinanze pronunciate in sede di incidente di esecuzione e a taluni provvedimenti di provvedimenti di cumulo delle pene inflitte- l’obbligo di motivazione della Corte di appello poteva dirsi attivato soltanto in presenza di una maggiore specificità dell’istanza, utile a risaltare la presenza di elementi capaci di giustificare un giudizio prognostico favorevole.
Specificità mancante nel caso in esame.
Infine, va rilevato come il reato non sia prescritto, in ragione della sospensione della prescrizione per un periodo di diciotto mesi, decorrente dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio.
Quanto esposto porta al rigetto del ricorso e alla condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in data 05/12/2023 Il Consigliere est. COGNOME Il Presiden