Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 17250 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 17250 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 25/03/2025
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
PROCURATORE GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO CORTE D’APPELLO DI GENOVA D’APPELLO DI
nel procedimento a carico di:
NOME (CUI CODICE_FISCALE nato il 16/10/1998
CONSTANTIN PETRISOR (CUI 06PHRVQ) nato il 02/04/2004
NOME (CUI 06TV48G) nato il 18/08/2000
avverso l’ordinanza del 23/12/2024 della CORTE D’APPELLO di GENOVA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso; letta la memoria del difensore dell’imputato, avv. NOME COGNOME il quale ha chiesto la declaratoria di inammissibilità e/o il rigetto del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
e. 1.Con la sintaltegua- impugnata, la Corte d’Appello di Genova dichiarava inammissibile l’appello proposto dal Procuratore Generale contro la sentenza di primo grado che aveva dichiarato non punibili gli imputati ai sensi dell’art. 131bis cod. pen.
Avverso la richiamata ordinanza il Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Genova ha proposto ricorso per cassazione deducendo due motivi.
2.1. Con il primo ha denunciato il contrasto della disposizione espressa dall’attuale art. 593, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen. – per la quale «Il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2» – introdotta dall’art. 2, comma 1 lett. p), della legge 9 agosto 2024, n. 114, entrata in vigore il 25 agosto 2024, con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.
A fondamento del ricorso il Procuratore Generale ha posto il rilievo che il legislatore non ha tenuto conto, precludendo l’impugnazione del pubblico ministero per tutte le sentenze di proscioglimento nell’ambito dei reati c.d. a citazione diretta, alcuni dei quali non possono ritenersi “bagattellari”, delle indicazioni derivanti dalla giurisprudenza costituzionale e, in particolare, dalla sentenza n. 26 del 2007, dichiarativa dell’illegittimità dell’art. 593 cod. proc pen., come modificato dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, laddove non consentiva più al Pubblico Ministero di appellare le sentenze di proscioglimento se non nelle ipotesi di cui all’art. 603, comma 2, cod. proc. pen.
Se, infatti, il principio della parità delle armi non comporta un’assoluta simmetria del potere delle parti del processo penale di impugnare, tuttavia il potere di impugnare del pubblico ministero non può essere compresso eccessivamente sino a svuotarlo di contenuto.
2.2. Mediante il secondo motivo ha lamentato erronea applicazione dell’art. 568, comma 5, cod. proc. pen. per omessa riqualificazione del gravame proposto in ricorso immediato per cassazione, in applicazione delle regole espresse dalle Sezioni Unite nella pronuncia “COGNOME“.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1.Le questioni sottese al primo motivo di ricorso del Procuratore Generale sottendono delicate problematiche di compatibilità tra il regime delle sentenze di proscioglimento emesse nei giudizi relativi ai reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2, cod. proc. pen. e alcuni parametri costituzionali, in forza dei principi ritraibi dalla stessa giurisprudenza costituzionale di riferimento.
1.1. Occorre premettere, al riguardo, che la legge 9 agosto 2024, n. 114, entrata in vigore il 25 agosto 2024, ha previsto, intervenendo sull’art. 593, comma 2, secondo periodo, cod. proc. pen., che «Il pubblico ministero non può appellare contro le sentenze di proscioglimento per i reati di cui all’articolo 550, commi 1 e 2».
Come noto, i reati cui fa riferimento la disposizione oggetto della novella normativa sono quelli per i quali il Pubblico Ministero può provvedere direttamente alla citazione in giudizio dell’indagato, ovvero quelli che non devono essere sottoposti al vaglio del Giudice dell’udienza preliminare.
Nell’ambito di tali reati rientrano, in virtù della previsione del primo comma, le contravvenzioni o i delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni o con la multa, sola o congiunta alla suddetta pena detentiva.
Tra i reati c.d. a citazione diretta sono inoltre contemplati, dal secondo comma, quelli previsti «dagli articoli 336, 337, 337 bis, primo e secondo comma, 340, terzo comma, 343, secondo comma, 348, terzo comma, 349, secondo comma, 351, 372, 374 bis, 377, terzo comma, 377 bis, 385, secondo comma, con esclusione delle ipotesi in cui la violenza o la minaccia siano state commesse con armi o da più persone riunite, 390, 414, 415, 454, 460, 461, 467, 468, 493 ter, 495, 495 ter, 496, 497 bis, 497 ter, 527, secondo comma, 556, 588, secondo comma, con esclusione delle ipotesi in cui nella rissa taluno sia rimasto ucciso o abbia riportato lesioni gravi o gravissime, 590 bis, 611, 614, quarto comma, 615, primo comma, 619, secondo comma, 625, 635, terzo e quarto comma, 640, secondo comma, 642, primo e secondo comma, 646 e 648 del Codice Penale, quando si procede per i reati previsti: a) dall’articolo 291-bis del testo unico delle disposizioni legislati in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43; b) dagli articoli 4, quarto comma, 10, terzo comma, e 12, quinto comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110; c) dagli articoli 82, comma 1, del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati d tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre
1990, n. 309; d) dagli articoli 75, comma 2, 75-bis e 76, commi 1, 5, 7 e 8, del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, di cui al decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159; e) dall’articolo 55 quinquies, comma 1, del decreto legislativo del 30 marzo 2001, n. 165; f) dagli articoli 5, comma 8bis, 10, comma 2-quater, 13, comma 13-bis, e 26 bis, comma 9, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286; g) dagli articoli 5, commi 1 e 1-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74».
L’ampio catalogo di reati individuato dal secondo comma dell’art. 550 cod. proc. pen. è eterogeneo, sia dal punto di vista della gravità che dei beni giuridici protetti dalle norme incriminatrici di riferimento.
1.2. Quanto premesso rende non peregrino il prospettato dubbio di compatibilità del nuovo assetto normativo, nel quale al Pubblico Ministero è impedito radicalmente di appellare le sentenze di proscioglimento per tutti i reati di cui all’art. 550, commi 1 e 2, cod. proc. pen., con il principio di parità dell armi tra le parti contemplato dall’art. 111 Cost. tra i canoni del giusto processo nonché dall’art. 6 CEDU tra quelli dell’equo processo (e, di qui, a propria volta idoneo, in via interposta, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., a ingenerare un vulnus alla Costituzione).
E ciò in quanto, come è stato evidenziato nello stesso ricorso, la sentenza della Corte Costituzionale n. 26 del 2007 ha sì posto in rilievo che nel processo penale il principio di parità tra accusa e difesa non comporta necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato potendo una disparità di trattamento «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia», ma ha al contempo sottolineato che ciò può avvenire (recte, è legittimo) purché tali limiti trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti, e risultino comunque contenute entro i limiti della ragionevolezza.
Di qui, con quella stessa decisione, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva. A fondamento di tale decisione, la sentenza n. 26 del 2007 ha osservato, in coerenza con le evidenziate premesse, che la norma censurata
esprimeva una “dissimetria radicale” dei poteri delle parti, poiché, a differenza dell’imputato, il pubblico ministero era privato del potere di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che lo vedeva totalmente soccombente, negando integralmente la realizzazione della pretesa punitiva fatta valere con l’azione intrapresa, in rapporto a qualsiasi categoria di reati,
Significativo è, inoltre, il passaggio della stessa sentenza laddove la Corte Costituzionale ha sottolineato che in alcuna misura può del resto essere equiparato all’appello il rimedio del ricorso per cassazione, non attingendo comunque alla pienezza del riesame di merito.
1.3. GLYPH Sotto un distinto profilo, l’ampia categoria di reati, non solo bagattellari, come si è evidenziato, che rientrano tra quelli c.d. a citazione diretta, non consente di estendere al caso in esame le considerazioni effettuate dalla Corte Costituzionale nella successiva sentenza n. 298 del 2008, che ha rigettato la questione di legittimità costituzionale della previsione, introdotta dall’art. 9, comma 2, della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui – modificando l’art. 36, comma 1, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 – non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace.
Invero, in quella decisione la Corte Costituzionale ha posto in rilievo che la limitazione del potere di appello del pubblico ministero, stabilita dalla disposizione censurata non era generalizzata, poiché aveva ad oggetto i soli reati di competenza del giudice di pace, ossia un circoscritto gruppo di figure criminose di minore gravità e di ridotto allarme sociale, espressive, in buona parte, di conflitti a carattere interpersonale e per le quali è comunque esclusa l’applicabilità di pene detentive. Inoltre, la stessa sentenza ha sottolineato che la limitazione andava ad innestarsi su un modulo processuale quale il giudizio davanti al giudice di pace, che è improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale.
Inoltre, la modifica normativa, ha soggiunto ulteriormente la sentenza n. 298 del 2008, è andata ad incidere su una disciplina che – con specifico riguardo al regime delle impugnazioni – vedeva l’imputato, per certi versi, sfavorito rispetto al pubblico ministero, in quanto, in forza del previgente art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, la parte pubblica era abilitata ad appellare sia le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria, sia le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa. Per contro, ai sensi dell’art. 37 del medesimo decreto legislativo, l’imputato era ammesso ad appellare le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria, nonché le sentenze di condanna a quest’ultima pena, ma solo
ove venisse congiuntamente impugnato il capo di condanna, anche generica, al risarcimento del danno. Ne derivava che, prima della riforma, il pubblico ministero aveva il potere di appellare, in presenza di determinati presupposti, a fronte di entrambi gli epiloghi decisori del processo di primo grado (condanna e proscioglimento), mentre l’imputato aveva un omologo potere, a certe condizioni, in rapporto ad uno soltanto di detti epiloghi (la condanna). E, inoltre, lo stesso imputato non poteva appellare le sentenze di condanna per reati puniti con pena alternativa, allorché fosse stata concretamente applicata la sola pena pecuniaria (salvo che impugni l’eventuale capo di condanna al risarcimento dei danni), mentre il pubblico ministero poteva appellare in ogni caso le sentenze di proscioglimento relative alla medesima categoria di reati.
4. Sennonché, pur a fronte delle indicate e delicate problematiche di compatibilità dell’attuale art. 593, secondo comma, secondo periodo, cod. proc. pen., con gli evocati parametri costituzionali, le relative questioni non sono rilevanti nella fattispecie in esame poiché la decisione di primo grado oggetto dell’appello è stata pronunciata in data 14 maggio 2024, ossia prima dell’entrata in vigore della legge n. 114 del 2024, modificativa in parte qua dell’art. 593 cod. proc. pen.
Ha allora errato la Corte territoriale nel ritenere applicabile la disposizione nella formulazione novellata, preclusiva della possibilità per il pubblico ministero di proporre appello, dovendosi a tal fine aver riguardo, quando manca una disposizione transitoria e si succedano diverse discipline in tema di impugnazione nel tempo, alla data di emanazione della sentenza.
Come si è già chiarito, infatti, le sentenze di proscioglimento emesse prima del 25 agosto 2024, data di entrata in vigore della legge 9 agosto 2024, n. 114, possono essere appellate dal pubblico ministero anche nel caso in cui riguardino i reati indicati dall’art. 550, commi 1 e 2, cod. proc. pen., non applicandosi la preclusione prevista dall’art. 593, comma 2, cod. proc. pen., come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. p), legge citata, posto che, in assenza di disciplina transitoria, il principio del “tempus regit actum” comporta l’operatività del regime impugnatorio previsto all’atto della pronunzia della sentenza, essendo quello il momento in cui sorge il diritto all’impugnazione (Sez. 5, n. 6984 del 05/02/2025, P., Rv. 287528).
5.Pertanto, assorbito il secondo motivo, il provvedimento deve essere annullato senza rinvio e gli atti rimessi alla Corte d’Appello di Genova per il giudizio.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio il provvedimento impugnato e dispone rimettersi gli atti alla Corte d’Appello di Genova per il giudizio.
Così deciso in Roma il 25 marzo 2025
Il Consigliere COGNOME
GLYPH
residente