Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 24419 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 24419 Anno 2025
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 21/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOMECOGNOME nata ad Adrano (Ct) il 23 settembre 1985;
avverso la sentenza n. 1371/24 della Corte di appello di Catania del 20 marzo 2024;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio;
letta, altresì, la memoria illustrativa redatta nell’interesse della ricorrente dall’ NOME COGNOME del foro di Catania, con la quale ha insistito per raccoglimento del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Catania ha integralmente confermato, con la decisione da essa assunta in data 20 marzo 2024, la sentenza con la quale, il precedente 9 dicembre 2021 il Gup del Tribunale di Catania, in esito a giudizio celebrato con rito abbreviato, aveva dichiarato NOME COGNOME colpevole del reato a lei addebitato – consistente nella violazione dell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito con modificazioni con legge n. 26 del 2019, per avere omesso, in sede di presentazione della domanda per il riconoscimento del reddito di cittadinanza, di dichiarare che un suo familiare convivente si trovava ristretto in detenzione domiciliare in relazione alla sua partecipazione ad un’associazione di stampo mafioso, sebbene il modello di domanda predisposto al fine di cui sopra prevedesse la indicazione della esistenza di eventuali componenti della famiglia in istato di detenzione – e la aveva, pertanto, condannata alla pena ritenuta di giustizia.
Avverso la descritta decisione ha interposto ricorso per cassazione la difesa fiduciaria della imputata, affidando le proprie lagnanze a due motivi di impugnazione.
Il primo motivo di ricorso attiene al vizio di violazione di legge e di motivazione della sentenza censurata nella parte in cui, in sostanza, si è ritenuto che la indicazione che il richiedente deve fornire in relazione all’eventuale stato di detenzione del familiare debba avere ad oggetto non solo le ipotesi in cui quest’ultimo si trovi ristretto in un istituto di pena, caso in cui questi è, in sostanza, a carico dello Stato non gravando i costi per il suo sostentamento sul restante nucleo familiare, ma anche le ipotesi, quale è quella ora in esame, in cui il soggetto di cui si tratta sia in istato di detenzione domiciliare (peraltro, precisa la ricorrente difesa, nel caso ora in esame il parente convivente della COGNOME non era in istato di detenzione domiciliare in espiazione di pena ma era sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari presso la residenza familiare), con il conseguente perdurante carico economico gravante sul suo nucleo familiare connesso al suo mantenimento.
Con il secondo motivo di impugnazione la difesa della imputata ha lamentato, sempre in relazione al vizio di violazione di legge ed a quello di motivazione, l’avvenuta conferma della sentenza di primo grado da parte della Corte territoriale in punto di ricorrenza dell’elemento soggettivo in capo alla prevenuta sebbene il modello di domanda predisposto dall’Inps per il conseguimento del reddito di cittadinanza non evidenziasse la indicazione in ordine all’eventuale stato detentivo di uno dei familiari dell’istante come
rilevante ai fini della corresponsione del predetto beneficio; da ciò la ricorrente ha fatto discendere la assenza della consapevolezza della rilevanza della informazione in questione ai fini del godimento del beneficio, il che escluderebbe il dolo in capo alla COGNOME.
Essendo stata assegnata, in un primo momento, la trattazione del presente processo alla VII Sezione penale di questa Corte, ai sensi dell’art. 610, comma 1, cod. proc. pen., questa, con provvedimento reso in data 22 novembre 2024, ritenendo meritevole di un ulteriore approfondimento il primo motivo del ricorso proposto dalla difesa della imputata, disponeva la restituzione del fascicolo alla III Sezione penale della stessa Corte.
In data 13 febbraio 2025 la difesa della ricorrente faceva pervenire una memoria difensiva con la quale insisteva in particolare per l’accoglimento del ricorso con riferimento al primo dei due motivi di impugnazione in esso formulati.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso proposto non è fondato e, pertanto, lo stesso deve essere rigettato.
Ritiene opportuno il Collegio, prioritariamente rispetto ad ogni altra rilevazione, ribadire la indifferenza rispetto alla presente fattispecie della circostanza che, a seguito della entrata in vigore della legge n. 197 del 2022, la legge n. 26 del 2019, con la quale è stato convertito il decreto – legge n. 4 dello stesso anno sia stata espressamente abrogata; infatti, come questa Corte ha avito modo di precisare, con orientamento che qui viene ulteriormente, e convintamente, sostenuto, la formale abrogazione dell’indicata norma incriminatrice, disposta dall’art. 1, comma 318, della legge n. 197 del 2022, a far data dall’i gennaio 2024, non integra un’ipotesi di abolitio criminis, di cui all’art. 2, comma secondo, cod. pen., ma dà luogo a un fenomeno di successione di leggi penali nel tempo, inquadrabile nel disposto di cui all’art. 2, comma terzo, cod. pen., avuto riguardo alla corrispondente incriminazione introdotta dall’art. 8 del decreto – legge n. 48 del 2023, convertito, con modificazioni, con legge n. 85 del 2023, del tutto sovrapponibile a quella oggetto di contestazione alla Pantò e riferita al reddito di inclusione in sostituzione di quello di cittadinanza (Corte di cassazione, Sezione III penale, 25 ottobre 20p24, n. 286951).
Fatta questa opportuna premessa, si rileva che con il primo dei due motivi di impugnazione la difesa della ricorrente lamenta, deducendo sia Verror juris che il vizio di motivazione, il fatto che sia stata ritenuta tale da integrare la violazione della previsione contenuta nell’art. 7, comma 1, del decreto-legge n. 4 del 2919, convertito con modificazioni, con legge n. 26 del 2019, la omessa dichiarazione, nella compilazione della domanda volta al conseguimento del reddito di cittadinanza – compiuta attraverso il riempimento del modulo prestampato predisposto dall’Inps, ente erogatore del beneficio in questione – della circostanza che uno dei familiari conviventi, si trovava, secondo la contestazione elevata a carico della imputata e per come precisato nella sentenza impugnata, “ai donniciliari in espiazione pena e (non in misura cautelare)” essendo “stato condannato con sentenza irrevocabile per il reato previsto e punito dall’art. 416-bis c. p.”.
Secondo l’avviso della ricorrente una tale informazione sarebbe stata doverosa solamente nella ipotesi in cui lo “stato detentivo” del familiare avesse determinato il suo allontanamento dal nucleo familiare, posto che solo una tale evenienza avrebbe determinato il fatto che tale individuo, non essendo presente all’interno del nucleo familiare, non avrebbe gravato economicamente su di esso, cosa che, invece, non era conseguita alla sua detenzione domiciliare.
Questo essendo, in estrema sintesi, il contenuto del primo motivo di ricorso, rileva il Collegio che la disposizione precettiva che sarebbe stata infranta, secondo l’accusa, dalla COGNOME prevede, che costituisca reato l’avere reso od utilizzato dichiarazioni o documenti falsi o attestanti cose non vere ovvero l’aver omesso informazioni dovute, al fine di ottenere indebitamente il reddito di cittadinanza; un siffatto rilevo va integrato attraverso l’esame del modulo di domanda per il conseguimento del predetto beneficio che, come segnalato nella sentenza impugnata e diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, prevede, al Quadro F, che il richiedente debba segnalare se nel suo nucleo familiare siano “presenti componenti in stato detentivo”.
Una tale informazione, si aggiunge, è rilevante ai fini della erogazione del reddito di cittadinanza (ed anche ai fini della entità del beneficio eventualmente percepibile) atteso che, secondo la previsione di cui al comma 13 dell’art. 3 del decreto-legge n. 4 del 2019, convertito, con modificazioni, con legge n. 26 del 2019 nel caso, fra l’altro, “in cui il nucleo familiare beneficiario abbia tra i suoi componenti soggetti che si trovano in stata detentivo”, di tali componenti “non si tiene conto” ai fini della individuazione
del “parametro della scala di equivalenza di cui al comma 1, lettera a)” della medesima disposizione; analoga riduzione del parametro della scala di equivalenza è prevista nel caso in cui del nucleo familiare faccia parte un soggetto che sia sottoposto a misura cautelare ovvero sia stato condannato per taluno dei delitti indicati al successivo art. 7, comma 3, del medesimo decreto-legge n. 4 del 2019; sul punto si rileva fin da subito che fra i reati questione vi è, fra gli altri, anche la violazione dell’art. 416-bis cod. pen., il reato in relazione al quale risulta essere stato condannato un congiunto della prevenuta.
Tanto considerato si ritiene che non colga nel segno il rilievo formulato dalla ricorrente difesa, secondo la quale l’espressione “stato di detenzione” contenuta nell’art. 7, comma 13, del decreto-legge più volte citato debba essere intesa solamente in termini restrittivi, esprimendo essa la sola condizione di chi si trovi in stato di detenzione intramuraria.
Tale interpretazione è suggestivamente desunta dalla elencazione delle altre ipotesi in relazione alle quali il legislatore ha previsto la medesi riduzione applicabile al caso del componente del nucleo familiare che si trovi “in stato detentivo”.
Essa è, infatti, anche prevista nelle ipotesi in cui siano ricompresi nel nucleo familiare (e si ricordi che il beneficiario ex lege del reddito di cittadinanza non è il richiedente ma il nucleo familiare del quale egli fa parte Corte di cassazione, Sezione III penale, 14 gennaio 2022, n. 1351, rv 282637, in motivaziione) del dichiarante individui che siano “ricoverati in istituti di lunga degenza o altre strutture residenziali a totale carico dello St o di altra amministrazione pubblica”; ha, infatti, affermato la ricorrente che i criterio in base al quale sono individuate le due categorie di soggetti di cu sopra è dato dalla circostanza che, sia in una ipotesi (quella dello “stat detentivo”) che nell’altra (quella del ricovero in strutture a totale car pubblico), si tratta di persone che non gravano economicamente sul nucleo familiare beneficiario del reddito di cittadinanza, di tal che non troverebbe giustificazione computare anche questi individui nell’ambito del predetto nucleo familiare ai fini della erogazione del beneficio in questione.
L’argomento, come detto, pur suggestivo, non trova però, laddove si esamini complessivamente la normativa in questione, in essa un adeguato ed inequivocabile avallo, apparendo, alzi, come si vedrà, lo stesso contraddetto in esito a tale esame.
Invero, osserva il Collegio, la tesi prospettata dalla ricorrente difesa – la quale condurrebbe a ritenere insussistente il fatto di reato a lei contestato, atteso che, incontestatamente, il suo congiunto (il cui status detentíonis non è stato dichiarato in occasione della presentazione della domanda volta al conseguimento del reddito di cittadinanza) non è custodito in carcere – appare in logica contraddizione col fatto che identica conseguenza a livello di determinazione della condizioni per accedere al reddito di cittadinanza è prevista laddove del nucleo familiare faccia parte un individuo che o sia stato condannato per uno dei delitti specificamente elencati dal comma 3 del successivo art. 7 del decreto-legge n. 4 del 2019 – fra i quali vi è il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen.’ cioè la imputazione pacificamente riguardante il congiunto della prevenuta e la disposizione non parrebbe cronologicamente riferita solo al periodo nel quale il soggetto di cui si tratta si trovi in espiazione di pena – ovvero che, per uno dei titoli di reato dianzi ricordati, sia “sottoposto a misura cautelare” (anche in questo caso senza che il legislatore abbia neppure distinto fra misura cautelari privative della libertà personale ovvero solo limitative di singoli aspetti di essa).
Tale scelta legislativa appare, pertanto, indicare una diversa ratio fra le distinte ipotesi in cui opera la esclusione ai fimi della individuazione della scala di equivalenza disciplinata dal comma 13 dell’art. 3 del decreto-legge n. 4 del 2019.
In un caso – cioè nell’ipotesi in cui il componente del nucleo familiare si trovi ricoverato presso una struttura i cui costi sono a totale carico della Amministrazione pubblica – la ragione della esclusione è, effettivamente, legata alla ragionevole esigenza di non fare gravare due volte, sia pure per ragioni diverse ed in misura non coincidente, il mantenimento di tale soggetto sulla “fiscalità generale”.
Ma nell’altra ipotesi, la rafie) della previsione è da ricondursi – stante la funzione di carattere solidaristico e di riequilibrio sociale che è propria della erogazione del reddito di cittadinanza a vantaggio di un determinato nucleo familiare che, stante le condizioni di disagio economico in cui si trova apparirebbe (in ossequio a quei doveri di solidarietà economica dei quali l’art. 2 della Costituzione richiede in via generale l’adempimento e che trovano un ulteriore conferma nella previsione con la quale si apre l’art. 38 della Carta fondamentale, a tenore del quale il cittadino privo dei necessari mezzi di sostentamento a diritto al mantenimento) meritevole di un ausilio di carattere pubblico – alla ritenuta carenza delle condizioni soggettive per il godimento di
tali prestazioni solidaristiche; e ciò in ragione della ritenuta riprovevolezza di determinate categorie di soggetti – i quali ctg, si siano macchiati di gravi illeciti penali ovvero che, gravati da pesanti indizi di colpevolezza in relazione ad essi, presentino degli elementi di rischi per i consociati che, pertanto, legittimino la adozione di misure cautelari a loro carico – che costituisce cu” ragione ostativa godimentodel predetto beneficio.
Siffatta condizione, almeno parzialmente ostativa (e pertanto da portare a conoscenza della Amministrazione al momento della presentazione della domanda di accesso al beneficio), si verifica anche nel caso in cui tali individui – durante la fase di applicazione degli arresti domiciliari (ovvero della espiazione domiciliare della pena), non potendo gravare per il mantenimento per la cura ovvero per le spese mediche sulla amministrazione penitenziaria (cfr. infatti: art. 9 Reg. esec. cod. proc. pen.) – gravino dal punto di vista economico sul nucleo familiare di appartenenza.
Una tale ricostruzione è, d’altra parte, suffragata anche dalla successiva previsione contenuta nell’art. 7, comma 3, del più volte citato decreto-legge, il quale, nella medesima ottica di ritenere meritevole della misura solidaristica solamente individui immuni da pregiudizi penali particolarmente odiosi, non solo prevede che, in ipotesi di condanna definitiva (deve ritenersi in tale caso, sopravvenuta alla presentazione della domanda di riconoscimento del beneficio) per uno dei reati ivi indicati (fra i quali, come detto, vi è l’associazione di stampo mafioso), ad essa consegua la revoca, con effetto retroattivo (e derivante obbligo di restituzione delle erogazioni già liquidate), del beneficio de quo, ma prevede anche – in tale senso facendo permanere gli effetti lato sensu pregiudizievoli della sentenza di condanna anche successivamente ad essa (e ciò è possibile persino in epoca successiva alla piena espiazione della pena con la stessa irrogata. dati i massimi edittali di taluni dei delitti “ostativi” elencati dall’art. 7, comma 3, ultimo citato, inferiori alla durata del termine nella pendenza del quale non è possibile ripresentare domanda di reddito di cittadinanza) – l’inibizione a richiedere nuovamente il riconoscimento del beneficio se non dopo la decorrenza di 10 anni dalla definitività della condanna.
Pertanto la circostanza che il congiunto della COGNOME si trovasse (è a questo punto irrilevante se in espiazione pena – come sostenuto in sentenza ovvero saio perché attinto da una misura cautelare – come, invece, dichiarato dalla ricorrente – atteso che, essendo in ogni caso la imputazione a lui mossa relativa alla associazione di stampo mafioso, la ipotesi della avvenuta
condanna è equiparata a quella della adozione di una misura cautelare) ristretto in “stato detentivo” presso la abitazione familiare (sulla equiparazione fra le due condizioni – arresti domiciliari e custodia in carcere si veda, peraltro, l’art. 284, comma 5, cod. proc. pen.) avrebbe dovuto imporre alla imputata, onde non incorrere nella sanzione penale derivante dalla omissione della relativa comunicazione (essendo, come detto, questa dovuta), di indicare la condizione del congiunto, sebbene questa non ne avesse determinato la custodia intramuraria ma solo quella domiciliare, in occasione della compilazione della domanda volta ad ottenere il conseguimento del reddito di cittadinanza.
Da tanto discende la infondatezza del primo motivo di ricorso presentato dalla difesa della COGNOME.
Parimenti infondato è il successivo secondo motivo di ricorso; con esso la ricorrente ha dedotto la violazione di legge ed il vizio di motivazione in ordine alla riconducibilità, sotto il profilo soggettivo, della condotta della imputata al dolo che, invece, sarebbe stato da escludere in quanto, dato il tenore del questionario cui la donna aveva dovuto rispondere nel presentare la domanda volta al conseguimento del reddito di cittadinanza, la stessa non avrebbe avuto la consapevolezza che la informazione da lei erroneamente data era rilevante ai fini del conseguimento del beneficio.
Si tratta di argomentazioni prive di pregio.
Ritiene anche in questo caso opportuno il Collegio rilevare come, sulla base della giurisprudenza di questa Corte, espressa dal suo massimo organo nomofilattico, il bene interesse tutelato dalla norma precettiva non è il generale ed astratto affidamento che gli organi dello Stato, ad evidenti scopi di snellimento e velocizzazione delle procedure amministrative, possono essere, di regola, tenute a nutrire in merito alla veridicità delle dichiarazioni che il privato rivolge nei suoi confronti.
Si tratta, invece, di previsione normativa, integrante una figura di reato di pericolo concreto a consumazione anticipata, che presidici, la integrità delle risorse pubbliche economiche destinate a finanziare il reddito di cittadinanza impedendone la dispersione a favore di chi non ne ha (o non ne ha più) diritto o ne ha diritto in misura minore.
La previsione penalistica è posta a tutela del patrimonio dell’ente erogante e, in particolare, delle specifiche (e limitate) risorse destinate
all’erogazione del beneficio ed al perseguimento del fine pubblico ad esso sotteso (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 13 dicembre 2023, n. 49686, in motivazione); è sicuro indice sintomatico di quanto ora esposto il fatto che il legislatore abbia inteso reprimere non le dichiarazioni genericamente costituenti, nelle varie forme indicate dall’art. 7, comma 1 del decreto legge – legge n. 4 del 2019, un mendacio (connmissivo od omissivo) ma solamente quelle funzionali al conseguimento “indebito” del beneficio de quo, laddove, come è stato acutamente segnalato, ove l’oggetto della tutela fosse stato esclusivamente l’affidamento che l’Amministrazione, nelle sue varie ripartizioni, deve nutrire sulla lealtà dei cittadini che ad essa si rivolgano, l’utilizzo dell’avverbio “indebitamente” non avrebbe avuto alcuna ragion d’essere, posto che l’affidamento che gli organi della amministrazione debbono nutrire verso la “lealtà” degli amministrati sarebbe stato violato per il solo fatto che la dichiarazione ad essa indirizzata conteneva un dato falso, quale che fosse stato l’effetto di tale mendacio (cfr. al riguardo: Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 13 dicembre 2023, n. 49686, rv 285435; e già, in precedenza, per un analogo ordine di idee: Corte di cassazione, Sezione III penale, 1 dicembre 2021, n. 44366, rv 282336).
Tanto rilevato inon può non considerarsi che, quanto al caso di specie, attraverso la consapevolmente omessa indicazione, in occasione della compilazione del modello di domanda per l’accesso al beneficio, della presenza di un componente del nucleo familiare beneficiario del reddito di cittadinanza ristretto in “stato di detenzione”, la COGNOME ha effettivamente, quanto meno in misura superiore a quella che le sarebbe spettata, indebitamente conseguito il reddito di cittadinanza.
Nessun rilievo ha, infine, l’invocazione della buona fede da parte della ricorrente, riferibile alla inconsapevolezza da parte sua della irrilevanza ai fini del riconoscimento del beneficio della omessa informazione.
Come è stato, infatti, già di recente segnalato, tale inconsapevolezza, la quale si riflette in una sorta di errore sulla valenza precettiva della disposizione che si assume essere stata violata, non ha efficacia scriminante; essa, infatti si risolve in un errore sulla legge penale, che, come è noto, non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato decreto legge n. 4 del 2019; né, è stato altresì precisato, può ritenersi ricorrere un caso .4.; errore determinato dalla inevitabile ignoranza della legge penale, non presentando la normativa in tema di concessione del reddito di cittadinanza
connotati di cripticità tali da far ritenere l’oscurità del precetto che si deve rispettare (Corte di cassazione, Sezione II penale, 10 giugno 2024, n. 23265,
r – v 286413).
Alla luce degli argomenti dianzi esposti il ricorso di COGNOME deve essere, in definitiva, rigettato e la ricorrente va, conseguentemente
condannata, visto l’art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2025
Il Consigliere estensore
Il Presid hte