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Sottoprodotti di origine animale: quando sono rifiuti?

La Corte di Cassazione chiarisce la linea di demarcazione tra sottoprodotti di origine animale e rifiuti. In un caso riguardante un’azienda di trattamento pelli, la Corte ha confermato la condanna per gestione illecita di rifiuti, stabilendo che gli scarti animali, se abbandonati e non destinati a un reimpiego certo, devono essere classificati come rifiuti. La sentenza sottolinea che l’onere di provare la qualifica di sottoprodotto spetta al produttore, la cui intenzione di disfarsi del materiale è determinante per la sua classificazione legale.

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Pubblicato il 6 dicembre 2025 in Diritto Penale, Giurisprudenza Penale

Sottoprodotti di Origine Animale: Quando Diventano Rifiuti? La Cassazione Fa Chiarezza

La gestione dei residui di produzione è un tema complesso, specialmente quando si tratta di sottoprodotti di origine animale. La distinzione tra ciò che è un sottoprodotto riutilizzabile e ciò che è un rifiuto da smaltire secondo rigide normative non è solo una questione tecnica, ma ha profonde implicazioni legali e penali. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 30064/2024, è intervenuta proprio su questo punto, confermando la condanna per reati in materia di rifiuti a carico del titolare di un’azienda di lavorazione pelli.

I Fatti del Caso

Il caso ha origine dalla condanna, confermata in appello, del titolare di una società autorizzata alla manipolazione e al magazzinaggio di pelli animali. Durante un’ispezione, presso l’azienda venivano rinvenute ingenti quantità di scarti di origine animale (come orecchie, zampe, code e frammenti ossei) abbandonati direttamente sul terreno o interrati, in evidente stato di decomposizione e senza alcuna documentazione che ne attestasse provenienza e trattamento. L’imputato si difendeva sostenendo che tali materiali fossero sottoprodotti di origine animale e non rifiuti, e che le procedure adottate fossero conformi alla normativa europea.

La Disciplina dei Sottoprodotti di Origine Animale

La normativa, sia nazionale (D.Lgs. 152/2006, noto come Testo Unico Ambientale) sia europea (Reg. CE 1069/2009), stabilisce condizioni molto precise perché un residuo di produzione possa essere qualificato come sottoprodotto anziché come rifiuto. L’articolo 184-bis del Testo Unico Ambientale prevede che un sottoprodotto debba soddisfare quattro condizioni cumulative:
1. La sostanza o l’oggetto è originato da un processo di produzione.
2. È certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato nel corso dello stesso o di un successivo processo.
3. Può essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale.
4. L’ulteriore utilizzo è legale.

Il punto cruciale è la certezza del riutilizzo. La disciplina sui sottoprodotti è una deroga a quella, molto più stringente, sui rifiuti. Pertanto, spetta a chi produce il residuo dimostrare in modo inequivocabile che esso possiede tutti i requisiti per essere considerato un sottoprodotto.

Le Motivazioni della Corte di Cassazione

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, confermando la condanna. I giudici hanno chiarito che il ricorso mirava a una rivalutazione dei fatti, compito precluso in sede di legittimità. Nel merito, la Corte ha ribadito che i giudici di primo e secondo grado avevano correttamente qualificato gli scarti come rifiuti.

Le motivazioni della decisione si fondano su alcuni pilastri:
* Mancanza di autorizzazioni: La società non era autorizzata allo stoccaggio di rifiuti, né liquidi né solidi.
* Comportamento del detentore: Le modalità di ritrovamento dei materiali (abbandonati, non documentati, maleodoranti) dimostravano l’intenzione di disfarsene, elemento che per la giurisprudenza è fondamentale per qualificare un bene come rifiuto.
* Onere della prova: La qualificazione di un residuo come sottoprodotto deve essere provata da chi lo ha prodotto o lo detiene. In assenza di tale prova, e soprattutto in presenza di una gestione non conforme, il materiale deve essere considerato un rifiuto. La Corte di Giustizia Europea ha specificato che solo il detentore può provare che la sua intenzione non è quella di disfarsi dei beni, ma di permetterne il riutilizzo in condizioni idonee.
* Certezza del riutilizzo: Affinché un residuo sia un sottoprodotto, deve essere certo il suo futuro utilizzo. Una mera possibilità non è sufficiente a sottrarre il materiale alla disciplina sui rifiuti.

Conclusioni

La sentenza ribadisce un principio fondamentale nella gestione ambientale: la qualifica di sottoprodotto è un’eccezione che deve essere rigorosamente provata. Le aziende che generano residui di produzione, in particolare sottoprodotti di origine animale, non possono limitarsi ad affermarne la natura di sottoprodotto. Devono implementare un sistema di gestione organizzato e documentato che dimostri, senza ombra di dubbio, la certezza del loro reimpiego in un ciclo produttivo. In caso contrario, come dimostra questo caso, il rischio è di incorrere in pesanti sanzioni penali per gestione illecita di rifiuti, con tutte le conseguenze che ne derivano per l’imprenditore e per l’azienda.

Quando uno scarto di origine animale è considerato un sottoprodotto e non un rifiuto?
Uno scarto di origine animale è considerato un sottoprodotto solo se soddisfa le condizioni stabilite dall’art. 184-bis del D.Lgs. 152/2006. In particolare, deve essere certo il suo riutilizzo in un processo produttivo, deve poter essere utilizzato senza trattamenti ulteriori rispetto alla normale pratica industriale e il suo impiego deve essere legale.

Su chi ricade l’onere di dimostrare che un residuo di produzione è un sottoprodotto?
L’onere di dimostrare che un residuo è un sottoprodotto e non un rifiuto ricade su colui che lo ha prodotto o smaltito. In caso di dubbio e in assenza di prove concrete che ne attestino la natura di sottoprodotto e il futuro reimpiego, il materiale deve essere considerato e gestito come un rifiuto.

Cosa succede se un’azienda gestisce scarti animali come sottoprodotti senza rispettare le condizioni di legge?
Se un’azienda gestisce scarti animali senza poter dimostrare che rispettano le condizioni per essere qualificati come sottoprodotti, tali materiali vengono considerati a tutti gli effetti rifiuti. Di conseguenza, l’azienda e il suo legale rappresentante possono essere ritenuti responsabili del reato di gestione illecita di rifiuti, con conseguente applicazione di sanzioni penali, inclusa la reclusione e una multa.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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