Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 28131 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 5 Num. 28131 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME COGNOME
Data Udienza: 14/05/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME nato a MACERATA il 08/05/1976
avverso la sentenza del 05/04/2024 della Corte d’appello di Ancona
Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza del Tribunale di Macerata del 3.02.2022, che condannava NOME COGNOME in concorso con NOME COGNOME, per il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, di cui ai capi A), mediante distrazione, per scopi non riconducibili all’oggetto sociale, di somme prelevate dal conto corrente societario
con bonifici bancari, e B), mediante scissione: la prima quale amministratore unico dal 14.07.2005 fino al 6.10.2010, il secondo, quale amministratore unico dal 6.10.2010 al 14.07.2012 e, in seguito, amministratore di fatto della RAGIONE_SOCIALE, dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Macerata del 15.11.2012, alla pena ritenuta di giustizia.
Contro l’anzidetta sentenza, la imputata propone ricorso, affidato ad un unico motivo, con il quale lamenta, quanto al capo B), inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 2506, 2506 bis e 2501 ter, cod. civ., e vizi motivazionali, anche in punto di mancata assunzione di prova difensiva decisiva, nella deposizione del teste della difesa, COGNOME StefanoCOGNOME ed alla valutazione di inattendibilità del teste.
Con riguardo alla scissione societaria, si deduce che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto del fatto che, al momento della presentazione del progetto di scissione, la ricorrente non rivestiva più la carica di amministratore unico della società fallita. Si deduce, altresì, erronea interpretazione dell’art.2501 ter cod. civ., quanto alla condotta distrattiva, perché la disposizione non richiederebbe l’indicazione analitica delle immobilizzazioni materiali, oggetto della scissione, e dei debiti verso fornitori, erario, enti previdenziali e istituti di credito, in qua in caso di scissione parziale, laddove la destinazione dell’attivo non sia desumibile dalla scissione, l’attivo rimarrebbe in capo alla società trasferente; mentre se non sia desumibile la destinazione del passivo, è prevista una responsabilità della società scissa e di quella beneficiaria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato e va disatteso.
1.2 Il motivo è reiterativo di censure dedotte in grado di appello e decise dalla Corte territoriale con motivazione non illogica e immune da vizi e censure.
Al riguardo si osserva che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente cioè di spessore tale da risultare percepibile “ictu oculi”, dovendo il sindacato di legittimità, al riguardo, essere limitato a rili di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano
spiegate in modo logico ed adeguato la ragioni del convincimento senza vizi giuridici (Cass., Sez. Un., 16 dicembre 1999, n. 24, S., rv. 214794 e Cass., Sez. III, 11 gennaio 1999, n. 215, F., rv. 212091 al cui lungo iter motivazionale si rinvia).
Inoltre, secondo giurisprudenza costante di questa Corte sotto il vigore del precedente codice di rito (Cass., Sez. I, 18 aprile 1985, M. cui “adde” Cass., Sez. I, 19 ottobre 1988, Q.) e dell’attuale (Cass., Sez. I, 4 febbraio 1994, A. ed altri e Cass., Sez. III, 23 aprile 1994, C. fra tante), le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal primo e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, sicché le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscono una sola entità.
Infine, secondo il prevalente e condiviso orientamento di questo giudice di legittimità (Sez. Un., 21 settembre 2000, n. 17, P. ed altri, Rv. 216664), la motivazione “per relationem” è sempre ammissibile ove l’atto richiamato sia conosciuto o conoscibile dall’interessato, appaia congruo in ordine all’esigenza di giustificazione del provvedimento di destinazione e fornisca la dimostrazione che il giudice ha preso cognizione del contenuto sostanziale delle ragioni del provvedimento e le abbia meditate e ritenute coerenti con la sua decisione.
E’ qui opportuno ribadire che, avendo la Corte d’Appello adottato criteri di valutazione delle prove del tutto sovrapponibili a quelli fatti propri dal giudice d prime cure, ci troviamo di fronte ad un caso di doppia conforme, con conseguente possibilità di leggere congiuntamente le motivazioni dei due provvedimenti di merito (Sez. II, sentenza n. 37295 del 12/6/2019).
Così che essendo al cospetto di una condanna a seguito di sentenza in udoppia conforme asserito travisamento della prova doveva riferirsi a circostanza decisiva travisata utilizzata dal giudice di secondo grado e mai introdotta prima nella motivazione. Ma così non risulta dalle censure del ricorso, che appuntano le proprie doglianze, riproponendo quelle mosse alla sentenza di prime cure con i motivi di appello, su una diversa interpretazione di prove la cui portata non risulta per nulla travisata nel suo significante dalla Corte territoriale, che anzi su ogni motivo d’appello ha argomentato e superato le doglianze mosse con argomentazioni logiche coerenti e del tutto incensurabili. I
Con riferimento alla questione relativa alla “mancata assunzione” del teste COGNOME Stefano, il motivo è inammissibile in quanto manifestamente infondato.
Invero, come condivisibilmente rilevato dal Procuratore Generale nelle conclusioni scritte alle quali si aderisce richiamandole, considerato che la dichiarazione del testimone era entrata nel patrimonio di conoscenza del giudice, nel corso del giudizio di primo grado, la questione prospettata deve essere intesa, piuttosto, come mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello, ai sensi dell’art. 603, comma 1, cod. proc. pen.
Ed invero, la rinnovazione, di cui al primo comma, è condizionata alla valutazione del giudice di decidibilità allo stato degli atti. Tale valutazione non è sindacabile in sede di legittimità, in quanto costituente giudizio di fatto.
Al riguardo, la Corte di appello, confrontandosi con il motivo di ricorso, ha chiarito la irrilevanza, ai fini della decisione, della rinnovazione istruttoria, tenu conto dell’assenza di documenti prodotti a corredo del gravame nonché dell’oggetto della testimonianza, volta a provare una circostanza (il progetto di scissione) non suscettibile di prova testimoniale.
Né la ricorrente ha fornito, con il motivo di ricorso, argomenti dirimenti al riguardo e, comunque, ragionevolmente motivati sulla base della valutazione di credibilità del teste, che non è aprioristica, come prospettato dalla ricorrente, ma basata sul fatto che le dichiarazioni erano già state assunte, nel corso del giudizio di primo grado, e ne era stata valutata l’inattendibilità, anche in virtù della circostanza che questi, in quanto già indagato nello stesso procedimento, anche se poi archiviato, andava assunto e valutato con i criteri di cui all’art. 210 cod. proc. pen.,
Il motivo è, comunque, generico, poiché non illustra la decisività di quella deposizione (cfr. Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, COGNOME, Rv. 243416) ai fini della decisione. La Corte di merito correttamente chiariva come il teste, non avendo svolto alcuna attività nel progetto di scissione, non avrebbe potuto riferire più dell’imputato NOME COGNOME e, pertanto, la sua deposizione risultava superflua.
2.2 Con riguardo alla dedotta insussistenza di un atto di distrazione, nei casi di scissione societaria, sia perché la ricorrente non ricopriva la carica di amministratore unico, sia perché permarrebbe una solidarietà tra il soggetto originario e quello costituito ex novo con l’atto di scissione, nonché di un danno per i creditori, quale conseguenza dell’operazione di scissione, il motivo è infondato.
2.2.1 Ed invero, per quanto concerne la circostanza che l’operazione di scissione sarebbe pienamente legittima e conforme al dettato del codice civile, sicchè da essa non potrebbe ricavarsi la condotta dolosa ascritta alla imputata, tale deduzione non si confronta con i principi più volte affermati da questa Corte, secondo cui, “integra il delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione la scissione di una società, successivamente dichiarata fallita, attuata mediante conferimento
delle attività produttive economicamente più rilevanti, qualora tale operazione, in sé astrattamente lecita, sulla base di una valutazione, in concreto, che tenga conto della effettiva situazione debitoria della società scissa, al momento della scissione, si riveli, ad esempio, volutamente depauperatoria del patrimonio aziendale e pregiudizievole per i creditori, con la conseguenza di recare consapevole danno al patrimonio aziendale ed alla capacità di soddisfare le ragioni del ceto creditorio, nella prospettiva della procedura concorsuale, non essendo le tutele previste dagli artt.2506 e ss. cod. civ., di per sé idonee ad escludere ogni danno o pericolo per le ragioni creditorie” (Sez. 5, Sent. n. 29187 del 27/05/2021, Rv. 281818 – 01Sez. 5 n. 27930 del 01/07/2020 Rv. 279636; Sez. 5, n. 20370 del 10/4/2015; Sez. 5. N. 13522 del 21/1/2015). Tali pronunce hanno messo in chiaro che la bancarotta fraudolenta (nelle forme della distrazione o della dissipazione, ovvero nella determinazione dolosa del dissesto) non consiste soltanto nella dismissione di beni senza corrispettivo o con corrispettivo inferiore al valore reale (in questo senso, specificamente, Cass., n. 17965 del 22/1/2013), ma è integrata pure da attività e comportamenti che, sebbene corrispondenti all’esercizio di facoltà legittime, riconosciute dall’ordinamento all’imprenditore, tuttavia, rechino consapevolmente danno all’impresa, in quanto la liceità di ogni operazione dipende dai suoi riflessi sul patrimonio dell’imprenditore, sulla “salute” dell’impresa e sulla capacità dei beni aziendali di soddisfare le ragioni del ceto creditorio.
Nessun argomento è stato speso per confutare l’ipotesi accusatoria formulata al capo B), laddove si contesta alla ricorrente ed al coimputato, NOME COGNOME entrambi amministratori della RAGIONE_SOCIALE, la prima dal 14.07.2005 fino al 6.10.2010, il secondo, dal 6.10.2010 al 14.07.2012 e, in seguito, amministratore di fatto, il reato di bancarotta distrattiva mediante la stipula, in data 28/05/2011, di contratto di scissione parziale, non proporzionale, in cui la società RAGIONE_SOCIALE (comprensiva di avviamento e di immobilizzazioni materiali, necessarie all’esercizio dell’attività d’impresa e dell’accollo dei fornitori strategici), ven scissa a favore della costituenda società RAGIONE_SOCIALE nella completa titolarità di NOME COGNOME con la espressa previsione dell’uscita di quest’ultima dal capitale sociale della RAGIONE_SOCIALE e della attribuzione, alla stessa, delle quote della RAGIONE_SOCIALE, avente capitale sociale pari a 11.000,00 euro, e al coimputato NOME COGNOME, di tutte le quote della RAGIONE_SOCIALE
Nella fattispecie in esame, l’operazione di scissione della RAGIONE_SOCIALE e la creazione della RAGIONE_SOCIALE è stata correttamente ritenuta integrante un’operazione distrattiva, pregiudizievole per le sorti della società scissa, in quanto consentiva di lasciare in capo alla fallita esclusivamente le passività, trasferendo alla RAGIONE_SOCIALE le attività.
Invero, a fronte di una contestazione specifica, relativa alla mancata indicazione analitica, soprattutto, dei debiti della RAGIONE_SOCIALE (verso fornitori, erar enti previdenziali e verso banche, solo queste ultime garantite dagli immobili di proprietà del socio NOME COGNOME) e riguardo alla clausola per cui “ogni altra posta non evidenziata nel bilancio al 31/12/2010 e non esplicitamente indicata in questo paragrafo deve ritenersi estranea al presente progetto di scissione e, pertanto, resta di totale ed esclusiva competenza della società scissa”, la ricorrente si limita a richiamare il contenuto delle norme del codice civile, in tema di scissione.
2.3 Prima ancora di esaminare, nello specifico, le deduzioni della ricorrente, occorre sviluppare alcune riflessioni in ordine all’iniziativa assunta – nel 2011 dagli amministratori della RAGIONE_SOCIALE per far fronte – apparentemente – alla conclamata insolvenza dell’impresa. Non v’è dubbio che i soci di enti collettivi abbiano il diritto di procedere alla divisione del patrimonio sociale mediante costituzione di nuove società e attribuzione alle stesse di tutto o parte del patrimonio dell’ente, al fine di realizzare interessi personali dei soci o dell’ente stesso. Tale operazione, che è, in astratto, perfettamente lecita e può essere sospinta dalle più varie necessità (risolvere conflitti tra soci, ridefinire gli asse societari, riorganizzare le attività d’impresa, affrontare situazioni di crisi) deve far i conti, però, con i vincoli posti dalla legge a protezione dei creditori e dei terz che sono entrati in contatto con l’impresa, al fine di evitare che strumenti legali si trasformino in mezzi per deprimere i diritti dei terzi. Pertanto, se in condizioni ordinarie le operazioni di trasformazione societaria (scissione, scorporo, fusione, incorporazione) possono essere realizzate, esclusa pur sempre la fraudolenza, in completa autonomia, spettando ai creditori la facoltà di accettare la trasformazioni od opporsi ad essa (art. 2503 cod. civ., richiamato dall’art. 2506-ter cod. civ.), tale possibilità subisce rilevanti condizionamenti nelle situazioni di crisi o di vera e propria insolvenza societaria, allorché i riassetti societari e i connessi movimenti del patrimonio sono idonei a incidere significativamente sulle garanzie dei creditori e sulla soddisfazione dei loro diritti. Anche nelle situazioni di crisi o di insolvenza infatti, il patrimonio dell’imprenditore, seppur insufficiente rispetto al obbligazioni da soddisfare – rappresenta pur sempre la garanzia generica dei crediti e, anche nelle situazioni di crisi, si pone la necessità di assicurare il paritar concorso dei creditori sui beni del debitore, salvi i diritti di preferenza ad ess accordati. E’ questo il motivo per cui, legge fallimentare, trattando, in apposita sezione (sezione terza del capo terzo, L. Fall. applicabile ratione temporis), “degli effetti del fallimento sugli atti pregiudizievoli ai creditori”, contempla la revocabili – in considerazione della loro offensività – di una molteplicità di atti, che incidono sui diritti dei creditori (o perché sottraggono loro dei beni, o perché alterano la par Corte di Cassazione – copia non ufficiale
condicio creditorum) e sancisce la irrevocabilità di altri atti, se posti in essere all condizioni stabilite dalla legge stessa: tra cui, oltre agli atti necessari al svolgimento dell’attività caratteristica, gli atti posti in essere in esecuzione di u “piano attestato di risanamento”, ovvero gli atti posti in essere in esecuzione di un concordato preventivo (art. 67, comma 2, lett. c) e d)). E, sempre per lo stesso motivo, la legge fallimentare consente alle imprese – al fine di favorire la loro uscita controllata dalla crisi – di stipulare con i creditori “accordi di ristrutturazi dei debiti”, sottoposti al vaglio dell’Autorità Giudiziaria, con cui viene contrattat coi creditori rappresentanti almeno il sessanta per cento dei crediti, una soluzione concordata dell’indebitamento, a condizione che l’accordo sia idoneo ad assicurare l’integrale pagamento dei creditori estranei all’accordo stesso (art. 182/bis L.F.). Da tali previsioni – certamente influenti sul giudizio di competenza del giudice penale, per il carattere unitario dell’ordinamento giuridico – si trae la conferma che l’impresa in crisi non ha più l’ampia libertà riconosciuta dallo statuto dell’impresa, ma, oltre a dover agire con prudenza aggiuntiva, deve, allorché determina spostamenti del proprio patrimonio, tenere conto del particolare contesto in cui si sviluppa la sua attività e delle “opportunità” offerte dall’ordinamento (opportunità che rappresentano altrettanti indici della direzione in cui – secondo il legislatore è auspicabile si muova); e, comunque, astenersi da comportamenti aventi impatto negativo sui diritti dei creditori: o nel senso di diminuire la garanzia per lor rappresentata dal patrimonio dell’impresa, o nel senso di attuare politiche discriminatorie tra coloro che hanno aspettative su quel patrimonio.
2.3.1 Nella specie, nessuna incongruenza o illogicità è ravvisabile nella motivazione della sentenza impugnata, che ha ravvisato profili di illiceità nella scissione parziale della RAGIONE_SOCIALE attuata col trasferire, alla società di nuova costituzione, le principali attività d’impresa, senza trasferire alla stessa i relat debiti, rimasti integralmente a carico della società scissa.
Con motivazione congrua ed immune da vizi, la Corte di merito ha ritenuto sussistere la responsabilità concorsuale della imputata, nell’operazione di scissione parziale, in quanto la stessa, socia della RAGIONE_SOCIALE al 51%, ha prestato il consenso al progetto di scissione.
Va rilevato, innanzitutto, che – contrariamente all’assunto della ricorrente – la società beneficiaria non era gravata da alcun debito della società scissa, rispetto alla quale la società beneficiaria ha assunto responsabilità solidale “nei limiti del valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato” (art. 2506-quater cod. civ.). A tanto conseguono plurime conseguenze negative per i creditori della RAGIONE_SOCIALE, che, per agire nei confronti della società beneficiaria – per far valere i lo crediti di natura non tributaria – devono, in primo luogo, escutere la società scissa, non essendo stato trasferito alla beneficiaria nessuno dei debiti della prima (la
responsabilità della beneficiaria è, in questo caso, sussidiaria, dal momento che obbligata principale è rimasta la M.I.R. s.r.I.); in secondo luogo, devono munirsi di apposito titolo, nei confronti della beneficiaria, che accerti la misura dell’obbligo insorto a carico di quest’ultima per effetto della scissione.
Ne consegue, quindi, che i creditori della società scissa devono agire nei confronti di più coobbligati, laddove, come presumibile, non sia capiente il patrimonio netto trasferito alla beneficiaria (fermo restando che devono agire, previamente, nei confronti della società scissa, ossia la RAGIONE_SOCIALE). Da ciò si arguisce che, con la scissione di cui si discute, la posizione dei creditori della RAGIONE_SOCIALE ha subito – giusto il rilievo del Tribunale – un mutamento nettamente peggiorativo.
Altre conseguenze negative si sono determinate, poi, per la totalità del ceto creditorio, atteso che tutti i beni della RAGIONE_SOCIALE sono stati posti al servizi una diversa realtà imprenditoriale, senza che vi sia stato un corrispondente alleggerimento della sua posizione debitoria; inoltre, la RAGIONE_SOCIALE ha perso il controllo sulla destinazione dei beni attribuiti alla beneficiaria, esponendosi al rischio, nient’affatto teorico, che i beni trasferiti – su cui, seppur in via sussidiar avrebbero potuto rivalersi i suoi creditori – siano destinati ad altre finalità, oltre subire, in prospettiva, la concorrenza dei creditori della beneficiaria. In maniera del tutto logica, sotto il profilo dei fumus, è stato, quindi, desunto che lo scopo vero della trasformazione societaria in parola, (la scissione, appunto), non fu quello di dar corso ad una riorganizzazione societaria, in vista di un proficuo proseguimento dell’attività d’impresa, ma di lasciare ai creditori una scatola vuota, del tutto inservibile in funzione degli scopi cui è, per legge, destinato il patrimonio dell’impresa.
Tanto premesso, nella specie, i giudici di merito hanno ritenuto integrata la bancarotta fraudolenta distrattiva e la responsabilità concorsuale della imputata, che socia della RAGIONE_SOCIALE sin dalla costituzione nonché amministratore unico, dal 14.07.2005 fino al 6.10.2010, dunque, soggetto a conoscenza delle vicende societarie e delle condizioni della compagine societaria, fortemente critiche nel 2010, per redditi ininfluenti e progressivo indebitamento con fornitori e verso il sistema bancario, partecipa, quale contraente, al contratto di scissione parziale non proporzionale della RAGIONE_SOCIALE che prevedeva il conferimento delle attività produttive (avviamento e immobilizzazioni materiali necessarie per l’esercizio dell’impresa e accollo dei fornitori strategici) alla RAGIONE_SOCIALE, società riconducibil alla COGNOME e costituita allo scopo, al precipuo fine dello svuotamento delle potenzialità produttive di attivo e il mantenimento, in capo alla società scissa, dei propri debiti, in tal modo rimasti privi di realizzo.
2.4 Questa Corte ha già avuto modo di affermare come qualunque negozio dispositivo (V., a titolo meramente esemplificativo, Sez. 5, n.34464 del 14/05/2018, COGNOME, Rv. 273644 in tema di cessione di ramo d’azienda; Sez. 5, n.16748 del 13/02/2018, COGNOME, Rv. 272841 in materia di affitto di beni aziendali; Sez. 5, n. 30212 del 11/04/2017, COGNOME, Rv. 270872, in merito a concessione di pegno in favore di società infragruppo; Sez., n. 12748 del 03/03/2020, COGNOME, Rv. 279198 in fattispecie relativa a contratto di “sale and lease back”) e qualunque operazione societaria (V. Sez. 5, n. 1984 del 2019, non massimata; Sez. 5, n.20370 del 10/04/2015, Piscedda, Rv. 264078 in materia di scissione; Sez. 5, n. 9398 del 18/12/2019 – dep. 2020, COGNOME, Rv. 278323 in tema di scissione) possono assumere valenza distrattiva o dissipativa, e ciò tanto nel caso in cui non si configurino correlativi incrementi patrimoniali o economici in favore della disponente (Sez. 5, n. 44891 del 15 9/10/2008, P.M. in proc. COGNOME, Rv. 241830), quanto in quello in cui l’operazione stessa avvenga al preciso scopo di trasferire la disponibilità dei beni societari ad altro soggetto giuridico in previsione del fallimento (Sez. 5, n. 46508 del 27 novembre 2008, COGNOME e altri, Rv. 242614; Sez. 5, n. 3302 del 28 gennaio 1998, COGNOME, Rv. 209947; Sez. 5, n. 11207 del 29 ottobre 1993, COGNOME ed altri, Rv. 196456).
Principi affermati, nella massima espressione nomofilattica, dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. U., n. 22474 del 31/03/2016, COGNOME, Rv. 266804) secondo cui, una volta intervenuta la sentenza dichiarativa di fallimento, i fatti pregiudizievoli delle ragioni dei creditori assumono rilievo in qualsias momento siano stati posti in essere, quando ne abbiano messo in pericolo la soddisfazione, ed anche in presenza di un’iniziativa economica in sé legittima, che si riferisca ad una impresa in stato pre-fallimentare, producendo riflessi negativi per i creditori (Sez. 5, n.24024 del 01/04/2015, COGNOME, Rv. 263943), anche quando siffatto effetto depressivo consegua a negozi traslativi e ad operazioni societarie che abbiano impedito alla fallita la possibilità di proseguire utilmente l’attività, con conseguente sottrazione di ogni garanzia per i creditori.
In siffatte ipotesi, è stato rimarcato – come dato coessenziale alla perseguibilità dei reati commessi dall’imprenditore (ovvero, negli organismi collettivi, dai suoi amministratori e dagli altri soggetti indicati nell’art. 223 I. – il rilievo conferito ad operazioni con indici di fraudolenza che, una volta dichiarato il fallimento, attualizzano l’offesa all’interesse tutelato dalle norme penal fallimentari, realizzando l’elemento cui è, per legge, subordinata la punibilità del trasgressore. Ed a tale dato formale si aggiunge, peraltro, l’esigenza di assicurare la punibilità di condotte che realizzano il paradigma normativo dei reati in questione e di impedire – attraverso operazioni di spinoff o di trasformazione societaria – facili elusioni della normativa fallimentare, particolarmente agevole
nei gruppi di società e in quelli caratterizzati da rapporti interpersonali tra i suo membri. Nel percorso ermeneutico sommariamente riportato, un ruolo fondamentale è riservato all’elemento psicologico e, in particolare, alla funzione selettiva del dolo. In particolare, muovendo dalla natura di reato di pericolo concreto – della bancarotta fraudolenta, è stato rimarcato come il dolo generico non richieda né la volontà di cagionare il fallimento, né la consapevolezza dello stato di insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di conferire al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte (Sez. U, Rv. 266804, ibidem; Sez. 5, n. 38396 del 23/06/2017, COGNOME, Rv. 270763, Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, COGNOME, Rv. 269388), con la rappresentazione «della pericolosità della condotta distrattiva, da intendersi come probabilità dell’effetto depressivo sulla garanzia patrimoniale che la stessa è in grado di determinare e, dunque, la rappresentazione del rischio di lesione degli interessi creditori tutelati dalla norma incriminatrice» (Sez. 5, n. 15613 del 05/12/2014 – dep. 2015, COGNOME ed altri, Rv. 263801).
La sentenza COGNOME ha, in particolare, specificato come l’accertamento dell’elemento oggettivo della concreta pericolosità del fatto distrattivo e del dolo generico debba valorizzare la ricerca di “indici di fraudolenza”. In tal senso, sono stati declinati, a titolo esemplificativo, specifici indicatori, quali la disamina de condotta alla luce della condizione patrimoniale e finanziaria dell’azienda, nel contesto in cui l’impresa ha operato, avuto riguardo a cointeressenze dell’amministratore rispetto ad altre imprese coinvolte, la irriducibile estraneità del fatto generatore dello squilibrio tra attività e passività rispetto a canoni d ragionevolezza imprenditoriale, necessari a dar corpo, da un lato, alla prognosi postuma di concreta messa in pericolo dell’integrità del patrimonio dell’impresa, funzionale ad assicurare la garanzia dei creditori, e, dall’altro, all’accertamento in capo all’agente della consapevolezza e volontà della condotta in concreto pericolosa. Trattasi, dunque, dell’enunciazione di un metodo valutativo dell’elemento soggettivo del reato quanto più aderente alle specifiche circostanze del caso concreto, che – pur enunciato in riferimento al reato di cui agli artt. 216, 223 L. Fall. – finisce con l’assumere valenza ai fini dell’indagine indiziaria sull’elemento soggettivo anche in riferimento alle ulteriori fattispecie incriminatrici previste dalla legge fallimentare. Entro siffatta cornice ricostruttiva si staglia dunque, come indagine essenziale e preliminare, in tema di reati fallimentari, quella che involge la pericolosità della condotta e gli indici che ne rivelino la consapevolezza. Il tema del nesso causale si declina, invece, diversamente – al pari delle implicazioni che il medesimo produce sulla specificazione dell’elemento
soggettivo – in riferimento alle diverse fattispecie di reato delineate nella legge fallimentare.
3. Al rigetto del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 14/05/2025.