Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 3412 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 4 Num. 3412 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 13/12/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a PAOLA il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 24/10/2022 della CORTE APPELLO di CATANZARO
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette/septle conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Catanzaro, con ordinanza del 24/10/2022, ha rigettato l’istanza di riparazione proposta da NOME per la dedotta ingiusta detenzione patita nell’ambito di un procedimento nel quale era chiamato a rispondere del delitto di cui all’art. 74 d.P.R, 309/90. Da tale imputazione il richiedente era stato assolto con sentenza della Corte di Assise di appello di Catanzaro divenuta irrevocabile il 30/10/2018.
Il giudice della riparazione ha individuato comportamenti ostativi al riconoscimento dell’indennizzo, ponendo in evidenza il contenuto di talune conversazioni intercettate nel corso del procedimento ed i rapporti di frequentazione accertati con altri coimputati del medesimo procedimento, taluni dei quali condannati per avere preso parte alla organizzazione oggetto di contestazione.
Ha proposto ricorso per cassazione il richiedente, a mezzo del suo difensore, il quale ha articolato nel motivo unico proposto le seguenti ragioni di doglianza.
Violazione di legge e vizio di motivazione della ordinanza impugnata.
La Corte di appello di Catanzaro ha ravvisato l’insussistenza dei presupposti del diritto alla riparazione di cui all’articolo 314 cod. proc. pen., individuando nel comportamento serbato dal richiedente gli estremi della colpa grave preclusiva al riconoscimento dell’indennizzo richiesto. Ha quindi rigettato l’istanza di equa riparazione per la detenzione subita da COGNOME NOME, accusato del reato di cui all’articolo 74 d.P.R 309/90 ed assolto in via definitiva con formula “per non aver commesso il fatto”. Con l’ordinanza impugnata ha dimostrato di non aver fatto buon governo dei principi fissati dalla Suprema Corte in materia di indennizzo da ingiusta detenzione.
In particolare, la Corte d’appello non si è adeguatamente confrontata con le motivazioni a sostegno della sentenza assolutoria. Il dolo e la colpa grave idonei ad escludere l’indennizzo per ingiusta detenzione devono sostanziarsi in comportamenti specifici che abbiano dato causa alla instaurazione dello stato privativo della libertà o abbiano concorso a darvi causa, sicché è ineludibile l’accertamento del rapporto causale eziologico tra tali condotte ed il provvedimento restrittivo.
Le argomentazioni addotte nella ordinanza si limitano a ripercorrere il contenuto della sentenza assolutoria senza realmente dare conto della incidenza dei comportamenti individuati sull’evento detentivo.
La Corte territoriale trascura di considerare come la valutazione del giudice della riparazione si svolga su un piano diverso ed autonomo rispetto a quello del giudice della cognizione penale pur dovendo eventualmente operare sullo stesso materiale. Egli deve quindi valutare non la sussistenza o meno di una ipotesi di reato ed eventualmente la sua riconducibilità all’imputato, ma la ricorrenza di condotte che abbiano concorso a produrre l’evento detenzione, inducendo in errore l’autorità giudiziaria. Il giudice della riparazione deve quindi seguire un iter logico motivazionale del tutto autonomo rispetto a quello del giudice del processo penale.
La motivazione della ordinanza impugnata si appalesa manifestamente illogica e giuridicamente viziata nella misura in cui pone a fondamento della propria decisione elementi fattuali di segno negativo, la cui sussistenza risulta esclusa nella sentenza assolutoria. Oltretutto, la decisione emessa dalla Corte di appello di Catanzaro non risulta adeguatamente ed esaustivamente motivata e non risulta strutturata secondo le corrette regole della logica. Non è dato cogliere quali siano stati i comportamenti pacificamente attribuiti al richiedente e perché siano stati interpretati dagli investigatori come gravemente indiziari.
Non può trascurarsi di considerare come la colpa ostativa richieda condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di legge e regolamenti; pertanto, non è sufficiente individuare una condotta che possa ragionevolmente apparire agli inquirenti espressione di indizi di reità.
Occorre che tale condotta sia tale da poter essere percepita dall’agente medesimo come manifestazione di eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di legge e regolamenti.
In tema di riparazione per ingiusta detenzione, con orientamento costante della Corte di Cassazione, qualora sia stato ascritto un illecito plurisoggettivo, oltre alla condotta macroscopicamente negligente o imprudente dell’istante deve necessariamente ricorrere un elemento aggiuntivo, rappresentato dalla consapevolezza dell’altrui condotta illecita. Nel caso che occupa, la Corte di appello fa scaturire il grado di colpa grave ostativa al diritto della riparazione dalle frequentazioni ambigue con soggetti coinvolti in traffici illeciti, senza nulla spiegare circa le relazioni che l’istante aveva con la criminalità organizzata e l’eventuale comportamento negligente o imprudente tenuto dallo stesso.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, con requisitoria scritta, ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il Ministero resistente, costituito a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato, ha concluso per il rigetto del ricorso con vittoria di spese.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I motivi di doglianza sono infondati, pertanto il ricorso deve essere rigettato.
Il giudice della riparazione, dopo avere richiamato i principi informatori della materia ed essersi soffermato sul contenuto dei provvedimenti di merito, ha illustrato in maniera puntuale e corretta le ragioni giustificatric del rigetto della domanda.
L’art. 314 cod. proc. pen., com’è noto, prevede al primo comma che “chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, ha diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita, qualora non vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.
In tema di equa riparazione per ingiusta detenzione, dunque, costituisce causa impeditiva all’affermazione del diritto alla riparazione l’avere l’interessato dato causa, per dolo o per colpa grave, all’i nstaurazione o al mantenimento della custodia cautelare (art. 314, comma 1, ultima parte, cod. proc. pen.).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno da tempo precisato che è dolosa – e conseguentemente idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo, ai sensi dell’art. 314, primo comma, cod. proc. pen. – non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso confliggente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id quod plerumque accidit, secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo (Sez. U, n. 43 del 13/12/1995 dep. il 1996, COGNOME ed altri, R. 203637).
La nozione di colpa, ricavabile invece dall’art. 43 cod. pen., impone, nel giudizio riparatorio, di ritenere colposa quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme
disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione d’intervento dell’autorità giudiziaria.
Si è quindi sostenuto che il diritto alla riparazione per l’ingiusta detenzione non spetti se l’interessato abbia tenuto consapevolmente e volontariamente una condotta tale da creare occasioni di doveroso intervento dell’autorità giudiziaria o se abbia serbato una condotta che, per evidente negligenza, imprudenza, trascuratezza o inosservanza di leggi o regolamenti o norme disciplinari, sia stata idonea a determinare una situazione tale da costituire una prevedibile ragione di intervento dell’autorità giudiziaria (Sez. 4, n. 43302 del 23/10/2008, Tucci, Rv. 242034).
Quanto ai rapporti con il giudizio di cognizione, si è precisato che il giudice della riparazione, ai fini dell’accertamento della sussistenza della colpa grave (o del dolo) dell’interessato, pur dovendo operare eventualmente sullo stesso materiale probatorio acquisito dal giudice della cognizione, “deve seguire un iter logico-motivazionale del tutto autonomo, perché è suo compito stabilire non se determinate condotte costituiscano o meno reato, ma se esse si sono poste come fattore condizionante, anche nel concorso dell’altrui errore, alla produzione dell’evento ” (cfr. Sez. U, Sentenza n. 51779 del 28/11/2013, Nicosia, Rv. 257606 – 01).
Il giudizio d’idoneità delle condotte a indurre in errore il giudice della cautela deve essere effettuato “ex ante” secondo criteri di ragionevolezza (Sez. 4, n. 1705 del 10.3.2000, dep. il 12.4.2000, Rv. 216479).
Da quanto precede discende che è consentita al giudice della riparazione la rivalutazione dei fatti non nella loro valenza indiziaria o probante, ma in quanto idonei a determinare, in ragione di comportamenti connotati da macroscopica negligenza od imprudenza, l’adozione della misura, con l’unico limite rappresentato dal fatto che il giudice della riparazione non può ritenere esistenti circostanze escluse in sede di cognizione. Infatti il giudizio per la riparazione dell’ingiusta detenzione è del tutto autonomo rispetto al giudizio penale di cognizione, impegnando piani di indagine diversi, che possono condurre a conclusioni differenti sulla base dello stesso materiale probatorio acquisito agli atti (cfr. Sez. 4, n. 12228 del 10.1.2017, Rv. 270039).
2.1 Quanto ai limiti del sindacato esperibile in questa sede sulla motivazione del provvedimento, secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, nei GLYPH procedimenti di riparazione per ingiusta detenzione la cognizione del giudice di legittimità deve intendersi limitata, ove le critiche difensive siano rivolte alla motivazione del provvedimento, al solo aspetto della congruità e logicità del discorso giustificativo espresso nel provvedimento impugnato, non potendo investire il merito della vicenda. Ciò ai sensi del combinato disposto di cui all’articolo 646 secondo capoverso cod. proc. pen.,
da ritenersi applicabile per il richiamo contenuto nel terzo c:omma dell’articolo 315 cod. proc. pen.
Il fatto che nella procedura per il riconoscimento di equo indennizzo per ingiusta detenzione il giudizio si svolga in un unico grado di merito (innanzi alla Corte di appello) non autorizza a ritenere che la Corte di Cassazione possa giudicare anche nel merito: tale estensione di giudizio non è ricavabile da alcuna disposizione. Al contrario, l’art. 646′ comma terzo, cod. proc. pen. (al quale rinvia l’art. 315 ultimo comma cod. proc. pen.) stabilisce semplicemente che avverso il provvedimento della Corte di Appello gli interessati possano ricorrere per Cassazione: conseguentemente tale rimedio rimane contenuto nel perimetro della previsione normativa di cui all’art. 606 cod. proc. pen., con tutte le limitazioni in essa previste (cfr. ex multis, Sez. 4, n. 542 del 21/4/1994, Bollato, Rv. 198097).
La puntualizzazione è indispensabile per rimarcare come, nella materia che occupa, debba escludersi che possano formare oggetto di doglianza profili tendenti ad investire una rivalutazione degli elementi considerati dal giudice della riparazione, salvo che non si individuino evidenti errori logici e macroscopiche incongruenze nel ragionamento posto a sostegno della decisione assunta.
Tutto ciò premesso, deve ritenersi esente dai vizi lamentati nel ricorso il discorso giustificativo posto a fondamento del provvedimento impugnato, in cui è stata individuata nella condotta serbata dal ricorrente una colpa grave ostativa al riconoscimento della riparazione per ingiusta detenzione.
Nel merito, il giudice della riparazione, richiamando il contenuto della ordinanza di custodia cautelare e della sentenza assolutoria, ha rimarcato l’acclarata esistenza di rapporti di frequentazione intrattenuti dal ricorrente con esponenti della cosca “RAGIONE_SOCIALE“, che aveva esteso i propri interessi illeciti sulla costa tirrenica, nel territorio calabrese di Paola.
Si legge nella ordinanza che sono state intercettate conversazioni tra COGNOME e soggetti intranei all’organizzazione (in particolare COGNOME NOME), in cui si faceva riferimento a traffici di stupefacenti ai quali era interessato tal “NOMENOME, soprannome di COGNOME NOMENOME elemento di spicco della organizzazione.
L’NOME, in prossimità del circolo ricreativo da lui gestito, era stato controllat in compagnia di COGNOME NOMENOME Sempre in prossimità del suddetto circolo era stata rinvenuta sostanza stupefacente del tipo cocaina confezionata in modo analogo a quella rinvenuta nell’abitazione di COGNOME NOME, a cui si faceva riferimento nel corso delle conversazioni intercettate, il quale gestiva il circolo unitamente ad COGNOME.
Il giudice della riparazione ha poi messo in evidenza come il richiedente, condannato in primo grado e poi assolto in appello, fosse stato ritenuto pacificamente dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti, sebbene tale circostanza non fosse stata ritenuta sufficiente a dimostrare la sua intraneità nell’associazione.
L’ordinanza ha fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di configurabilità dell’elemento ostativo della colpa grave nell’ipotesi di frequentazioni “ambigue” con soggetti coinvolti in attività illecite.
Secondo consolidato orientamento di questa Corte, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, la condizione ostativa al riconoscimento del diritto all’indennizzo può essere integrata anche da comportamenti quali le frequentazioni ambigue con i soggetti condannati nel medesimo procedimento, purchè il giudice della riparazione fornisca adeguata motivazione della loro oggettiva idoneità ad essere interpretate come indizi di complicità (così, ex multis, Sez. 4, n. 53361 del 21/11/2018, Rv. 274498 01). Ebbene, la motivazione della ordinanza impugnata soddisfa i requisiti richiesti ai fini di una valida applicazione del principio richiamato: il contenuto delle conversazioni intervenute con COGNOME NOME, oltre a dimostrare rapporti di familiarità e frequentazione con esponenti deVa organizzazione, era tale da ingenerare nell’Autorità inquirente il ragionevole convincimento che gli argomenti trattati si riferissero a traffici di stupefacenti a cui COGNOME interessato.
Pertanto, la Corte territoriale ha proceduto ad una puntuale valutazione del comportamento posto in essere dal richiedente, reputando detto comportamento come gravemente colposo, tenuto conto, con valutazione ex ante, delle circostanze conosciute dall’Autorità giudiziaria al momento dell’adozione della misura cautelare e valutando, con argomentare logico, la loro idoneità ad indurre in errore il giudice della cautela.
I comportamenti ostativi al riconoscimento dell’indennizzo, come detto sopra, devono essere suscettibili di indurre in errore l’Autorità proc:edente sulla base di criteri di ragionevolezza e secondo Vid plerumque accidit. Il che si è certamente verificato nel caso in esame alla stregua di quanto illustrato in motivazione dal giudice della riparazione.
La ricostruzione dei fatti offerta in motivazione è genericamente avversata nel ricorso.
I motivi di doglianza tendono a prospettare una diversa interpretazione della vicenda e delle circostanze valorizzate in motivazione dai giudici della riparazione. Come già ricordato in precedenza, la rivalutazione degli elementi considerati dal giudice della riparazione non è consentita in questa sede,
salvo che non si individuino evidenti errori logici e macroscopiche incongruenze nel ragionamento posto a sostegno della decisione assunta, evenienza da escludersi con riferimento alle argomentazioni illustrate nella ordinanza.
Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali ed alla rifusione di quelle sostenute dal Ministero resistente che ritiene equo liquidare in complessivi euro mille.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonchè alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente che liquida in complessivi euro mille. In Roma, così deciso in data 13 dicembre 2023
Il Consigliere estensore
GLYPH
Il Presi ente