Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 16122 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 16122 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 26/03/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE contro: CHIANDAMO NOME nato a MESSINA il 25/05/1970
avverso l’ordinanza del 21/11/2024 della CORTE APPELLO di REGGIO CALABRIA udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette le conclusioni del PG
RITENUTO IN FATTO
Con ordinanza del 21.11.2024 la Corte di appello di Reggio Calabria ha accolto la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione avanzata nell’interesse di COGNOME NOME, il quale è stato ristretto in regime di arresti domiciliari dal 25.11.2016 al 15.12.2017 in relazione al reato di cui all’art. 12 quinquies della I. n. 306 del 1992, aggravato ex art. 7 I. n. 203 del 1991, per avere contribuito ad una complessa operazione economica di fittizia intestazione di una società commerciale (la United RAGIONE_SOCIALE) effettivamente riconducibile a COGNOME NOME, capo della cosca ‘ndranghetista COGNOME – COGNOME di Laureana di Borrello (Rc), al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione patrimoniale.
Questa Corte di legittimità dopo un primo annullamento con rinvio di detta misura per difetto di esigenze cautelari, in data 15.12.2017 annullava nuovamente l’ordinanza cautelare.
Quanto al merito, il Tribunale di Palmi con sentenza in data 23.10.2020, divenuta irrevocabile il 19.3.2021, assolveva il Chiandamo dal reato, a lui contestato perché il fatto non costituisce reato.
1.1. La Corte di merito, quale giudice della riparazione, ha ritenuto l’insussistenza di ogni profilo di dolo o di colpa grave addebitabile all’istante ostativo alla concessione dell’indennizzo, atteso che i dati costituenti l’accusa nei suoi confronti erano stati totalmente sviliti dal giudice dell’assoluzione. Ha liquidato, quindi, al richiedente la somma complessiva di 43.395,35 euro, calcolata secondo il metodo aritmetico, ulteriormente aumentata del 10% per danno all’immagine, del 10% per l’incensuratezza, del 20% per l’ulteriore danno connesso alla professione dell’istante documentato dalle dichiarazioni dei redditi prodotte.
Ricorre per la cassazione dell’ordinanza il Ministero dell’ Economia e delle Finanze, tramite l’Avvocatura erariale, affidandosi a due motivi.
Con il primo deduce ex art. 606 lett. e) cod.proc.pen. la motivazione mancante e/o contraddittoria e la conseguente violazione dell’art. 314 cod.prec.pen. in relazione alla ritenuta esistenza del presupposto del non aver concorso con dolo o colpa grave alla custodia cautelare subita.
Si assume che l’ordinanza impugnata esclude che l’istante abbia concorso a dare causa all’ingiusta detenzione con una motivazione che in realtà é solo apparente in quanto si limita a riprodurre lo schema argomentativo usato nella sentenza assolutoria non operando un autonomo accertamento sull’eventuale concorso
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dell’istante e contraddicendo i principi elaborati dalla giurisprudenza di legittimità.
Invece risultano una serie di elementi che consentono di qualificare gravemente colpevole la condotta dell’istante ed in particolare le intercettazioni telefoniche da cui si evince che era stato COGNOME a procurare il denaro al Chiandamo per la costituzione della società e che a questi era nota la fama criminale del primo.
Si assume che la Corte di merito si é limitata a ribadire le ragioni dell’assoluzione senza effettuare le dovute valutazioni in ordine all’esistenza della colpa grave nella condotta di costituzione di una società, in realtà riconducibile a noti criminali.
Con il secondo motivo, in via subordinata, ex art. 606 comma 1, lett. e) cod.proc.pen. deduce la mancanza e la contraddittorietà della motivazione e la conseguente violazione dell’art. 315 cod.proc.pen. nella quantificazione dell’indennizzo.
Si censura la determinazione dell’indennizzo, atteso che il criterio aritmetico che pone a base la somma massima posta a disposizione dall’art. 315, comma 2, cod.proc.pen. consente il pieno ristoro di tutti i danni ipotizzabili, ivi inclu quello da incensuratezza o all’immagine.
Quindi non ha spiegato per quale ragione abbia aumentato l’indennizzo senza considerare tra l’altro che le relative voci di danno posso essere remunerate dalla liquidazione calcolata secondo il metodo aritmetico.
Inoltre la Corte di merito non ha neanche spiegato se avesse escluso anche una colpa lieve dell’istante.
Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione nella requisitoria scritta ha chiesto il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il primo motivo di ricorso è fondato con assorbimento del secondo.
In tema di riparazione per ingiusta detenzione é principio consolidato che vi è totale autonomia tra giudizio penale e giudizio per l’equa riparazione, atteso che i due afferiscono a piani di indagine del tutto diversi che ben possono portare a conclusioni dissimili, pur se fondanti sul medesimo materiale probatorio acquisito agli atti, in quanto sottoposto ad un vaglio caratterizzato dall’utilizzo di parametr di valutazione del tutto differenti. Ciò perché è prevista in sede di riparazione per ingiusta detenzione la rivalutazione dei fatti non nella loro portata indiziaria o probatoria, che può essere ritenuta insufficiente e condurre all’assoluzione, occorrendo valutare se essi siano stati idonei a determinare, unitamente ed a
cagione di una condotta negligente od imprudente dell’imputato, l’adozione della misura cautelare, traendo in inganno il giudice.
È pacifico (cfr. tra le tante Sez. 4, ord. 25/11/2010, n. 45418) che, in sede di giudizio di riparazione ex art. 314 cod. proc. pen. ed al fine della valutazione dell’an debeatur occorra prendere in considerazione in modo autonomo e completo tutti gli elementi probatori disponibili ed in ogni modo emergenti dagli atti, al fine di valutare se chi ha patito l’ingiusta detenzione vi abbia dato o abbi concorso a darvi causa con dolo o colpa grave, con particolare riferimento alla sussistenza di condotte che rivelino eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti.
A tale fine è necessario che venga esaminata la condotta posta in essere dall’istante sia prima che dopo la perdita della libertà personale e, più in generale, al momento della legale conoscenza della pendenza di un procedimento a suo carico (cfr. Sez. U. n. 32383/2010), onde verificare, con valutazione ex ante, in modo del tutto autonomo e indipendente dall’esito del processo di merito, se tale condotta, risultata in sede di merito tale da non integrare un fatto-reato, abbia ciononostante costituito il presupposto che abbia ingenerato, pur in eventuale presenza di un errore dell’autorità procedente, la falsa apparenza della sua configurabilità come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di “causa ad effetto” (cfr. anche la precedente Sez. Un. 26/6/2002, COGNOME).
E a tal fine vanno prese in considerazione tanto condotte di tipo extraprocessuale (grave leggerezza o trascuratezza tale da avere determinato l’adozione del provvedimento restrittivo), quanto di tipo processuale (autoincolpazione, silenzio consapevole sull’esistenza di un alibi) che non siano state escluse dal giudice della cognizione (Sez. 4, n. 45418/2010). La colpa dell’istante è ostativa al diritto per le argomentazioni espresse, tra le altre, da Sez. 4, n. 1710/2014 e da Sez. 4, n. 1422/2014: «… non potendo l’ordinamento, nel momento in cui fa applicazione della regola solidaristica, … obliterare il principio autoresponsabilità che incombe su tutti i consociati, allorquando interagiscono nella società (trattasi, infondo, della regola che trova esplicitazione negli arti 1227 e 2056 c.c.), deve intendersi idonea ad escludere la sussistenza del diritto all’indennizzo … non solo la condotta volta alla realizzazione di un evento voluto e rappresentato nei suoi termini fattuali, sia esso configgente o meno con una prescrizione di legge, ma anche la condotta consapevole e volontaria i cui esiti, valutati dal giudice del procedimento riparatorio con il parametro dell’id quod plerumque accidit secondo le regole di esperienza comunemente accettate, siano tali da creare una situazione di allarme sociale e di doveroso intervento
dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo.
Poiché inoltre, anche ai fini che qui ci interessano, la nozione di colpa è data dall’art. 43 c.p., deve ritenersi ostativa al riconoscimento del diritto al riparazione … quella condotta che, pur tesa ad altri risultati, ponga in essere, per evidente, macroscopica, negligenza, imprudenza, trascuratezza, inosservanza di leggi, regolamenti o norme disciplinari, una situazione tale da costituire una non voluta, ma prevedibile, ragione di intervento dell’autorità giudiziaria che si sostanzi nell’adozione di un provvedimento restrittivo della libertà personale o nella mancata revoca di uno già emesso …».
Venendo al caso in esame, il giudice della riparazione ha accolto l’istanza ex art. 314 cod.proc.pen. ritenendo l’insussistenza di alcun profilo di dolo o colpa grave addebitabile al Chindamo, sul rilievo che ogni profilo della condotta del medesimo era stato esaminato dal giudice dell’assoluzione sicché i dati costituenti l’accusa nei confronti dello stesso “sono risultati sviliti e non residu alcun aspetto valutabile a carico dell’istante, idoneo ad essere ritenuto in tutto o in parte collegabile all’adozione della misura”.
In tal modo tuttavia la Corte d’appello ha erroneamente trasposto nel giudizio ex art. 314 cod.proc.pen. lo schema argomentativo della sentenza assolutoria, senza quindi distinguere il diverso piano ed i differenti elementi su cui i rispettiv giudizi si fondano, non tenendo conto degli elementi posti a base del titolo cautelare e che non risultano essere stati esclusi o dichiarati inutilizzabili ne giudizio di merito.
Il giudice della riparazione deve, infatti, svolgere un’autonoma valutazione volta a stabilire non tanto se la condotta di colui che chiede la riparazione integri gli estremi della fattispecie penale, quanto piuttosto se tale condotta abbia avuto efficacia sinergica nell’indurre l’autorità giudiziaria, nella fase cautelare, ritenere sussistente la gravità indiziaria a suo carico.
Il diritto alla riparazione non può essere riconosciuto sul mero presupposto che il giudice della cognizione penale abbia ritenuto non provato il dolo del delitto che ha dato causa alla misura cautelare; tanto in quanto il giudice della riparazione deve svolgere una diversa valutazione, imperniata sull’apparente fondatezza delle accuse al momento dell’adozione della misura cautelare e sul contributo eventualmente fornito a tale apparenza dal comportamento doloso o macroscopicamente imprudente dell’accusato, tale da indurre in errore l’autorità giudiziaria in merito al suo coinvolgimento nel reato.
Nella specie il giudice della riparazione non ha valutato la condotta tenuta dal COGNOME, legale di fiducia di COGNOME COGNOME come peraltro ricostruita nella stessa ordinanza impugnata, in relazione alla vicenda della RAGIONE_SOCIALE
RAGIONE_SOCIALE né tantomeno la sua efficacia in relazione all’applicazione ed al mantenimento della misura cautelare.
3.
L’ordinanza deve essere, quindi, annullata con rinvio per nuovo esame sul punto alla luce dei principi esposti, in accoglimento del primo motivo, ritenuto
l’assorbimento del secondo e rimessa al giudice del rinvio ogni valutazione in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità.
P.Q.M.
annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Reggio Calabria cui demanda altresì la regolamentazione tra le parti delle
spese processuali di questo giudizio di legittimità.
Così deciso il 26.3.2025