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Rinuncia al ricorso: quando non si pagano le spese

Una donna, madre di un figlio minore, si era vista rigettare l’istanza di detenzione domiciliare speciale. Durante il ricorso in Cassazione, ottiene l’affidamento in prova ai servizi sociali e, di conseguenza, presenta una rinuncia al ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. La Corte Suprema dichiara il ricorso inammissibile ma, in linea con la giurisprudenza consolidata, esclude la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria, non essendovi soccombenza neppure virtuale.

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Pubblicato il 25 ottobre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Rinuncia al ricorso: quando non si pagano le spese processuali

La rinuncia al ricorso per Cassazione è un atto che estingue il processo, ma quali sono le sue conseguenze economiche per chi lo compie? Una recente sentenza della Corte di Cassazione chiarisce un punto fondamentale: se la rinuncia è dovuta a una sopravvenuta carenza di interesse, il ricorrente non è tenuto a pagare né le spese processuali né la sanzione pecuniaria. Analizziamo insieme il caso e le motivazioni della Corte.

Il caso in esame: dalla richiesta di detenzione domiciliare alla rinuncia

Una donna, madre di un figlio di età inferiore ai dieci anni, aveva presentato istanza per ottenere la detenzione domiciliare speciale, una misura alternativa al carcere prevista per tutelare il rapporto genitoriale. Il Tribunale di Sorveglianza aveva respinto la richiesta, ravvisando un pericolo di recidiva basato su una presunta scarsa consapevolezza dei reati commessi.

Contro questa decisione, la donna aveva proposto ricorso per Cassazione, sostenendo che il Tribunale avesse ignorato elementi più recenti che attestavano una sua “maggiore consapevolezza e maturità”, oltre al fatto di non aver mai violato misure precedenti.

La svolta processuale e la sopravvenuta carenza di interesse

Il colpo di scena avviene durante la pendenza del giudizio in Cassazione. Lo stesso Tribunale di Sorveglianza, con un nuovo provvedimento, ammette la donna a una diversa misura alternativa: l’affidamento in prova al servizio sociale.

A questo punto, l’obiettivo per cui era stato presentato il ricorso (ottenere una misura alternativa alla detenzione) era stato raggiunto per altra via. Il ricorso in Cassazione contro il diniego della detenzione domiciliare perdeva quindi ogni utilità pratica. Di conseguenza, la ricorrente ha formalizzato una rinuncia al ricorso per “sopravvenuta carenza di interesse”.

La decisione della Cassazione sulla rinuncia al ricorso e le spese

Preso atto della rinuncia ritualmente proposta, la Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. La questione centrale, tuttavia, riguardava le conseguenze economiche di tale dichiarazione. Normalmente, l’inammissibilità comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della Cassa delle ammende.

In questo caso, però, la Corte ha stabilito diversamente, escludendo qualsiasi addebito a carico della donna.

Le motivazioni: perché non c’è condanna alle spese?

La Corte Suprema, richiamando un principio consolidato e affermato anche dalle Sezioni Unite, ha spiegato che la rinuncia al ricorso, in quanto esercizio di un diritto potestativo, determina l’immediata estinzione del rapporto processuale. Quando tale rinuncia è motivata da una circostanza sopravvenuta che fa venir meno l’interesse a proseguire (come l’ottenimento di un provvedimento favorevole), non si può parlare di “soccombenza”, neppure in senso virtuale.

In altre parole, il processo non si è concluso perché il ricorso era infondato o viziato fin dall’origine, ma perché è diventato inutile. Manca quindi il presupposto della soccombenza, che è la base per la condanna alle spese. Il giudice non arriva a valutare chi avrebbe avuto torto o ragione nel merito, poiché il giudizio si interrompe prima per volontà della parte che non ha più interesse.

Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un importante principio di procedura penale: la rinuncia all’impugnazione per un motivo valido e sopravvenuto, come la carenza di interesse, non equivale a una sconfitta processuale. Pertanto, essa non comporta le conseguenze economiche tipiche di un ricorso rigettato o dichiarato inammissibile per altre ragioni. Si tratta di una tutela fondamentale per il cittadino, che non viene penalizzato economicamente per aver interrotto un’azione legale divenuta, senza sua colpa, superflua.

Cosa succede se si rinuncia a un ricorso in Cassazione?
La rinuncia, se ritualmente proposta, determina l’immediata estinzione del rapporto processuale. Di conseguenza, la Corte di Cassazione dichiara il ricorso inammissibile e la sentenza originariamente impugnata diventa definitiva.

La rinuncia al ricorso comporta sempre la condanna al pagamento delle spese processuali?
No. Come chiarito da questa sentenza, se la rinuncia è motivata da una “sopravvenuta carenza di interesse” (ad esempio, perché nel frattempo si è ottenuto un provvedimento favorevole), la Corte dichiara l’inammissibilità senza condannare il rinunciante alle spese o al pagamento di una sanzione, poiché non si configura una soccombenza, neppure virtuale.

Qual è la differenza tra un ricorso inammissibile per vizi e una rinuncia per carenza di interesse, in termini di costi?
Un ricorso dichiarato inammissibile per vizi originari (es. presentato fuori termine o per motivi non consentiti) comporta di regola la condanna del ricorrente alle spese del procedimento e a una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende. Al contrario, nel caso di rinuncia per carenza di interesse, tale condanna non viene applicata perché manca il presupposto della soccombenza.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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