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Rinuncia al ricorso: quando non si pagano le spese

La Corte di Cassazione dichiara inammissibile un ricorso per sopravvenuta carenza di interesse. Poiché il provvedimento impugnato era stato revocato dal giudice di merito prima della decisione, la rinuncia al ricorso non ha comportato la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali o di ammende. La decisione chiarisce che l’inammissibilità derivante da cause non imputabili ai ricorrenti esclude sanzioni economiche.

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Pubblicato il 14 settembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Rinuncia al ricorso: quando un passo indietro conviene

La rinuncia al ricorso è un atto processuale che può chiudere una vicenda giudiziaria. Tuttavia, le conseguenze economiche di tale scelta non sono sempre scontate. Una recente sentenza della Corte di Cassazione, la n. 7416/2025, offre un importante chiarimento su quando la rinuncia non comporta l’addebito delle spese processuali, introducendo il concetto di “sopravvenuta carenza di interesse” per causa non imputabile al ricorrente.

I Fatti del Caso

La vicenda trae origine da un’ordinanza del Giudice per le Indagini Preliminari (G.I.P.) di un tribunale costiero. A seguito di una sentenza di patteggiamento per vari reati a carico di un imprenditore, il G.I.P., su richiesta di chiarimenti, aveva esteso la confisca a quote societarie e compendi aziendali. Tali beni, sebbene formalmente intestati a due familiari dell’imprenditore, erano stati ritenuti nella sua effettiva disponibilità.

Contro questa estensione della misura ablativa, l’imprenditore e i suoi familiari, in qualità di terzi interessati, avevano proposto ricorso in Cassazione. Essi lamentavano l’anomalia del provvedimento, emesso in assenza di una richiesta del pubblico ministero e dopo che la sentenza di patteggiamento era diventata definitiva. Inoltre, sottolineavano come un altro procedimento avesse già accertato la loro titolarità effettiva dei beni.

La Svolta Processuale e la Rinuncia al Ricorso

Il colpo di scena avviene durante la pendenza del ricorso in Cassazione. Il medesimo G.I.P. che aveva emesso l’ordinanza impugnata, con un nuovo provvedimento, ne disponeva la revoca. Venendo a mancare l’oggetto stesso della contesa, il difensore dei ricorrenti depositava un atto formale di rinuncia al ricorso.

Questa mossa strategica si è rivelata fondamentale. La Procura Generale presso la Corte di Cassazione, infatti, ha richiesto che i ricorsi fossero dichiarati inammissibili proprio a causa della rinuncia intervenuta.

Le motivazioni della Corte sulla rinuncia al ricorso

La Corte di Cassazione ha accolto la richiesta, dichiarando i ricorsi inammissibili. La motivazione, tuttavia, è di grande interesse pratico e si basa sull’articolo 591, comma 1, lettera d), del codice di procedura penale. I giudici hanno stabilito che la rinuncia era una conseguenza diretta della “sopravvenuta carenza di interesse” dei ricorrenti.

In parole semplici, dal momento che il provvedimento dannoso era stato annullato dalla stessa autorità che lo aveva emesso, i ricorrenti non avevano più alcun interesse concreto a ottenere una pronuncia dalla Cassazione. La causa di questa carenza di interesse (la revoca dell’ordinanza) non era in alcun modo colpa loro.

Proprio questo punto è cruciale. La Corte, richiamando un suo precedente orientamento (sentenza n. 15908/2024), ha specificato che quando l’inammissibilità deriva da una sopravvenuta carenza di interesse per causa non imputabile al ricorrente, non si deve applicare la condanna al pagamento delle spese processuali né il versamento di una somma alla Cassa delle ammende. I ricorrenti, pur avendo attivato la macchina della giustizia, non sono stati sanzionati perché la loro iniziativa ha perso di scopo per un evento esterno alla loro volontà.

Conclusioni

Questa sentenza ribadisce un principio di equità processuale fondamentale: la rinuncia al ricorso, se motivata da eventi che risolvono la controversia a monte e non dipendono dal ricorrente, non deve tradursi in un onere economico. Si tratta di una tutela importante per chi si trova a dover impugnare un provvedimento e vede le proprie ragioni riconosciute, anche indirettamente, nel corso del giudizio. La decisione sottolinea come il sistema giudiziario debba tener conto delle dinamiche processuali, evitando di penalizzare le parti quando il motivo del contendere viene meno per ragioni indipendenti dalla loro condotta.

Cosa succede se il provvedimento che ho impugnato viene revocato mentre il mio ricorso è pendente?
In questo caso, viene meno il tuo interesse ad ottenere una decisione, poiché il problema è stato risolto. Di conseguenza, il tuo ricorso può essere dichiarato inammissibile per “sopravvenuta carenza di interesse”.

La rinuncia al ricorso comporta sempre la condanna a pagare le spese processuali?
No. Come chiarito dalla sentenza, se la rinuncia è conseguenza di una sopravvenuta carenza di interesse per una causa non imputabile a chi ha fatto ricorso (ad esempio, la revoca del provvedimento impugnato), non vi è condanna al pagamento delle spese processuali né al versamento di ammende.

Perché la Corte ha dichiarato i ricorsi inammissibili invece di prendere semplicemente atto della rinuncia?
La Corte ha qualificato la rinuncia come una conseguenza della carenza di interesse. La declaratoria di inammissibilità ai sensi dell’art. 591 c.p.p. è la formula processuale corretta per chiudere il procedimento in questi casi, specificando che tale esito non comporta oneri economici per i ricorrenti, proprio perché la causa dell’inutilità del ricorso non dipende da loro.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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