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Rifiuto di consegna: i requisiti di residenza nel MAE

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di un cittadino rumeno contro la sua consegna alle autorità del suo Paese, richiesta tramite Mandato di Arresto Europeo. La Corte ha stabilito che, per il rifiuto di consegna, la residenza continuativa in Italia da almeno 5 anni è un requisito inderogabile, non superabile da altri indici di integrazione sociale. Inoltre, ha chiarito che condizioni di detenzione con spazio individuale inferiore a 3 mq non violano la CEDU se compensate da sufficiente libertà di movimento e altre attività.

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Pubblicato il 13 novembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Mandato di Arresto Europeo: quando il rifiuto di consegna è legittimo?

La recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 14884 del 2024, offre chiarimenti fondamentali sulla procedura del Mandato di Arresto Europeo (MAE), delineando i confini entro cui uno Stato può opporre un rifiuto di consegna di una persona richiesta da un altro Paese membro. La decisione si concentra su due aspetti cruciali: le condizioni di detenzione nello Stato richiedente e, soprattutto, il requisito della residenza continuativa in Italia da almeno cinque anni come presupposto per negare la consegna. Analizziamo la pronuncia per comprendere meglio le sue implicazioni.

I Fatti del Caso

Il caso riguarda un cittadino di nazionalità rumena, destinatario di un Mandato di Arresto Europeo emesso dalla Corte di appello di Bucarest per l’esecuzione di una condanna definitiva per contrabbando di tabacchi. La Corte di appello italiana aveva autorizzato la consegna, ma il condannato ha presentato ricorso in Cassazione basandosi su due motivi principali:
1. La violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), a causa delle presunte condizioni di detenzione inumane e degradanti nel carcere rumeno, con uno spazio vitale per detenuto inferiore ai 3 metri quadrati minimi.
2. L’erronea applicazione della normativa sul rifiuto di consegna (art. 18-bis della L. 69/2005), sostenendo che la Corte di merito non avesse considerato adeguatamente altri fattori di integrazione sociale a prescindere dal mancato raggiungimento dei cinque anni di residenza in Italia.

Rifiuto di consegna e valutazione delle condizioni carcerarie

Il primo motivo di ricorso si basava sulla consolidata giurisprudenza europea, secondo cui uno spazio personale in cella inferiore a tre metri quadrati crea una forte presunzione di trattamento degradante. Il ricorrente sosteneva che, sottraendo lo spazio occupato dagli arredi fissi come il letto a castello, lo spazio calpestabile residuo fosse al di sotto di tale soglia.

La Cassazione, pur riconoscendo questo principio, ha rigettato la doglianza. Ha infatti precisato che tale presunzione è iuris tantum, ovvero può essere superata se lo Stato interessato dimostra la presenza di specifici “fattori compensativi”. Questi fattori, che devono ricorrere congiuntamente, sono:
* La brevità e occasionalità della riduzione dello spazio.
* Una sufficiente libertà di movimento e la possibilità di svolgere attività fuori dalla cella.
* L’adeguatezza generale della struttura detentiva.

Nel caso di specie, le informazioni fornite dalle autorità rumene indicavano che, sebbene lo spazio potesse essere limitato, erano garantiti un periodo di quarantena breve (21 giorni), il diritto di passeggiare quotidianamente, un piano educativo e terapeutico individualizzato, e l’accesso a numerose attività (lavorative, culturali, sportive). Questi elementi, valutati nel loro complesso, sono stati ritenuti sufficienti a superare la presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU, rendendo legittime le condizioni di detenzione.

Il requisito della residenza quinquennale per il rifiuto di consegna

Il secondo motivo di ricorso, anch’esso respinto, è quello di maggiore interesse interpretativo. La legge italiana (art. 18-bis, comma 2, L. 69/2005) prevede la possibilità per la Corte di appello di rifiutare la consegna se la persona richiesta risiede o dimora in Italia in via continuativa da almeno cinque anni, disponendo l’esecuzione della pena nel nostro Paese.

Il ricorrente sosteneva che i criteri di valutazione dell’integrazione sociale (legami familiari, linguistici, economici), introdotti da una riforma del 2023 nel comma 2-bis dello stesso articolo, fossero autonomi e potessero giustificare il rifiuto anche in assenza del requisito dei cinque anni.

La Cassazione ha smentito categoricamente questa interpretazione. Ha chiarito che la previsione della residenza o dimora continuativa per almeno cinque anni costituisce un presupposto necessario e inderogabile. I criteri indicati nel comma 2-bis servono esclusivamente ad aiutare la Corte a verificare la legittimità ed effettività della residenza, ma non possono in alcun modo sostituire il requisito temporale. Pertanto, in mancanza di una permanenza stabile e documentata per un quinquennio sul territorio italiano, il rifiuto di consegna non può essere accordato.

Le motivazioni della Corte

Le motivazioni della Corte Suprema sono lineari e rigorose. Sul primo punto, si allineano alla giurisprudenza europea più evoluta, che adotta un approccio olistico alla valutazione delle condizioni detentive, superando una visione puramente matematica basata sui metri quadrati. La dignità del detenuto è garantita non solo dallo spazio, ma dalla qualità della vita carceraria nel suo complesso. Sul secondo e più decisivo punto, la Corte fornisce un’interpretazione chiara della recente riforma legislativa. Afferma che il legislatore, nell’introdurre gli indici di integrazione, non ha voluto creare una via alternativa al requisito dei cinque anni, ma solo fornire al giudice gli strumenti per un accertamento più approfondito della stabilità del legame della persona con il territorio italiano. La residenza quinquennale rimane la porta d’accesso, senza la quale la valutazione sull’opportunità di eseguire la pena in Italia non può nemmeno iniziare.

Le conclusioni

In conclusione, la sentenza 14884/2024 rafforza due principi cardine in materia di Mandato di Arresto Europeo. In primo luogo, stabilisce che la verifica sulle condizioni carcerarie di un altro Stato membro deve essere concreta e complessiva, non limitandosi a un mero calcolo dello spazio vitale. In secondo luogo, e con ancora maggiore enfasi, ribadisce la natura tassativa e non negoziabile del requisito di una residenza stabile e continuativa di almeno cinque anni in Italia come condizione imprescindibile per poter accordare il rifiuto di consegna e disporre l’esecuzione della pena sul territorio nazionale. Questa pronuncia offre quindi una guida sicura per gli operatori del diritto, delimitando con precisione i margini di discrezionalità del giudice italiano nella cooperazione giudiziaria europea.

Quando le condizioni carcerarie di un altro Stato UE giustificano il rifiuto di consegna?
Le condizioni carcerarie, come uno spazio individuale inferiore a 3 metri quadrati, possono giustificare il rifiuto solo se creano un trattamento inumano o degradante. Tuttavia, se la limitazione dello spazio è compensata da fattori come la breve durata, sufficiente libertà di movimento fuori dalla cella e adeguate attività (lavorative, educative, ricreative), la presunzione di violazione dei diritti umani viene superata e la consegna può essere accordata.

Per rifiutare la consegna di una persona è sempre necessaria la residenza in Italia da almeno 5 anni?
Sì. La sentenza chiarisce che la residenza o dimora legittima ed effettiva in Italia, in via continuativa da almeno cinque anni, è un requisito indispensabile e non derogabile per poter rifiutare la consegna e disporre l’esecuzione della pena in Italia. Altri elementi, come i legami familiari o l’integrazione sociale, servono a verificare la solidità di tale residenza, ma non possono sostituirla.

Come si valuta lo spazio minimo vitale in una cella secondo la giurisprudenza?
La giurisprudenza, sia europea che nazionale, considera uno spazio individuale inferiore a 3 metri quadrati come una forte presunzione (ma non una prova assoluta) di trattamento degradante. Nella valutazione si deve tener conto della superficie calpestabile, escludendo quindi lo spazio occupato da arredi fissi come i letti a castello. Tuttavia, la valutazione finale deve considerare anche i fattori compensativi che possono garantire condizioni di detenzione dignitose.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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