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Ricusazione del giudice: quando non c’è pregiudizio

Un imputato ha richiesto la ricusazione del giudice, sostenendo un pregiudizio derivante da affermazioni fatte in un precedente processo. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, stabilendo che il semplice riferimento a fatti già accertati in sentenze definitive, effettuato per valutare un’aggravante, non costituisce una manifestazione di convincimento tale da giustificare la ricusazione del giudice.

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Pubblicato il 2 novembre 2025 in Giurisprudenza Penale, Procedura Penale

Ricusazione del Giudice: La Cassazione chiarisce i limiti del pregiudizio

L’imparzialità del giudice è uno dei pilastri fondamentali di un giusto processo. Ma cosa succede quando un giudice, nel decidere un caso, fa riferimento a fatti che riguardano lo stesso imputato ma sono stati accertati in un altro procedimento? Questo può essere considerato un motivo valido per la ricusazione del giudice? A questa domanda ha risposto la Corte di Cassazione con la sentenza n. 7867 del 2024, tracciando una linea netta tra la legittima ricognizione di fatti già giudicati e l’indebita anticipazione di giudizio.

I Fatti: una complessa vicenda processuale

Il caso trae origine dall’istanza di ricusazione presentata dalla difesa di un imputato, accusato del grave reato di associazione di tipo mafioso (art. 416-bis c.p.). La richiesta era rivolta contro il Presidente del collegio giudicante della Corte di Appello. Il motivo? Lo stesso magistrato, in un precedente processo per usura aggravata contro il medesimo imputato, aveva fatto parte del collegio che, nel riconoscere l’aggravante mafiosa, si era espresso sull’appartenenza dell’imputato a un’organizzazione criminale.

Secondo la difesa, tale affermazione costituiva una ‘manifestazione di giudizio’ sulla colpevolezza dell’imputato rispetto al reato associativo, che era proprio l’oggetto del nuovo processo. Dopo un iter processuale travagliato, con annullamenti e rinvii, la Corte di Appello aveva infine rigettato l’istanza, sostenendo che il giudice si fosse limitato a una mera ricognizione di fatti già accertati in sentenze definitive.

La questione della ricusazione del giudice e il convincimento del magistrato

Il cuore della questione giuridica risiede nell’interpretazione dell’articolo 37, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale. Questa norma prevede la possibilità di ricusare un giudice se, nell’esercizio delle sue funzioni, ha manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti oggetto dell’imputazione. L’obiettivo è garantire che il giudice arrivi alla decisione finale senza preconcetti.

Il ricorrente sosteneva che il riferimento alla sua posizione di ‘esponente di spicco’ di un’organizzazione criminale, contenuto nella precedente sentenza, fosse una vera e propria valutazione di merito, idonea a minare l’imparzialità del giudice nel nuovo processo. Si trattava, quindi, di stabilire se quella frase fosse un semplice richiamo a precedenti pronunce o un’autonoma e anticipata valutazione di colpevolezza.

La decisione della Corte di Cassazione e il principio di diritto

La Suprema Corte ha dichiarato il ricorso infondato, confermando la decisione della Corte di Appello. I giudici di legittimità hanno chiarito che non ogni valutazione espressa in un procedimento diverso costituisce automaticamente un motivo di ricusazione.

La Corte ha specificato che si ha un’indebita manifestazione di convincimento solo quando il giudice anticipa, senza necessità e senza un nesso funzionale con l’atto che sta compiendo, valutazioni che invadono l’ambito della decisione finale di merito. Nel caso di specie, la situazione era differente.

Le motivazioni della Corte sulla ricusazione del giudice

Il ragionamento della Cassazione si è concentrato sulla natura del riferimento contenuto nella precedente sentenza. La Corte territoriale aveva correttamente evidenziato come la sentenza del 2020 non esprimesse una valutazione autonoma sull’esistenza del clan o sul ruolo dell’imputato. Piuttosto, ai fini di valutare la specifica aggravante contestata in quel processo, si era limitata a una ‘ricognizione incidentale’ di fatti già accertati da sentenze precedenti e divenute irrevocabili.

L’uso del termine ‘riconosciuto’ non implicava un nuovo giudizio, ma un richiamo a quanto già stabilito in altre sedi giudiziarie. Pertanto, non vi è stata alcuna ‘manifestazione di giudizio’ pregiudizievole, ma solo un ‘recepimento’ di fatti già processualmente accertati. Questo recepimento era funzionale e necessario per decidere sull’aggravante in quel contesto, e non invadeva il merito del nuovo processo per associazione mafiosa.

Conclusioni

Questa sentenza offre un importante chiarimento sui confini della ricusazione del giudice. La Corte di Cassazione ribadisce che un giudice non perde la propria imparzialità se, per decidere su un punto specifico (come un’aggravante), fa riferimento a fatti storici già cristallizzati in sentenze definitive. La distinzione fondamentale sta tra esprimere un’opinione nuova e non necessaria sulla res iudicanda e il semplice prendere atto di elementi già accertati in via definitiva, quando ciò sia funzionale alla decisione che si è chiamati a prendere. La decisione, pertanto, rafforza il principio di economia processuale, evitando che un giudice debba essere ricusato solo per aver preso in considerazione il ‘giudicato’ formatosi in altri procedimenti a carico dello stesso imputato.

È possibile ricusare un giudice se ha già espresso un parere sull’imputato in un altro processo?
Sì, è possibile, ma solo se il giudice ha manifestato indebitamente il proprio convincimento sui fatti che sono oggetto del nuovo processo. Se il riferimento a fatti precedenti è una mera ricognizione di quanto già accertato in sentenze definitive ed è necessario per la decisione in corso, non costituisce motivo di ricusazione.

Cosa si intende per ‘indebita manifestazione del proprio convincimento’ da parte di un giudice?
Si tratta di un’anticipazione di valutazioni sul merito della colpevolezza o innocenza dell’imputato, compiuta all’interno dello stesso o di un diverso procedimento, quando tali valutazioni non siano imposte o giustificate dalla sequenza procedimentale e invadano, senza necessità, l’ambito della decisione finale.

In questo caso, perché la Corte ha ritenuto che il riferimento all’appartenenza a un clan non costituisse motivo di ricusazione?
Perché la Corte ha stabilito che tale riferimento non era un’autonoma valutazione del giudice, ma una semplice ricognizione di fatti già accertati in precedenti sentenze divenute irrevocabili. Questo richiamo era funzionale alla valutazione di un’aggravante nel precedente processo e non costituiva un’anticipazione di giudizio sul nuovo reato associativo contestato all’imputato.

La selezione delle sentenze e la raccolta delle massime di giurisprudenza è a cura di Carmine Paul Alexander TEDESCO, Avvocato a Milano, Pesaro e Benevento.

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