Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 22823 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 6 Num. 22823 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 16/04/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOME, nato a Catania il DATA_NASCITA
avverso la ordinanza del 20/09/2023 della Corte di appello di Catania;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del AVV_NOTAIO Procuratore generale NOME COGNOME, che ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Con atto del proprio difensore e procuratore speciale, NOME COGNOME impugna l’ordinanza della Corte di appello di Catania del 20 settembre scorso, che ha dichiarato inammissibile la sua dichiarazione di ricusazione del Presidente del Tribunale di Sorveglianza di quel distretto, dinanzi al quale pende un procedimento nei suoi confronti.
Si legge nell’ordinanza che COGNOME lamenta di essere vittima di una sorta di persecuzione giudiziaria (testualmente un «arbitrio giudiziale»), manifestatasi attraverso il reiterato rigetto di svariate sue istanze, disposto da quel giudice nella sua veste di magistrato di sorveglianza.
Osserva la Corte d’appello che i provvedimenti allegati dall’interessato a sostegno della sua ricusazione non esulano dall’ordinario esercizio dell’attività giurisdizionale, non contengono valutazioni di tipo personale, erano soggetti alle impugnazioni di rito e non presentano alcuna interferenza con il procedimento in atto nei suoi confronti dinanzi al Tribunale di sorveglianza.
Secondo la difesa ricorrente, tale decisione viola gli artt. 36, comma 1, lett. d), e 37, cod. proc. pen., e presenta vizi di motivazione, poiché non esamina il profilo della inimicizia grave, su cui si fondava la dichiarazione di ricusazione, e limita invece la propria analisi all’aspetto delle gravi ragioni convenienza, di cui alla successiva lett. h) della stessa disposizione, tuttavia non prospettato dall’interessato.
Deduce, quindi, il difensore che si verserebbe in un’ipotesi di «inimicizia ideologica tra giudice ed imputato, nata prima ed a prescindere dal processo», di un rapporto, dunque, di tipo personale e privato, perché indipendente dall’esercizio della giurisdizione; aggiunge che l’inimicizia grave, rilevante ai fini della ricusazione, può anche essere unilaterale; e sostiene, infine, che la Corte d’appello non abbia valutato la copiosa documentazione allegata all’istanza.
Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore generale, concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
Il ricorso è inammissibile, per la manifesta infondatezza e la genericità del motivo.
4.1. In primo luogo, non è vero che l’ordinanza impugnata abbia esaminato solamente il profilo delle “gravi ragioni di convenienza”, di cui all’art. 36, comma 1, lett. h), cod. proc. pen., che invece è stato evocato dalla Corte d’appello solo in via incidentale e per escluderne la rilevanza, trattandosi esclusivamente di una possibile causa di astensione ma non di ricusazione.
4.2. Correttamente, poi, in via principale, l’ordinanza ha escluso la configurabilità della “inimicizia grave” tra il giudice ricusato ed il COGNOME, rilevando come i provvedimenti secondo quest’ultimo sintomatici di tale avversione del primo verso di lui fossero, in realtà, perfettamente rituali e non esorbitassero dal legittimo esercizio delle funzioni.
Costituisce consolidata giurisprudenza di legittimità, infatti, quella per cui l’inimicizia grave, intesa come motivo di ricusazione, deve sempre trovare riscontro in rapporti personali estranei al processo ed ancorati a circostanze oggettive, mentre la condotta endoprocessuale può assumere rilievo solo quando presenti aspetti talmente anomali e settari, da costituire sintomatico momento dimostrativo di un’inimicizia maturata all’esterno (per tutte: Sez. 5, n. 5602 del 21/11/2013, dep. 2014, COGNOME, Rv. 258867).
Nello specifico, invece, il ricorrente si è limitato a dedurre che la Corte d’appello non avrebbe esaminato a dovere la documentazione allegata alla dichiarazione di ricusazione, ma non ha spiegato per quale ragione quei documenti sarebbero stati rappresentativi dell’addotta «inimicizia ideologica» e pregiudiziale del giudice verso di lui (che ovviamente può anche non essere reciproca, non potendo certamente l’estromissione del magistrato dal processo essere determinata dall’avversione nutrita nei suoi confronti da chi è sottoposto al suo giudizio).
All’inammissibilità dell’impugnazione consegue obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in tremila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 16 aprile 2024.