Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 45997 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 45997 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 02/10/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME NOME nato negli Stati uniti d’America il 2 novembre 1972;
avverso la sentenza n. 48544/23 della Corte di cassazione, Sezione IV penale, de 18 ottobre 2023;
letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e il ricorso introduttivo;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. NOME COGNOME
letta la requisitoria scritta del PM, in persona del Sostituto Procuratore gen Dott., NOME COGNOME il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso;
letta, altresì, la memoria conclusionale del 30 settembre 2024 redat nell’interesse del ricorrente, dall’avv. NOME COGNOME del foro di Cosenza.
RITENUTO IN FATTO
La Quarta Sezione penale della Corte di cassazione, con sentenza del 18 ottobre 2023, i cui motivi sono stati depositati in data 6 dicembre 2023, ha rigettato il ricorào presentato da COGNOME NOME avverso la ordinanza emessa in data 23 maggio 2022 dalla Corte di appello di Catanzaro e con la quale era stata respinta la istanza presentata dal medesimo COGNOME persona che era stata sottoposta a regime di custodia cautelare in carcere dal 6 settembre 2004 al 25 aprile 2005 e successivamente agli arresti domiciliari dal 26 aprile 2005 al 25 luglio 2006 in quanto indagato in relazione al reato di associazione per delinquere di stampo mafioso e di usura aggravata, di indennizzo per la ingiusta detenzione da lui subita.
Aveva, infatti, fatto presente il COGNOME che, con sentenza del 16 settembre 2006, il Tribunale di Paola, dopo che in sede di udienza preliminare il Gup del Tribunale distrettuale di Catanzaro aveva disposto il proscioglimento del COGNOME per taluni dei reati a lui contestati, ivi compresa la associazion per delinquere, mentre lo aveva rinviato a giudizio per uno solo di essi, lo aveva assolto anche in relazione a tale residuo reato, con la formula “per non aver commesso il fatto”.
Avendo la pubblica accisa proficuamente interposto appello avverso la sentenza del Gup catanzarese, la Corte di appello distrettuale aveva riformato la sentenza da quello emessa quanto al proscioglimento in istruttoria in ordine ai reati diversi dalla associazione per delinquere, di tal che il COGNOME era sta per gli stessi sottoposto a processo di fronte al Tribunale di Paolo; questo, con sentenza del 28 febbraio 2014, aveva assolto il COGNOME in ordine ad uno dei due reati a lui contestati, mentre lo aveva ritenuto responsabile e condannato alla pena di giustizia per il secondo; avendo il prevenuto impugnato la sentenza nella parte in cui la stessa era nel senso della sua condanna, la Corte di appello di Catanzaro, con sentenza divenuta poi definitiva, lo aveva assolto anche con riferimento all’ultimo reato residuato.
Avendo, come detto, il COGNOME presentato istanza per l’indennizzo legato alla custodia cautelare patita, la Corte di appello di Catanzaro, con ordinanza del 23 maggio 2022 aveva rigettato il relativo ricorso, avendo rilevato nel comportamento del COGNOME – consistito nell’avere intrattenuto rapporti di affari con altro coindagato e rapporti connotati da un’opaca ambiguità come dimostrato dalle intercettazioni in atti – l’esistenza della colpa grave ostativ alla indennizzabilità della detenzione patita.
Avverso la predetta ordinanza il COGNOME ha interposto ricorso per cassazione, evidenziando che la Corte calabrese, in tale modo violando l’art. 314 cod. proc. pen., aveva ritenuto essere condizione ostativa all’accoglimento della sua domanda indennitaria condotte che, invece, il giudice del merito aveva ritenuto irrilevanti se non prive di adeguata prova quanto al loro accadimento fattuale.
Con sentenza n. 48544 del 18 ottobre 2023 la Quarta Sezione penale di questa Corte ha rigettato il ricorso del COGNOME avendo osservato che la condotta tenuta dal COGNOME (unitamente ad altra persona all’epoca a lui legata da una relazione sentimentale), i cui contenuti sono stati minutamente descritti nell’arresto del giudice della legittimità, consentiva di esprimere giudizio operato dalla Corte catanzarese in ordine alla natura gravemente colposa del comportamento tenuto dal ricorrente, di tal che legittimamente era stato rigettato il ricorso volto a conseguire l’indennizzo per la ingiust detenzione.
Ora, avverso tale sentenza della Corte di cassazione, ha interposto un ulteriore ricorso, questa volta articolato sotto il profilo della sussistenza di errore di fatto nella citata sentenza della Corte di cassazione, rilevabil secondo il ricorrente sulla base della previsione di cui all’art. 625-bis cod proc. pen., per avere, in occasione della deliberazione della sentenza gravata, la Corte di cassazione omesso di esaminare un vizio del procedimento legato alla mancata convocazione in giudizio di fronte alla Corte di appello di Catanzaro del difensore fiduciario del ricorrente, soggetto diverso da coloro i quali avevano redatto l’originario ricorso, il cui mandato era stato revocato dal COGNOME unici difensori informati della fissazione del procedimento di fronte alla Corte di appello.
Avendo il COGNOME nuovamente conferito mandato ad uno solo dei precedenti suoi difensori (senza, peraltro, revocarlo all’ultimo difensore nominato), questi provvedeva a proporre ricorso per cassazione; tuttavia della celebrazione del relativo giudizio ne veniva informato il solo difensore che aveva sottoscritto l’atto di impugnazione in sede di legittimità e non anche l’altro, mai revocato, difensore dell’istante.
Di tale vizio la Corte di cassazione non si avvedeva, provvedendo a decidere, illegittimamente, nel merito della impugnazione, sebbene il contraddittorio non fosse integro.
Con altro motivo di impugnazione, connesso al precedente, il ricorrente si è lagnato del fatto che la Corte di cassazione, nel provvedere sulla impugnazione della ordinanza della Corte di appello di Catanzaro ha esaminato le sole doglianze formulate nell’atto introduttivo del giudizio, redatto da altro professionista rispetto a quello ora impugnante, mentre non ha tenuto conto degli argomenti difensivi spiegati con latto di impugnazione presentato da quest’ultimo, con il quale era stata, appunto, lamentata la violazione della integrità del contraddittorio già verificatasi di fronte alla Corte territoriale e si chiedeva, pertanto, l’annullamento della ordinanza a suo tempo adottata dalla Corte catanzarese.
A tali censure non vi è traccia di risposta nella sentenza della Corte di cassazione, di tal che, ad avviso del ricorrente, se ne impone l’annullamento ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. con la conseguente adozione dei provvedimenti opportuni.
In data 30 settembre 2024 il difensore del prevenuto ha fatto pervenire una breve memoria illustrativa con la quale, anche in replica agli argomenti contenuti nella requisitoria scritta della Procura generale, ha insistito per raccoglimento del suo ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile e, pertanto, come tale lo stesso deve essere ora dichiarato.
Osserva, infatti, il Collegio che, senza dovere prendere in considerazione il “merito” del ricorso presentato dalla difesa del COGNOME, si deve rilevare che, diversamente da quanto dalla stessa postulato, l’attuale ricorrente non è fra i soggetti che sono legittimati a proporre il ricorso ai sensi dell’art. 625-bis cod. pen.
Come è, infatti, agevole rilevare sulla base di una semplice consultazione del testo della disposizione processuale in questione, questa nel disciplinare i modi ed i termini nei quali è consentito insorgere laddove si ritenga che un provvedimento giurisdizionale emesso dalla Corte di cassazione contenga nel suo interno un “errore materiale o di fatto” – attribuisce, oltre che al Procuratore generale, il relativo potere al “condannato”.
Una siffatta espressione letterale, nel suo inequivoco significato, segna dei precisi confini soggettivi atti a delimitare rigidamente il novero dei soggetti
privati cui l’ordinamento attribuisce il potere di attivare il ricordato strument processuale.
La Corte di cassazione, nella sua opera di prudente esegesi normativa, ha precisato – ritenendo che la, apparentemente inequivoca, espressione normativa sia suscettibile di interpretazione estensiva ma non analogica – che, mentre la legittimazione ad agire ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. è suscettibile di essere riconosciuta anche all’imputato che sia stato condannato al solo risarcimento dei danni in favore della parte civile a condizione che la pronunzia oggetto di impugnazione abbia un contenuto specificamente idoneo a radicare, in capo al ricorrente, la qualifica soggettiva di “condannato” (Corte di cassazione, Sezione III penale, 10 novembre 2015, n. 45031, rv 265439, ma sostanzialmente in tale medesimo senso, già, in precedenza: Corte di cassazione, Sezioni unite penali, 17 luglio, 2012, n. 28719, rv 252695), analogo potere debba essere, invece, escluso in favore del soggetto che, costituitosi parte civile nel processo penale ed avendo impugnato di fronte a questa Corte la sentenza emessa nel giudizio cui egli aveva preso parte, fosse stato condannato, a seguito della dichiarazione di inammissibilità della sua impugnazione, al pagamento di una somma di danaro, secondo la previsione dì cui all’art. 616 cod. proc. pen. in favore della Cassa delle ammende (così: Corte di cassazione, Sezione V penale, 3 agosto 2017, n. 38780, rv 270807).
Analogamente la legittimazione ad agire ex art. 625-bis cod. proc. pen. è stata esclusa in favore del soggetto cui siano ancora in corso le indagini preliminari, sebbene nel corso di esse sia stato emesso da questa Corte, nell’ambito del subprocedimento de libertate, un provvedimento che si assuma essere affetto da errore di fatto o materiale; tale principio è stato affermato sulla base dell’assunto che il provvedimento in questione non è idoneo a rendere irrevocabile una “condanna”, di tal che il suo destinatario non riveste la qualifica soggettiva necessaria per giovarsi del mezzo processuale in discorso (Corte di cassazione, 19 novembre 2021, n. 42518, rv 282077).
Questa breve rassegna di pronunzie della Corte, peraltro limitata alle sole statuizioni più recenti, potrebbe concludersi, ribadendosi la estraneità di chi non sia portatore di una “condanna” in senso tecnico al rimedio offerto dall’art. 625-bis cod. proc. pen., segnalando come questa Corte abbia, ancora di recente, escluso la esperibilità dello strumento da parte del soggetto, terzo rispetto al reato commesso, che abbia visto respingere da questa Corte la sua istanza di restituzione del bene confiscato in esito a giudizio penale, essendo il
rimedio in questione esperibile nei soli confronti di provvedimento con il quale sia divenuto definitiva una sentenza di condanna (Corte di cassazione, Sezione V penale, 1 febbraio 2024, n. 4611, rv 285940), senonché un tale assetto interpretativo è stato di recente movimentato da due pronunzie, si allude a Corte di cassazione, Sezione III penale 5 luglio 2022 n. 25653, rv 283621 ed a Corte di cassazione, Sezione III penale 17 novembre 2022, n. 43608, non massimata, le quali – la prima con dovizia di argomenti, la seconda tramite il semplice richiamo alla precedente – hanno sostenuto che è invece, in linea di principio, ammissibile il ricorso straordinario per errore materiale o di fatto proposto dall’imputato assolto avverso la sentenza della Corte di cassazione di rigetto del ricorso presentato contro l’ordinanza di reiezione della richiesta di riparazione per ingiusta detenzione, non essendo la legittimazione ad agire, ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen., circoscritta a solo condannato, ma potendosi estendere anche a chi, pur precedentemente condannato, sia stato successivamente assolto a seguito di revisione del processo.
Ritiene il Collegio, al di là della condivisibilità o meno del principio in tali occasioni affermato (sul quale appaiono giustificate molteplici riserve, ove si rifletta sulla circostanza che la estensione della legittimazione al ricorso ex art. 625-bis cod. proc. pen. – pur ampiamente argomentata attraverso il rimando sia ai lavori preparatori della novella legislativa cha ha condotto alla introduzione della norma di legge nel codice di rito penale, i quali, nella originaria versione della disposizione in questione, prevedevano l’adito al rimedio impugnatorio a “la parte interessata” e non al solo “condannato”, in tale senso ampliando la platea dei soggetti legittimati, sia alle sollecitazioni che in argomento sarebbero pervenute attraverso talune decisioni assunte dalla Corte costituzionale – parrebbe essere stata motivata nell’occasione dalla Corte di legittimità in funzione del fatto che il soggetto, il quale si era vist rigettare la domanda giudiziale volta ad ottenere l’indennizzo per avere subito un errore giudiziario, era stato, a suo tempo, formalmente condannato con sentenza passata in giudicato ma aveva visto tale pronunzia ribaltata a seguito del positivo esperimento del giudizio di revisione, essendo stata in tale occasione trascurata la circostanza che laddove il legislatore ha utilizzato l’espressione “condannato” non ha fatto riferimento ad un mero dato storico cioè che il soggetto che abbia agito ai sensi dell’art. 625-bis cod. proc. pen. abbia riportato nel suo passato una condanna penale – ma al fatto che questi sia stato condannato ad una pena, o comunque ad una prestazione derivante dall’avvenuto accertamento della commissione del reato, che sia divenuta
definitiva per effetto della sentenza emessa dalla Corte di cassazione ed in relazione alla quale si chiede che sia rilevato l’errore di fatto o materiale in cui sarebbe incorsa detta Corte), che, in ogni caso i due precedenti ora illustrati non appaiono pertinenti rispetto alla presente fattispecie.
Infatti – a differenza di quanto verificatosi nelle due occasioni in cui è stata ritenuta la legittimazione ad agire ex art. 625-bis cod. proc. pen. anche a vantaggio di chi era risultato soccombente nella istanza volta a conseguire l’indennizzo per la indebita privazione della libertà personale introdotta ai sensi dell’art. 643 cod. proc. pen. – nel caso che ha riguardato il COGNOME questi ha, in realtà, agito non per la riparazione dell’errore giudiziario, non essendo mai la sentenza emessa a suo carico divenuta esecutiva e non essendo stato scardinato il giudicato formatosi su di essa per effetto del positivo esperimento del procedimento di revisione ai sensi degli artt. 629 e seg. cod. proc. peri., avendo egli fatto ricorso al giudice per il conseguimento della equa riparazione, in base alla previsione di cui all’art. 314, comma 1, cod. proc. pen.
Ora, mentre nei due casi esaminati dalla giurisprudenza da ultimo richiamati i soggetti che avevano agito per la correzione dell’errore materiale o di fatto avevano effettivamente rivestito, sia pure per effetto di decisione assunta in giudizio diverso rispetto a quello in ordine al quale era stata, poi, introdotto il procedimento ex art. 625-bis cod. proc. pen., la veste di condannati in via definitiva, nella presente fattispecie il COGNOME non è stato mai attinto da una pronunzia dì condanna che abbia conseguito la definitività, essendo stato questo, nella peggiore delle ipotesi (cioè ove non prosciolto già in istruttoria o assolto in primo grado), assolto in grado di appello, di tal che, anche il, peraltro discutibile, principio espresso da questa Corte con le due pronunzie dianzi ricordate, appare (come, d’altra parte questa Corte ha già di recente segnalato in altra occasione, allorchè essa si è dovuta confrontare con altra, analoga, fattispecie: Corte di cassazione, Sezione III penale, 4 giugno 2024, n. 35329, non massimata) non “calzante” rispetto alla presente vicenda e non tale, pertanto, da giustificare il superamento della prevalente, e d’altra parte ancora convintamente condivisa, indicazione giurisprudenziale che limita l’adito al rimedio di cui all’art. 625-bis cod. proc. pen. al solo soggetto che abbia riportato una condanna definitiva in sede penale.
La pacifica non ricorrenza della presente condizione rispetto alla posizione del COGNOME comporta la inammissibilità in radice del ricorso da
questo presentato, trattandosi di ricorso proposto da soggetto a ciò non legittimato; di esso, pertanto, non va affatto esaminata la fondatezza o meno.
Il ricorso proposto deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile ed il ricorrente, visto l’art. 616 cod. proc. pen., va condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di euri 3.000,00 in favore della cassa delle ammende.
PQM
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2024
Il Consigliere estensore
Il Presidente