Ricorso Patteggiamento: Quando l’Appello Diventa Inammissibile
Il patteggiamento è uno strumento processuale che permette di definire il processo penale con un accordo sulla pena tra imputato e pubblico ministero. Ma cosa succede se, dopo aver patteggiato, l’imputato ritiene che il giudice avrebbe dovuto assolverlo? Una recente ordinanza della Corte di Cassazione chiarisce i limiti del ricorso patteggiamento, confermando una stretta interpretazione delle norme introdotte dalla Riforma Orlando. Analizziamo insieme la decisione per capire perché non sempre è possibile contestare una sentenza di patteggiamento.
I Fatti del Caso: Dal Patteggiamento al Ricorso
Nel caso in esame, il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, su richiesta dell’imputato e con il consenso del pubblico ministero, aveva applicato la pena di cinque anni di reclusione e 2.800 euro di multa, oltre all’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Nonostante l’accordo raggiunto, la difesa dell’imputato ha presentato ricorso per cassazione. Il motivo del contendere era la presunta violazione di legge da parte del giudice, reo, secondo il ricorrente, di non aver pronunciato una sentenza di proscioglimento secondo quanto previsto dall’art. 129 del codice di procedura penale. Tale articolo impone al giudice di assolvere l’imputato in ogni fase del processo se emergono prove evidenti della sua innocenza.
La Decisione della Corte sul ricorso patteggiamento
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 19179/2024, ha dichiarato il ricorso inammissibile. La decisione si fonda su una norma specifica, l’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale. Questa disposizione, introdotta con la legge n. 103 del 2017, stabilisce chiaramente che non è possibile presentare un ricorso per cassazione contro una sentenza di patteggiamento per lamentare l’omessa valutazione delle condizioni per un proscioglimento ai sensi dell’art. 129 c.p.p.
La Corte ha quindi applicato la procedura semplificata del rito de plano, decidendo sulla base degli atti senza la necessità di un’udienza pubblica, e ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende.
Le Motivazioni della Suprema Corte
La motivazione della Corte si articola su due principi fondamentali consolidati nella giurisprudenza.
Il primo è l’applicazione diretta e inequivocabile dell’art. 448, comma 2-bis c.p.p. La norma è stata introdotta proprio per limitare i ricorsi dilatori e pretestuosi contro le sentenze di patteggiamento, stabilendo che la scelta di questo rito alternativo implica una parziale rinuncia a far valere determinate questioni in sede di impugnazione.
Il secondo principio, richiamato dalle Sezioni Unite, riguarda l’obbligo di motivazione del giudice. La Corte ha specificato che il giudice che accoglie un patteggiamento non è tenuto a fornire una motivazione dettagliata sul perché non ha prosciolto l’imputato. Una motivazione specifica è richiesta solo se dagli atti processuali o dalle argomentazioni delle parti emergano elementi concreti che facciano dubitare della colpevolezza e suggeriscano una possibile causa di non punibilità. In assenza di tali elementi, si presume che il giudice abbia effettuato la necessaria verifica (anche in modo implicito) e abbia escluso la sussistenza delle condizioni per l’assoluzione.
Nel caso specifico, la Cassazione ha ritenuto che il giudice di merito si fosse correttamente attenuto a questo principio, escludendo la presenza di cause di proscioglimento.
Conclusioni: Le Implicazioni Pratiche della Sentenza
Questa ordinanza conferma un orientamento ormai consolidato che restringe notevolmente le possibilità di impugnare una sentenza di patteggiamento. La scelta di accedere a questo rito comporta una valutazione strategica fondamentale da parte della difesa: il beneficio di uno sconto di pena si accompagna alla quasi impossibilità di contestare successivamente la decisione nel merito.
In pratica, chi patteggia accetta che il controllo del giudice sulla propria colpevolezza sia più superficiale rispetto a un dibattimento ordinario. Il ricorso patteggiamento rimane possibile, ma solo per motivi strettamente procedurali, come errori nel calcolo della pena o vizi nel consenso, e non per rimettere in discussione la valutazione di colpevolezza che il giudice è chiamato a compiere, seppur in forma sintetica, prima di ratificare l’accordo tra le parti.
È possibile fare ricorso contro una sentenza di patteggiamento lamentando che il giudice non mi ha assolto?
No, in base all’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale, il ricorso per cassazione avverso una sentenza di patteggiamento è inammissibile se si contesta la mancata pronuncia di una sentenza di proscioglimento ex art. 129 c.p.p.
Cosa comporta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso?
La dichiarazione di inammissibilità comporta che la Corte di Cassazione non esamina il merito della questione. Inoltre, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese processuali e di una somma di denaro in favore della Cassa delle ammende, che nel caso di specie è stata fissata in 3.000 euro.
Quando il giudice del patteggiamento deve motivare specificamente la decisione di non assolvere l’imputato?
Il giudice deve fornire una motivazione specifica solo quando dagli atti processuali o dalle deduzioni delle parti emergano elementi concreti e evidenti che suggeriscano la possibile applicazione di una causa di non punibilità. In tutti gli altri casi, è sufficiente una motivazione implicita, che consiste nella stessa emissione della sentenza di patteggiamento.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 19179 Anno 2024
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Penale Ord. Sez. 2 Num. 19179 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 27/03/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da COGNOME NOME, nato a Palermo il DATA_NASCITA rappresentato ed assistito dall’AVV_NOTAIO, di fiducia avverso la sentenza in data 15/02/2024 del Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; preso atto che il procedimento viene trattato nelle forme del rito de plano ex art. 610, comma 5 -bis cod. proc. pen.
RITENUTO IN FATTO E CONSIDERATO IN DIRITTO
Con sentenza in data 15/02/2024, il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Palermo, su richiesta dell’imputato e con il consenso del pubblico ministero, ex art. 444 cod. proc. pen., applicava a NOME COGNOME la pena di anni cinque di reclusione ed euro 2.800 di multa, con l’interdizione temporanea dai pubblici uffici.
Avverso la predetta sentenza, nell’interesse di NOME COGNOME, è stato proposto ricorso per cassazione per lamentare violazione di legge in merito alla mancata emissione di sentenza ex art. 129 cod. proc. pen.
Ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. introdotto con la legge 23 giugno 2017, n. 103, è inammissibile il ricorso per cassazione, avverso la sentenza di patteggiamento, con il quale si deduca l’omessa valutazione da parte del giudice delle condizioni per pronunziare sentenza di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen.; in tal caso, la Corte di cassazione provvede a dichiarare l’inammissibilità con ordinanza “de plano” ex art. 610, comma 5 -bis cod. proc. pen. (Sez. 2, n. 4727 del 11/01/2018, COGNOME, Rv. 272014).
Costituisce principio costantemente affermato dalla Suprema Corte, in tema di patteggiamento, che il giudizio negativo circa la ricorrenza di una delle ipotesi di cui al citato art. 129 cod. proc. pen. deve essere accompagnato da una specifica motivazione soltanto nel caso in cui dagli atti o dalle deduzioni delle parti emergano concreti elementi circa la possibile applicazione di cause di non punibilità, dovendo, invece, ritenersi sufficiente, in caso contrario, una motivazione consistente nell’enunciazione – anche implicita – che è stata compiuta la verifica richiesta dalla legge e che non ricorrono le condizioni per la pronuncia di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. (cfr., Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, COGNOME, Rv. 202270; Sez. 1, n. 4688 del 10/01/2007, COGNOME, Rv. 236622). Nel caso di specie, la sentenza impugnata si è attenuta correttamente al suddetto principio escludendo espressamente la sussistenza di una delle cause di cui all’art. 129 cod. proc. pen.
Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma il 27/03/2024.