Sentenza di Cassazione Penale Sez. 6 Num. 52111 Anno 2019
Penale Sent. Sez. 6 Num. 52111 Anno 2019
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 23/10/2019
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a Roma il 03/07/1972
avverso la sentenza del 23/10/2018 del Tribunale di Roma udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME
RITENUTO IN FATTO
1. NOME COGNOME ricorre per cassazione, con atto del suo difensore e procuratore speciale, avverso la sentenza del Tribunale di Roma del 23 ottobre 2018, che, su sua richiesta e con il consenso del Pubblico ministero, gli ha applicato la pena principale di tre anni e quattro mesi di reclusione e 5.333,00 euro di multa in relazione al delitto di cui all’art. 73, comma 4, d.P.R. n. 309 del 1990, altresì dichiarandolo interdetto dai pubblici uffici per cinque anni.
2. Il ricorso si articola in due motivi.
2.1. Con il primo, si lamenta la violazione degli artt. 28, 29 e 37, cod. pen., per avere il Tribunale determinato la durata della pena accessoria in cinque anni, anziché nella minor misura corrispondente a quella della pena detentiva principale.
2.2. Con il secondo, si deduce la violazione degli art. 129 e 444, cod. proc. pen., perché il Tribunale avrebbe omesso qualsiasi valutazione sulla rilevanza penale del fatto, e comunque sulla qualificazione giuridica dello stesso, ricorrendo in motivazione, su questi punti, a mere clausole di stile.
3. Ha depositato requisitoria scritta il Procuratore generale, chiedendo: l’accoglimento del primo motivo di ricorso ed il conseguente annullamento della sentenza con rinvio al giudice di merito, per la nuova determinazione della durata della pena accessoria interdittiva; la declaratoria d’inammissibilità del ricorso nel resto.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Entrambi i motivi di ricorso sono inammissibili.
2. Il primo è manifestamente privo di fondamento giuridico.
Il Tribunale ha espressamente indicato in sentenza che la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici è stata disposta ai sensi dell’art. 29, cod. pe il quale ne determina la durata nella misura fissa di cinque anni.
Non trovano, dunque, applicazione il disposto dell’art. 37, cod. pen., che impone di stabilire la durata della pena accessoria temporanea in misura pari a quella della pena principale, ma che è destinato ad operare soltanto nei casi in cui la durata della prima non sia espressamente determinata dalla legge; né il principio di diritto statuito da questa Corte a Sezioni unite (sentenza n. 28910 del 28/02/2019, COGNOME, Rv. 276286), che fa obbligo al giudice di determinare la
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durata della pena accessoria autonomamente, secondo i criteri dell’art. 133, cod. pen., e senza commisurarla su quella della pena principale, ma solo nel caso in cui la legge ne stabilisca, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo ovvero uno soltanto di essi.
3. Il secondo motivo non è consentito dalla legge.
Dispone, infatti, l’art. 448, comma cod. proc. pen., che 2-bis, «il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza».
Il ricorso, invece, al di là di un riferimento ad un ipotetico errore d qualificazione giuridica, tuttavia totalmente inspiegato e, quindi, meramente labiale, si limita ad enunciare un difetto di valutazione delle risultanze istruttor da parte del giudicante, che indiscutibilmente non rientra in nessuna delle suddette ipotesi tipiche ed esclusive di ricorso avverso le sentenze di c.d. “patteggiamento”.
4. L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente – ai sensi dell’art. 616, cod. proc. pen. – la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro duemila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 23 ottobre 2019.