Ricorso Patteggiamento: Quando è Ammesso in Cassazione?
Il ricorso patteggiamento rappresenta un’area delicata della procedura penale, con limiti ben precisi che ogni operatore del diritto deve conoscere. Una recente ordinanza della Corte di Cassazione ha ribadito con forza questi confini, dichiarando inammissibile l’appello di un imputato che, pur lamentando un’erronea qualificazione giuridica, tentava in realtà di rimettere in discussione l’esistenza stessa dei reati contestati. Questa decisione chiarisce la differenza fondamentale tra un vizio di diritto, ammissibile, e una contestazione di merito, preclusa dopo l’accordo sulla pena.
Il Contesto del Caso: Dal Patteggiamento al Ricorso
La vicenda ha origine da una sentenza di patteggiamento emessa dal GIP del Tribunale di Civitavecchia, con cui un imputato accettava una pena di due anni e dieci mesi di reclusione e una multa di 2.400 euro per vari reati. Successivamente, attraverso il proprio difensore, l’imputato proponeva ricorso per Cassazione.
Le doglianze sollevate erano molteplici e miravano a smontare l’impianto accusatorio:
* Si sosteneva che le lesioni personali fossero legate a un sinistro stradale e non al contesto del reato contestato.
* Si contestava l’applicazione di un’aggravante specifica, ritenendola fuori luogo.
* Si negava la presenza di violenza in un altro capo d’imputazione.
* Infine, si affermava l’insussistenza degli elementi costitutivi del reato di usura per altre due accuse.
A prima vista, le critiche sembravano toccare la qualificazione giuridica dei fatti, ma la Cassazione ha guardato alla sostanza delle lamentele.
La Decisione della Cassazione: I Limiti al Ricorso Patteggiamento
La Corte di Cassazione ha dichiarato il ricorso inammissibile. La decisione si fonda sull’interpretazione rigorosa dell’art. 448, comma 2-bis, del codice di procedura penale. Questa norma, introdotta dalla Riforma Orlando (legge n. 103/2017), elenca tassativamente i motivi per cui è possibile impugnare una sentenza di patteggiamento.
I motivi ammessi sono esclusivamente:
1. Vizi relativi all’espressione della volontà dell’imputato di patteggiare.
2. Mancata correlazione tra la richiesta di patteggiamento e la sentenza emessa.
3. Erronea qualificazione giuridica del fatto.
4. Illegalità della pena o della misura di sicurezza applicata.
La Corte ha stabilito che le censure dell’imputato, sebbene formalmente presentate come un problema di qualificazione giuridica, miravano in realtà a negare l’esistenza stessa dei fatti-reato e delle aggravanti. Questo tipo di contestazione non è consentito dopo aver scelto la via del patteggiamento.
Le Motivazioni della Corte
Il cuore della motivazione risiede nella distinzione cruciale tra qualificazione giuridica del fatto e sussistenza del fatto. Quando si sceglie di patteggiare, si accetta implicitamente la ricostruzione storica degli eventi così come contestata. L’eventuale ricorso può vertere solo sul “nome” giuridico dato a quei fatti (es. se si tratta di furto o rapina), ma non può rimettere in discussione il fatto che quegli eventi siano accaduti.
La Cassazione ha chiarito che consentire un ricorso per contestare l’esistenza del reato equivarrebbe a permettere una verifica sulla sussistenza delle cause di proscioglimento previste dall’art. 129 c.p.p., una possibilità che il legislatore ha volutamente escluso per chi accede a un rito premiale come il patteggiamento. In sostanza, le doglianze dell’imputato erano un tentativo di ottenere una rivalutazione del merito, mascherato da questione di diritto. La Corte, citando precedenti conformi, ha ribadito che l’art. 448, comma 2-bis, ha lo scopo di limitare l’impugnazione alle sole violazioni di legge ivi indicate, tra cui non rientra la contestazione sulla fondatezza dell’accusa.
Conclusioni e Implicazioni Pratiche
Questa ordinanza offre un importante monito per la difesa. La scelta del patteggiamento è una decisione strategica che comporta una rinuncia significativa al diritto di impugnazione. Prima di intraprendere questa strada, è fondamentale valutare attentamente non solo i benefici in termini di riduzione della pena, ma anche le preclusioni processuali che ne derivano. Un ricorso patteggiamento proposto per motivi non consentiti dalla legge non solo verrà dichiarato inammissibile, ma comporterà anche la condanna al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, come avvenuto nel caso di specie con una sanzione di 3.000 euro. La difesa deve quindi concentrare l’eventuale ricorso esclusivamente sui vizi tassativamente elencati dalla norma, evitando ogni tentativo di rimettere in discussione il merito della vicenda.
È possibile contestare l’esistenza di un reato in un ricorso per Cassazione dopo un patteggiamento?
No. La Cassazione, basandosi sull’art. 448, comma 2-bis, c.p.p., ha chiarito che il ricorso contro una sentenza di patteggiamento non può essere utilizzato per contestare l’esistenza stessa dei reati o delle circostanze aggravanti. Questo tipo di doglianza riguarda il merito dei fatti e non rientra tra i motivi tassativamente previsti dalla legge.
Quali sono i motivi per cui si può fare ricorso in Cassazione contro una sentenza di patteggiamento?
I motivi sono strettamente limitati dall’art. 448, comma 2-bis, c.p.p. e includono: vizi nell’espressione della volontà dell’imputato, difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, erronea qualificazione giuridica del fatto e illegalità della pena o della misura di sicurezza.
Cosa accade se si propone un ricorso per patteggiamento per motivi non consentiti dalla legge?
Il ricorso viene dichiarato inammissibile. Come stabilito in questa ordinanza, la Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una sanzione pecuniaria a favore della Cassa delle ammende, che in questa vicenda è stata fissata in 3.000 euro.
Testo del provvedimento
Ordinanza di Cassazione Penale Sez. 2 Num. 11809 Anno 2024
Penale Ord. Sez. 2 Num. 11809 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/02/2024
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME NOME NOME a ROMA il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 16/01/2024 del GIP TRIBUNALE di CWITAVECCHIA udita la relazione svolta dal AVV_NOTAIO NOME COGNOME; ricorso trattato con procedura de plano.
RITENUTO IN FATTO
Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Civitavecchia con sentenza del 16/1/2024 applicava a NOME – su concorde richiesta delle parti – la pena di anni due mesi dieci di reclusione ed euro duemilaquattrocento di multa per i reati ascrittigli.
L’imputato, a mezzo del difensore, ha interposto ricorso per cassazione, affidandolo ad un unico motivo, con cui deduce la erronea qualificazione giuridica del fatto e l’illegalità della pena,
con riferimento al reato di cui al capo 3), tenuto conto che le lesioni personali sono riferibili ad altro contesto, segnatamente ad un sinistro stradale;
con riferimento alla circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 2 cod. pen., atteso che al più avrebbe potuto essere contestata in relazione al reato di cui al capo b) e non certamente in relazione a quello di cui al capo a);
con riferimento al reato di cui al capo b), in quanto manca qualsivoglia forma di violenza posta in essere nei confronti della persona offesa;
con riferimento alle contestazioni di cui ai capi 6) e 9), non sussistendo in entrambi i casi gli elementi costitutivi del reato di usura.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
1.1 Ed invero, è articolato su censura non consentita in questa sede alla luce di quanto espressamente disposto dall’art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen., a mente del quale il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione della pena solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto ed all’illegal della pena o della misura di sicurezza.
In particolare, è inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza applicativa della pena con cui si deduca il vizio di violazione di legge per la mancata verifica dell’insussistenza di cause di proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen., tale dovendo considerarsi nella sostanza le doglianze proposte dalla difesa sotto la veste della erronea qualificazione giuridica dei fatti ascritti ricorrente, atteso che con esse – più che la qualificazione giuridica – si contesta l’esistenza dei reati e delle circostanze aggravanti. Sul punto, invero, occorre precisare che l’art. 448, comma 2-bis, cod.. proc. pen., introdotto dalla legge 23 giugno 2017 n. 103, limita l’impugnabilità della pronuncia alle sole ipotesi di violazione di legge in esso tassativamente indicate, tra cui non rientrano quelle denunciate con il presente ricorso (Sezione Feriale, n. 28742 del 25/8/2020, COGNOME, Rv. 279761 – 01; Sezione 6, n. 1032 del 7/11/2019, COGNOME, Rv. 278337 – 01).
All’inammissibilità del ricorso segue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento in favore della Cassa delle ammende della somma di euro tremila, così equitativamente fissata.
P. Q. MI.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il giorno 22 febbraio 2024.