Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 13545 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 13545 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 13/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME COGNOME nato a PALERMO il 14/12/1955
avverso l’ordinanza del 14/10/2024 del Presidente del TRIBUNALE di PALERMO
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME
lette le conclusioni del PG, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso; letta la memoria depositata dal Ministero della Giustizia, che ha concluso per l’inammissibilità o comunque per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con l’ordinanza indicata in epigrafe, il Presidente del Tribunale di Palermo, giudicando sull’impugnazione avverso il decreto emesso dallo stesso Tribunale, che aveva disposto la revoca dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato in favore di NOME COGNOME NOME nel procedimento penale GLYPH 16628/2014 RGNR, con contestuale rigetto dell’istanza di liquidazione dei compensi proposta dal difensore Avv. NOME COGNOME ha rigettato il ricorso proposto dal Dì NOME e dichiarato il difetto di legittimazione attiva del suddetto avvocato.
La revoca era stata disposta in quanto era risultato che il richiedente aveva riportato una condanna definitiva per violazione di norme in materia di imposta sul valore aggiunto nel 1995.
In sede di opposizione, il Presidente del Tribunale ha rilevato che, ai sensi dell’art.76, comma 4bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n.115 (contenente il testo unico in materia di spese di giustizia, TUSG), è prevista una presunzione di superamento dei limiti di reddito necessari per l’ammissione al beneficio nei confronti, tra gli altri, di coloro che siano stati condannati per reati in materia di evasione dell’imposta sui redditi e di quella sul valore aggiunto; che la Corte Costituzionale, con sentenza n.139/2010, aveva dichiarato l’illegittimità di tale previsione nelle parte in cui non consentiva al richiedente di dimostrare il proprio effettivo stato di non abbienza; che, nel caso di specie, l’opponente aveva prodotto – a tal fine – una autodichiarazione relativa ai redditi percepiti dal 2014 in avanti ma che tale documento doveva ritenersi non idoneo a superare la correlativa presunzione; che, pertanto, l’opposizione doveva essere rigettata.
2. Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso per cassazione NOME COGNOME NOME, tramite il proprio difensore, articolando un unitario motivo di impugnazione, nel quale ha dedotto la violazione e falsa applicazione iegli artt. 76 e 91 del TUSG in relazione all’art.11 delle preleggi e all’art.25 Cost., nonché l’inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità ai sensi dell’art.125, comma 3, cod.proc.pen..
Ha dedotto che la motivazione del Presidente del Tribunale non avrébbe tenuto conto dei profili di diritto intertemporale, esponendo che l’istanza di ammissione al gratuito patrocinio era stata presentata il 28/10/2015 e accolta il 30/10/2015; che il d.lgs. 7 marzo 2019, n.34 aveva apportato una generale modifica all’impianto della disciplina; che la revoca del decreto era avvenuto con provvedimento del 22/11/2021.
Ha quindi dedotto che la norma impeditiva della possibilità di dimostrare lo stato di non abbienza – per i soggetti condannati per reati tributari – era entrata in vigore nel solo anno 2019, quindi successivamente alla proposizione dell’istanza; al momento della quale, l’art.76 TUSG non comprendeva la condanna per reati tributari tra le cause ostative all’accoglimento della domanda, mentre unico riferimento era invece contenuto nell’art.91, comma 1, lett.a), TUSG, sulla base del quale era stata disposta la revoca dell’ammissione.
Ha quindi dedotto che il giudice dell’opposizione avrebbe applicato in via retroattiva una norma non ancora vigente al momento della presentazione dell’istanza; mentre, rispetto all’esclusione prevista dall’art.91, lett.a), TUSG, la stessa non poteva che essere interpretata alla luce della decisione della Corte Costituzionale.
Da ciò, ne conseguiva che il Tribunale aveva confermato la revoca non sulla base della disposizione di riferimento, bensì su una disposizione inesistente al momento dell’ammissione al patrocinio erariale, ovvero l’art.76, comma 4bis, TUSG.
Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta, nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso.
Il Ministero della Giustizia ha depositato memoria nella quale ha concluso per la dichiarazione di inammissibilità o, comunque, per il rigetto del ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è inammissibile.
Deve essere pregiudizialmente operata una ricostruzione del quadro normativo rilevante in ordine alla presente controversia, in base al quale:
ai sensi dell’art.91, lett.a), del TUSG, nel testo vigente sin dalla emanazione del d.P.R. 30 maggio 2002, n.115, era previsto che «L’ammissione al patrocinio è esclusa per l’indagato, l’imputato o il condannato con sentenza definitiva di reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto» (mentre il successivo il d.lgs. 7 marzo 2019, n.24, ha abrogato il riferimento ai soggetti indagati o imputati per tali reati);
l’art.12ter del d.l. 23/05/2008, n.92, aveva inserito – all’interno dell’art.76 TUSG (disciplinante le condizioni necessarie per
l’ammissione al beneficio) una presunzione assoluta di insussistenza del requisito reddituale per i soggetti condannati con sentenza definitiva per una serie di reati, tra cui non rientravano quelli in materia di evasione tributaria;
la Corte Costituzionale, con sentenza 16 aprile 2010, n. 139 (in Gazz. Uff., 21 aprile, n. 16), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del predetto comma 4bis, ne a parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria;
successivamente, l’art.3, comma 1, del citato d.lgs. n.24/2019 aveva esteso la previsione del citato art.76, comma 4bis, ai soggetti condannati in via definitiva per i reati commessi in violazione delle norme per la repressione dell’evasione in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto;
Va quindi osservato che, nel caso in esame, al momento della presentazione dell’istanza, vigeva la sola disposizione contenuta nell’art.91 del TUSG, con la conseguenza che la revoca dell’ammissione è stata pronunciata ai sensi della suddetta norma e in riferimento al disposto dell’art.112 TUSG, comma 1, lett.d), in base al quale il beneficio è revocato «d’ufficio o su richiesta dell’ufficio finanziario competente presentata in ogni momento e, comunque, non oltre cinque anni dalla definizione del processo, se risulta provata la mancanza, originaria o sopravvenuta, delle condizioni di reddito di cui agli articoli 76 e 92», disposizione che deve ritenersi applicabile anche alla constatazione successiva dell’originaria causa di esclusione prevista dall’art.91 TUSG.
Sulla base di tale premessa, deve quindi ritenersi che l’originario decreto di revoca sia stato adottato in precipuo riferimento alla predetta disposizione contenuta nell’art.91 del TUSG, già vigente al momento di presentazione dell’istanza.
A tale proposito, deve ritenersi che l’inserimento dei reati tributari – nel catalogo dei reati comportanti una presunzione di superamento dei limiti di reddito, avvenuto a opera del d.lgs. n.24/2019 – abbia avuto la sola ratio di disporre un coordinamento tra le disposizioni dettanti i requisiti generali per l’ammissione al beneficio e la disposizione speciale, contenuta nell’art.91 TUSG, già dettata a proposito dei condannati per tali fattispecie; con la conseguenza che, contrariamente all’assunto difensivo, non si ravvisa nella decisione di revoca e nel successivo rigetto dell’opposizione, alcuna
applicazione retroattiva in relazione alle cause ostative rispetto all’ammissione al beneficio.
In riferimento alle quali, la sentenza della Corte Costituzionale ha peraltro ravvisato, con disposizione riflettentesi anche sul disposto dell’art.91 TUSG, una causale di illegittimità, nella parte in cui non ammette il richiedente alla possibilità di fornire la prova contraria in ordine al mancato superamento dei limiti di reddito.
Operata tale premessa, deve ritenersi che il motivo formulato sia anche aspecifico, non incentrandosi sulla effettiva ratio decidendi posta alla base del rigetto dell’opposizione.
Difatti, il Tribunale ha rilevato che – in sede di opposizione medesima il ricorrente non aveva fornito una prova adeguata in ordine alla sussistenza effettiva del requisito reddituale, essendosi limitato a depositare un’autodichiarazione, ritenuta insufficiente dal giudice adito.
Tanto in conformità con il principio in base al quale la prova contraria non può essere fornita con una semplice autocertificazione ma con l’adeguata allegazione di concreti elementi di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro ed univoco la propria effettiva situazione economica, che il giudice deve rigorosamente vagliare (Sez. 4, n. 21230 del 14/03/2012, COGNOME, Rv. 252962); tanto, peraltro, in continuità con la pronuncia della Corte Costituzionale che, in motivazione, aveva rilevato che “certamente non potrà essere ritenuta sufficiente una semplice auto-certificazione dell’interessato, peraltro richiesta a tutti coloro che formulano istanza di accesso al beneficio, poiché essa non potrà essere considerata «prova contraria», idonea a superare la presunzione stabilita dalla legge. Sarà necessario, viceversa, che vengano indicati e documentati concreti elementi di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro e univoco l’effettiva situazione economico-patrimoniale dell’imputato”.
Tale punto della decisione non è stato fatto oggetto di alcun rilievo, conseguendone la aspecificità della censura proposta.
Sulla base di tali considerazioni, deve concludersi per l’inammissibilità del ricorso.
Alla declaratoria d’inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di
inammissibilità», il ricorrente va condannato al pagamento di una somma che si stima equo determinare in euro 3.000,00 in favpregella Cassa delle ammende.
Il ricorrente va altresì condannato alle spese sostenute dal Ministero resistente in questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende nonché alla rifusione delle spese sostenute dal Ministero resistente, che liquida in complessivi euro mille.
Così deciso il 13 febbraio 2025
GLYPH Il Pr GLYPH ente
Il 911 sigliere estensore