Sentenza di Cassazione Penale Sez. 1 Num. 14356 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 1 Num. 14356 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME
Data Udienza: 09/01/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COGNOME nato a PALERMO il 26/04/1951
avverso l’ordinanza del 21/10/2024 del TRIBUNALE di L’AQUILA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME lette/~~ conclusioni del PG
Il Procuratore generale, NOME COGNOME chiede dichiararsi l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
COGNOME NOME ricorre avverso l’ordinanza del 21 ottobre 2024 del Tribunale di L’Aquila che, quale giudice dell’esecuzione, per quello che qui interessa, ha rigettato la richiesta di sostituzione della pena dell’ergastolo con anni due e mesi sei di isolamento diurno con quella della pena di anni trenta di reclusione, con riferimento alla sentenza della Corte di assise di appello di Palermo del 25 maggio 2007, definitiva il 10 aprile 2009.
La richiesta di applicazione della riduzione di pena di cui all’art. 442 comma 2 cod. pen. nel caso di specie di commutazione della pena dell’ergastolo con l’isolamento diurno in quella di 30 anni di reclusione era ancorata sulla posizione processuale del ricorrente al momento della richiesta di giudizio immediato speciale all’udienza del 22.6.2000, atteso che l’art. 7 del D.L. 341/2000 implicante un’interpretazione autentica retroattiva dell’art. 4-ter d.l. n. 82/2000 in ragione della quale COGNOME aveva esercitato la rinuncia al rito immediato, fosse stato successivamente dichiarato incostituzionale.
1.1. Nel corso del giudizio cognitorio di primo grado, era entrato in vigore il d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144), il cui art. 4-ter, comma 2, prevedeva che «nei processi penali per reati puniti con la pena dell’ergastolo, in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e nei quali prima della data di entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479, era scaduto il termine per la proposizione della richiesta di giudizio abbreviato, l’imputato, nella prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, può chiedere che il processo, ai fini di cui all’articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale, sia immediatamente definito, anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo di cui all’articolo 416, comma 2, del medesimo codice».
In materia di giudizio abbreviato, infatti, prima dell’entrata in vigore dell’art 3 legge 12 aprile 2019, n. 33 (che ha abrogato il secondo e il terzo periodo del comma 2 dell’art. 442 cod. proc. pen. e ha introdotto il comma 1-bis all’art. 438 cod. proc. pen.), alla pena dell’ergastolo era sostituita la pena di anni trenta di reclusione.
In forza di tale novella, COGNOME – alla prima udienza utile (il 22 giugno 2000) aveva chiesto e ottenuto che il giudizio fosse definito con il rito abbreviato, per poi revocare tale richiesta a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 7 d.l. 24 novembre 2000, n. 341, che aveva modificato l’art. 442, comma 2, cod. proc. pep.,
prevedendo che «alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo».
In altri termini, a seguito di tale ultima modifica normativa, in materia di giudizio abbreviato, la riduzione di pena ad anni trenta di reclusione sarebbe stata possibile solo nel caso in cui la parte fosse stata condannata alla pena dell’ergastolo senza isolamento diurno, circostanza che aveva indotto COGNOME a revocare la sua scelta in forza dell’art. 8 del citato d.l. n. 341 del 2000, che prevedeva come «nei processi penali in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto-legge, nei casi in cui è applicabile o è stata applicata la pena dell’ergastolo con isolamento diurno, se è stata formulata la richiesta di giudizio abbreviato, ovvero la richiesta di cui al comma 2 dell’articolo 4-ter del decretolegge 7 aprile 2000, n. 82, convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144, l’imputato può revocare la richiesta nel termine di trenta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto.
In tali casi il procedimento riprende secondo il rito ordinario dallo stato in cui si trovava allorché era stata fatta la richiesta.
Gli atti di istruzione eventualmente compiuti rimangono utilizzabili nei limiti stabiliti dall’articolo 511 cod. proc. pen.».
Successivamente, la Corte costituzionale, con sentenza n. 210 del 2013, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 7, comma 1, del citato d.l. 341 del 2000, evidenziando come tale norma, con il suo effetto retroattivo, avesse determinato la condanna all’ergastolo di imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen. e che, in base a questo, avrebbero dovuto essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione.
In forza di quanto sopra, l’interessato aveva chiesto quindi la sostituzione della pena dell’ergastolo con anni due e mesi sei di isolamento diurno con quella di anni trenta di reclusione, evidenziando come il trattamento peggiorativo introdotto con l’art. 7, comma 1, d.l. n. 341 del 2000 – poi dichiarato incostituzionale – lo avesse erroneamente indotto a rinunciare alla richiesta di giudizio abbreviato.
1.2. Il giudice dell’esecuzione, dopo aver rilevato che la norma in esame era stata oggetto di ripetuti e travagliati interventi normativi, ha evidenziato che l’istanza non poteva essere accolta, posto che COGNOME aveva deciso di revocare la sua richiesta di definire il giudizio con il rito abbreviato, così accettando il risch di una condanna più severa e rinunciando al beneficio che, comunque, la normativa poi dichiarata incostituzionale gli avrebbe garantito (la pena dell’ergastolo in luogo della pena dell’ergastolo con isolamento diurno).
2.1. Il ricorrente denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche, di cui si deve tener conto nell’applicazione della legge penale, con riferimento agli artt. 2 cod. pen., 442 cod. proc. pen., 30, quarto comma, legge 11 marzo 1953, n. 87, 6 e 7 CEDU, perché il giudice dell’esecuzione avrebbe omesso di applicare la norma più favorevole a COGNOME, a nulla rilevando che lo stesso aveva deciso di revocare la richiesta di giudizio immediato.
Ed infatti, nel ricorso si evidenzia che, dal momento dell’ammissione al giudizio abbreviato a quello relativo alla rinuncia a tale rito speciale, al condannato era stata applicata la norma che prevedeva la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di anni trenta di reclusione.
COGNOME, infatti, aveva deciso di revocare la scelta di essere giudicato con il rito abbreviato solo in forza del fatto che una norma entrata in vigore successivamente a tale scelta aveva escluso che la pena dell’ergastolo con isolamento diurno potesse essere sostituita con la pena di anni trenta di reclusione.
Secondo la difesa, quindi, essendo stata dichiarata l’incostituzionalità di tale ultima norma, in applicazione del principio del favor rei, la natura sostanziale della lex mitior travolgerebbe anche la predetta revoca e, pertanto, anche l’accesso al rito ordinario
2.2. In via subordinata, il ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 d.l. n. 341 del 2000 per la violazione degli artt. 3, 10, 25 111 e 117 Cost., avendo determinato una disparità di trattamento tra chi – nelle medesime situazioni di COGNOME – aveva deciso di non revocare la sua scelta di accesso al rito abbreviato e chi, invece, aveva deciso di revocare tale scelta.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è manifestamente inondato e, come tale, va dichiarato inammissibile.
1.1. La Corte ritiene che il giudice dell’esecuzione abbia correttamente rigettato l’istanza, posto che COGNOME aveva autonomamente rinunciato al diritto già acquisito- a ottenere l’applicazione del rito abbreviato con le modalità a lui più favorevoli esistenti prima dell’entrata in vigore del citato d.l. n. 341 del 2000, rimanendo non idonee le successive evoluzioni normative o le pronunce costituzionali a ledere il legittimo affidamento di COGNOME a un trattamento sanzionatorio più favorevole a cui lo stesso aveva già rinunciato.
D’altronde, questa Corte ha già avuto modo di chiarire come non possa ritenersi che l’intervenuta revoca della richiesta di giudizio abbreviato sia stata “viziata” dalla disciplina contenuta nell’art. 7 d.l. n. 341 del 2000, atteso che l’imputato è stato posto in grado di esercitare una libera e consapevole scelttra
le maggiori garanzie derivanti dalla celebrazione del dibattimento e i benefici premiali scaturenti dalla scelta del rito abbreviato (Sez. 1, n. 7162 del 21/12/2015, dep. 2016, COGNOME, non mass. sul punto).
Una conclusione del genere appare coerente con i principi elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte in tema di preclusione: ancor prima di esplicarsi quale limite estremo segnato dal giudicato, la preclusione assolve la funzione di scandire i singoli passaggi della progressione del processo e di regolare i tempi e i modi dell’esercizio dei poteri delle parti e del giudice, dai quali quello sviluppo dipende, con la conseguenza che la preclusione rappresenta il presidio apprestato dall’ordinamento per assicurare la funzionalità del processo in relazione alle sue peculiari conformazioni risultanti dalle scelte del Legislatore.
Il processo, infatti, quale sequenza ordinata di atti, modulata secondo un preciso ordine cronologico di attività, di fasi e di gradi, è legalmente tipicizzato in conformità di determinati criteri di congruenza logica e di economicità procedimentale in vista del raggiungimento di un risultato finale, nel quale possa realizzarsi l’equilibrio tra le esigenze di giustizia, di certezza e di economia.
In quest’ottica è evidente che la preclusione costituisce un istituto coessenziale alla stessa nozione di processo, non concepibile se non come serie ordinata di atti normativamente coordinati tra loro, ciascuno dei quali – all’interno dell’unitaria fattispecie complessa a formazione successiva – è condizionato da quelli che lo hanno preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo precise interrelazioni funzionali.
L’istituto della preclusione, attinente all’ordine pubblico processuale, è intrinsecamente qualificato dal fatto di manifestarsi in forme differenti, accomunate dal risultato di costituire un impedimento all’esercizio di un potere del giudice o delle parti in dipendenza dell’inosservanza delle modalità prescritte dalla legge processuale, o del precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso potere.
Nel caso di specie, il ricorrente, revocando la domanda di giudizio abbreviato in precedenza avanzata, ha compiuto un atto inconciliabile con la volontà di avvalersi del suddetto rito semplificato e delle conseguenze premiali da esso derivanti e ha già “consumato” l’esercizio delle facoltà a lui assegnate.
Secondo giurisprudenza consolidata (Sez. 1, n. 7162 del 21/12/2015, dep. 2016, COGNOME, Rv. 266611-01; Sez. 1, n. 34158 del 04/07/2014, COGNOME, Rv. 260787-01; Sez. 1, n. 15748 del 21/01/2014, COGNOME, Rv. 259417-01), non sussistono i presupposti per la sostituzione della pena dell’ergastolo con quella di anni trenta di reclusione, in applicazione dei principi enunciati dalla sentenza della Corte EDU nel caso COGNOME nel caso in cui l’allora imputato, dopo aver formulato istanza di definizione del processo nella forme del rito abbreviato a seguito ?”-
dell’entrata in vigore dell’art. 30, primo comma, lett. b), legge n. 479 del 1999, abbia poi revocato la richiesta di accesso al rito stesso, avvalendosi del disposto di cui all’art. 8 d.l. n. 341 del 2000.
In tal caso, infatti, il giudizio abbreviato non si è mai celebrato e la questione posta non investe in realtà direttamente l’entità della relativa riduzione di pena, ma attiene ai profili procedurali della revoca della relativa richiesta, e della possibilità di riconoscere come celebrato il rito alternativo non tenuto a causa di detta revoca; la questione è cioè riferibile non a normativa sostanziale, ma alla disciplina del processo.
In proposito, è stato già chiarito (Sez. 1, n. 48757 del 04/12/2012, Aspa, Rv. 254524-01) che la natura sostanziale della diminuente premiale per il rito abbreviato, predicata dalla Corte EDU nella sentenza COGNOME, non implica l’omologa trasformazione di tutta la restante normativa concernente i presupposti, i termini e le modalità di accesso al rito stesso; aspetti rimessi alla scelta del legislatore nazionale e non immutati dalla giurisprudenza di matrice convenzionale.
I principi in tema di retroattività in mitius, espressi dall’art. 7 CEDU, si applicano, infatti, soltanto alle disposizioni che definiscono i reati e le pene che li sanzionano; non si applicano alle norme processuali, la cui applicazione immediata, conformemente al principio tempus regit actum, è conforme alla loro natura (Corte di Strasburgo 27/04/2010, COGNOME contro Italia)
Fuori dei casi in cui vi sia necessità di conformare l’ordinamento nazionale al diritto convenzionale, torna dunque a valere la considerazione di sistema (da ultimo, sentenza n. 147 del 2021), per cui il giudice dell’esecuzione non ha titolo «per porre in discussione, in sede di incidente , la legittimità costituzionale, ex art. 3, primo comma, Cost., di una norma che attiene al processo di cognizione», e che riveste natura formale e non materiale, qual è l’art. 8 d.l. n. 341 del 2000, nella parte concernente l’esercizio della facoltà di rinuncia al rito abbreviato.
La questione di illegittimità costituzionale proposta dal ricorrente, di conseguenza, risulta essere non solo manifestamente infondata, ma anche priva di concreta rilevanza, in quanto riferibile a norma della quale il giudice dell’esecuzione non può più fare diretta applicazione, concernendo le modalità procedurali da seguire nel giudizio di merito, oramai definitivamente concluso.
Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., ne consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché al versamento in favore della Cassa delle ammende di una somma determinata, equamente, in euro 3.000,00, tenuto conto che non sussistono elementi per ritenere che «M parte
abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità» (Corte cost. n. 186 del 13/06/2000).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle
ammende.
Così deciso il 09/01/2025