Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 13638 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 13638 Anno 2024
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 22/11/2023
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
NOME nato a LEONFORTE il DATA_NASCITA
avverso l’ordinanza del 27/06/2023 della CORTE APPELLO di MESSINA
udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME; lette la requisitoria e le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte di appello di Messina, con ordinanza del 27 giugno 2023, dichiarava inammissibile l’istanza di revisione proposta da NOME COGNOME avverso la sentenza della Corte di assise di Siracusa, confermata dalla Corte di assise di appello di Catania, con la quale il ricorrente era stato condannato alla pena dell’ergastolo per l’omicidio di NOME COGNOME, sulla scorta delle dichiarazioni di NOME COGNOME, ritenuto a sua volta autore materiale del delitto, e di NOME COGNOME. Costoro avevano riferito di avere ricevuto un mandato da NOME COGNOME e di avere richiesto e ottenuto da NOME COGNOME l’«autorizzazione» a commettere l’omicidio ottenendone il relativo benestare, oltre che armi.
La Corte di appello di Messina rilevava come la ‘prova nuova’ apportata dal COGNOME consistesse nelle dichiarazioni di NOME COGNOME, già moglie di NOME, la
quale in data 1 agosto 2022, in sede di indagini difensive, evidenziava come NOME fosse portatore di un interesse personale all’eliminazione di COGNOME, perché suo concorrente nel commercio di pellame, tanto che NOME e NOME si erano rallegrati dopo l’omicidio. La COGNOME riferiva, però, che mai aveva sentito i due riferire del ruolo assunto da COGNOME nella vicenda.
La Corte di appello ha ritenuto che l’esistenza di un interesse proprio di COGNOME non fosse incompatibile con la necessità di ottenere l’autorizzazione da COGNOME, come anche che COGNOME era già stata escussa nel corso del giudizio di merito e che la Corte di assise di appello di Catania ne aveva ritenuto, per un verso, la inattendibilità a seguito del dovere di testimoniare maturato solo sedici anni dopo i fatti, nonché l’assenza di incidenza delle di lel dichiarazioni in relazione al quadro probatorio a carico di NOME.
La Corte messinese, inoltre, rilevava come l’istanza di revisione non avesse fatto alcun riferimento alle dichiarazioni rese a suo tempo dalla COGNOME, rappresentando come le stesse dovessero valutarsi come sovrapponibili o, in caso contrario, comunque inattendibili a distanza di trenta anni dai fatti.
Il ricorso per cassazione proposto nell’interesse di NOME COGNOME consta di un unico motivo, enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
Il motivo deduce violazione degli artt. 630, comma 1, lett. c) cod. proc. pen.
La Corte messinese avrebbe trascurato di verificare l’inattendibilità dei due collaboratori di giustizia che accusavano NOME, NOME e NOME, in quanto costoro avrebbero collocato la consegna di armi da parte di NOME sei mesi prima dell’omicidio e il permesso accordato loro tre mesi prima, diversamente da quanto dichiarato nel procedimento cd. «Duocezio», dichiarazioni queste ultime costituenti materiale probatorio utilizzabile, ove si riferiva che la consegna delle armi era avvenuta un mese prima dell’omicidio. Tale ultimo dato, però, risultava contraddetto dallo stato di detenzione di COGNOME cosicché, secondo il ricorrente, i dichiaranti avrebbero modificato la versione anticipando la consegna delle armi a sei mesi prima.
Lamenta il ricorrente anche che la Corte di assise di appello di Catania non abbia fatto riferimento al diverso possibile movente dell’omicidio, relativo alla concorrenza commerciale, essendo venuta meno la certezza della responsabilità del mandante COGNOME, come anche non abbia approfondito la scansione degli incontri fra NOME e NOME.
La inattendibilità delle dichiarazioni di NOME e NOME deriverebbe dalle dichiarazioni della COGNOME, coniuge separato di NOME, che riferiva come vi fosse un autonomo interesse di NOME all’eliminazione di NOME, il che escluderebbe la necessità degli incontri con NOME per ottenere l’autorizzazione e le armi.
L’ordinanza impugnata non si confronterebbe con tali emergenze e con la circostanza che la COGNOME mai fu escussa nel corso del giudizio in ordine ai profili relativi al movente dell’omicidio, a fronte dell’assoluzione di COGNOME quale mandante.
Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale, ha depositato requisitoria e conclusioni scritte GLYPH ai sensi dell’art. 23 comma 8, d.l. 127 del 2020 – con le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, rappresentando come lo stesso proponga una non consentita rivalutazione della attendibilità dei dichiaranti, né si confronti con le logiche argomentazioni della Corte territoriale, in ordine alla assenza di incidenza della prova nuova sul quadro probatorio complessivo.
Il ricorso è stato trattato senza intervento delle parti, ai sensi dell’art. 2 comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell’art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall’articol 94 del decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall’art. 5duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla I. 30 dicembre 2022, n. 199.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Occorre premettere delle precisazioni di carattere generale sul giudizio di revisione e sui poteri, nonché sui corrispondenti limiti della Corte territoriale, gi definiti da Sez. 5, n. 26579 del 21/02/2018, G., Rv. 273228 – 01, che questo Collegio condivide.
I poteri e le facoltà della Corte territoriale nel giudizio di revisione confrontano necessariamente con la tipologia della richiesta di revisione e sono condizionati dall’accezione e portata dei casi di revisione: deduzione del contrasto tra giudicati (art. 630 c.p.p., comma 1, lett. a) ovvero deduzione di prove nuove (art. 630 c.p.p., comma 1, lett. c).
E, in proposito, va evidenziato che, anche nelle ipotesi in cui il novum posto a fondamento dell’istanza di revisione sia costituito non già da una prova nuova, ancora da assumere, da valutare astrattamente e prospetticamente nella propria
efficacia dimostrativa, bensì dal contrasto tra giudicati, al giudice é pur sempre demandata la mera delibazione sommaria, ma non superficiale, degli elementi addotti a capovolgere la precedente statuizione di colpevolezza (Sez. 3, n. 28716 del 03/04/2003, COGNOME, Rv. 225449; Sez. 1, n. 4837 del 6/10/1998, COGNOME, Rv. 211455); tale sindacato, peraltro, ricomprende necessariamente il potere di controllo preliminare circa eventuali non persuasività o incongruenze, rilevabili ictu ()culi, dei risultati probatori posti a base dell’impugnazione straordinaria (Sez. 6, n. 2437 del 03/12/2009, Giunta, Rv. 245770; Sez. 1, n. 45612 del 05/11/2003, COGNOME, Rv. 227131; Sez. 3, n. 19787 del 28/02/2003, COGNOME e altro, Rv. 224813).
In sintesi, la delibazione preliminare circa l’ammissibilità della domanda di revisione deve, per quel che concerne la valutazione della sussistenza di ciascuna delle ipotesi di cui all’art. 630 c.p.p., arrestarsi all’obiettivo riscontro presenza, nell’allegazione difensiva, di specifiche situazioni riconducibili a quelle ritenute dalla legge sintomatiche della probabilità di errore giudiziario e dell’ingiustizia della sentenza irrevocabile e deve testare in modo sommario, ma non superficiale, la capacità delle nuove prove di capovolgere la statuizione di colpevolezza.
Va evidenziato che il tema di prova dedotto come nuovo sia da rinvenirsi esclusivamente nella dichiarazione della COGNOME, dovendo per il resto evidenziarsi come l’istanza di revisione e il ricorso richiedano una non consentita rivalutazione delle dichiarazioni di COGNOME e COGNOME, delibazione già operata nella fase di merito e ritenuta conforme alle regole di valutazione, oltre che priva di manifeste illogicità, da questa Corte, Sez. 1, n. 21955 del 2010, che in sentenza, a foll. 26 e ss., giunge alla conclusione della infondatezza dei motivi di ricorso sia in ordine alla attendibilità di COGNOME, che rendeva anche dichiarazioni autoaccusatorie, sia anche in relazione alla verifica dell’impatto dell’assoluzione di COGNOME sulla tenuta della motivazione della Corte di appello catanese in ordine alla responsabilità di COGNOME e COGNOME. Tale argomento viene in modo non consentito, in assenza di elementi di novità, ripreso anche dall’attuale istanza di revisione.
Infatti, la menzionata assoluzione di COGNOME, osserva la Corte di legittimità, conseguiva non all’assenza di attendibilità dei dichiaranti, ma alla assenza di elementi di riscontro individualizzanti, non potendo intendersi tale la dichiarazione di COGNOME che in questo caso (a differenza di quello di COGNOME) era de relato per aver saputo proprio da NOME del mandato ricevuto da COGNOME cosicché NOME non poteva fungere da autonomo riscontro nei confronti di COGNOME.
Quanto alla prova nuova, la Corte territoriale rileva come il ricorrente non chiarisca quale sia il diverso tenore delle dichiarazioni della COGNOME rispetto a quelle rese nel corso del giudizio di appello, e comunque correttamente la Corte territoriale di Messina rileva come già sussista una valutazione, se non altro di non incidenza, delle dichiarazioni di COGNOME rispetto al quadro probatorio a carico di COGNOME.
D’altro canto, la Corte territoriale correttamente esclude la novità della prova, in quanto prove nuove rilevanti a norma dell’art.630, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., ai fini dell’ammissibilità della relativa istanza, devono intendersi non solo le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep., 2002, Pisano, Rv. 220443 – 01). Ma nel caso in esame le originarie dichiarazioni della COGNOME sono state valutate esplicitamente.
3. La Corte di appello, per altro, fa buon governo del principio per cui in tema di revisione la prova nuova è quella che, ex art. 630, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., da sola o unitamente a quelle già acquisite, sia idonea a ribaltare il giudizio di colpevolezza dell’imputato (Sez. 2, n. 18765 del 13/03/2018, COGNOME, Rv. 273028 – 01; mass. conf.: N. 1155 del 1999 Rv. 216024 – 01, N. 20022 del 2014 Rv. 259778 – 01); occorre, viene correttamente precisato, che la comparazione fra le prove asseritamente nuove e quelle sulle quali si fonda la condanna irrevocabile implichi non solo il confronto di ogni singola prova nuova, isolatamente considerata, con quelle già esaminate, ma anche una valutazione unitaria e globale della loro attitudine dimostrativa, da sole o congiunte a quelle del precedente giudizio, rispetto al risultato finale del proscioglimento; ne consegue che il rapporto tra prove pregresse e prove introdotte in sede di revisione deve essere espresso in termini di “riconsiderazione”, valorizzando la funzione dinamica del complessivo giudizio probatorio conseguente all’introduzione del “novum” (Sez. 5, n. 7217 del 11/12/2018, dep. 2019, Dessolis, Rv. 275619 – 01).
L’istanza di revisione proposta non si confronta con il completo quadro probatorio che aveva condotto alla condanna di COGNOME, che comunque la Corte di cassazione indicava non solo fondato sulle dichiarazioni di NOME e NOME: l’ordinanza ora impugnata evidenzia con motivazione congrua la non decisività dell’esistenza di un interesse di NOME a eliminare NOME, per questione di concorrenza commerciale, come anche la natura non dirimente della circostanza che la COGNOME non abbia mai saputo del permesso di COGNOME rilasciato ai due dichiaranti.
I.
A tal proposito, va evidenziato come essendo COGNOME indicato come un «personaggio malavitoso di spicco» (cfr. sentenza di questa Corte, Sez. 1, cit.) che autorizza l’omicidio, e non essendo ritenuto il mandante, correttamente la Corte di appello esclude che l’esistenza di un interesse proprio di COGNOME abbia la forza di neutralizzare logicamente la necessità dell’autorizzazione di COGNOME o anche dell’offerta di denaro da parte di COGNOME.
Inoltre, il nome di NOME non doveva essere fatto necessariamente da NOME dinanzi alla moglie di NOME, che anzi, come emerge dal verbale delle dichiarazioni dell’agosto 2022, riferisce di avere carpito casualmente la conversazione dopo l’omicidio, attraverso la finestra, all’insaputa di NOME e NOME, che ne parlavan in auto fra loro, per altro a distanza di tempo dall’intervenuto «permesso», quindi senza dover evidentemente far riferimento a NOME, e comunque senza l’intenzione di mettere NOME al corrente dell’omicidio e delle sue modalità: dal che la circostanza che la donna ben poteva non essere messa al corrente dell’autorizzazione da parte di NOME.
Il motivo è pertanto in parte generico e in parte manifestamente infondato.
Ne consegue l’inammissibilità del ricorso e la condanna la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art. 616 c.p.p. (come modificato ex L. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di euro quattromila in favore della Cassa delle ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, 22/11/2023
Il Consigliere estensore
GLYPH
Il Presi ente