Sentenza di Cassazione Penale Sez. 4 Num. 28443 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 4 Num. 28443 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 03/07/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da: NOME nato a NAPOLI il 24/01/1989
avverso l’ordinanza del 14/03/2025 del TRIBUNALE DI NAPOLI, in funzione di giudice dell’appello cautelare personale;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
lette le conclusioni della Procura generale, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME nel senso dell’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio;
RITENUTO IN FATTO
Con il provvedimento indicato in epigrafe, il Tribunale di Napoli ha rigettato l’appello proposto nell’interesse di NOME COGNOME avverso il rigetto dell’istanza tesa a ottenere il riconoscimento dell’inefficacia, per decorrenza dei termini, della custodia cautelare in carcere disposta il 13 settembre 2023 con ordinanza del G.i.p. del Tribunale di Napoli (di seguito, anche: «seconda ordinanza»).
Trattasi di ordinanza avente a oggetto il reato di cui all’art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, contestato come commesso fino al giugno 2019, e altri reati in materia di stupefacenti oltre che di armi e ricettazione, commessi tra il maggio e l’agosto 2018, tutti aggravati ex art. 416-bis.1 cod. pen. in relazione al clan camorristico «COGNOME».
1.1. L’operatività dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen. è stata invocata dalla difesa in relazione a una precedente ordinanza emessa per fatti diversi, in seno a diverso procedimento e da altro Ufficio giudiziario (di seguito, anche: «prima ordinanza»). Il riferimento è alla misura cautelare disposta dal G.i.p. del Tribunale di Napoli Nord il 12 luglio 2019, all’esito di convalida di arresto eseguito il precedente 9 luglio, in ordine a una fattispecie di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, commessa in Melito e avente a oggetto circa 3 kg di stupefacente (cocaina e marijuana).
1.2. Ricostruiti i fatti processuali, il Tribunale in considerazione delle prospettazioni difensive ha escluso la sussistenza dei presupposti della «retrodatazione» del termine della custodia cautelare disposta con la seconda ordinanza in ragione dell’insussistenza di una ipotesi di connessione qualificata ex art. 12, comma 1, lett. b) e c), cod. proc. pen., in particolare escludendo il vincolo della continuazione tra i reati oggetto dei due interventi cautelari.
Avverso l’ordinanza e nell’interesse dell’indagato è stato proposto ricorso fondato su un unico motivo complesso, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione (ex art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen.).
2.1. Si deducono violazioni di legge, in termini di apparenza motivazionale e di erronea e falsa applicazione degli artt. 297, comma 3, e 12 lett. b, cod. proc. pen. (in relazione all’art. 81 cod. pen.), e vizio cumulativo di motivazione in merito alla ritenuta esclusione della connessione qualificata, per ragioni di continuazione, tra i reati oggetto delle due ordinanze cautelari.
Il giudice dell’appello cautelare avrebbe escluso la continuazione con motivazione, laddove non apparente, frutto di una non corretta valutazione della
distanza temporale tra i reati. In luogo del decorso del tempo tra il reato oggetto della prima ordinanza (commesso il 9 luglio 2019) e i reati fine del sodalizio di cui alla seconda ordinanza (commessi tra maggio e agosto 2018), in tesi difensiva i giudici di merito avrebbero dovuto valutare il solo breve lasso di tempo intercorrente tra il fatto commesso il 9 luglio 2019 e l’indicata cessazione del sodalizio (giugno 2019).
Per come sostenuto dal ricorrente, la cessazione della permanenza al giugno 2019 sarebbe stata peraltro dettata da ragioni d’indagine, sulla scorta di arresti eseguiti dal 2018, e il Tribunale avrebbe errato nell’aver considerato l’indagato un mero «spacciatore e affiliato» e non un organizzatore del sodalizio operante, con plurimi compiti, quale luogotenente del soggetto di vertice (NOME COGNOME. Ne conseguirebbero la manifesta illogicità della motivazione e il travisamento del verbale dell’arresto in flagranza dell’indagato cui è seguita la prima ‘ordinanza. Con esso la polizia giudiziaria avrebbe evidenziato una modalità di consegna del denaro dallo spacciatore all’indagato tipica dei rapporti consuetudinari tra fornitore e acquirente-rivenditore e per la quale: in occasione di una nuova consegna si salda il debito relativo alla precedente.
2.2. In sintesi, dalle circostanze innanzi evidenziate il giudice di merito avrebbe dovuto trarre argomenti decisivi per ritenere in continuazione il reato in materia di stupefacenti del 9 luglio 2019, con riferimento al quale l’arresto dell’indagato sarebbe avvenuto a riscontro della partecipazione al sodalizio, con il reato associativo, pur contestato fino al giugno 2019, e con i reati fine, ancorché commessi da maggio ad agosto 2018. Il reato di cui all’arresto del 9 luglio 2019, conclude sul punto letteralmente il ricorrente, non sarebbe altro che «la prosecuzione di un’attività associativa su un determinato territorio e piazza di spaccio». Il detto reato sarebbe stato peraltro commesso da soggetto controllato dalle forze dell’ordine insieme ad altri spacciatori nella piazza di spaccio anche 1’8 luglio 2019, cioè il giorno antecedente all’arresto, e che avrebbe agito utilizzando un veicolo da considerarsi «bene associativo» in quanto utilizzato da plurimi correi (come emergerebbe da fotogrammi).
Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di merito, appare altresì in tesi difensiva rilevante la circostanza per la quale il reato di cui alla prima ordinanza cautelare, diversamente dagli altri, non sarebbe stato contestato come aggravato ex art. 416-bis.1 cod. pen. Sul punto si sostiene che ciò sarebbe avvenuto per una duplice circostanza: l’aggravante, se contestata, non avrebbe retto in giudizio, per essere stati il pedinamento e il sequestro effettuati a carico solo dell’indagato e senza la presenza di affiliati al clan camorristico, e la sua contestazione avrebbe «disvelato la sottesa attività investigativa».
La motivazione sarebbe altresì illogica laddove facente perno sull’utilizzo di un deposito per la commissione in Melito del reato del 9 luglio 2019 diverso dai depositi utilizzati per i reati fine del sodalizio. Ciò in quanto la seconda ordinanza evidenzierebbe il rinvenimento di diversi luoghi di deposito di armi e di stupefacente, non coincidenti con quello relativo al fatto del 9 luglio 2019, ma in essa si fa farebbe riferimento anche all’utilizzo di ulteriori luoghi. Sicché, per il ricorrente, tra essi ben potrebbe esservi il deposito sito in Melito. Il Tribunale avrebbe altresì fatto perno sulla disomogeneità soggettiva dei reati, evidenziando la commissione di quello del 9 luglio 2019 con soggetti non identificati a fronte di un concorso nei reati fine del sodalizio con NOME COGNOME e NOME COGNOME. A dire del ricorrente la mancata coincidenza soggettiva deriverebbe dal pregresso arresto di NOME COGNOME (eseguito nel gennaio 2019) e, comunque, il giudice di merito non avrebbe considerato la circostanza per cui l’indagato, in quanto luogotenente del citato COGNOME, avrebbe in realtà proseguito l’attività illecita del vertice del sodalizio dopo il di lui arresto.
La Procura generale ha concluso per iscritto nei termini di cui in epigrafe.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è inammissibile.
Le censure ineriscono all’istituto della c.d. «retrodatazione», contemplato dall’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., così come letto dalla Consulta e interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, nei termini di recente ricostruiti da Sez. 4, n. 29174 del 15/05/2024, De Mitri, Rv. 286655 – 01, che si intendono in questa sede ribadire nei limiti di quanto di specifico rilievo.
2.1. L’istituto in esame consiste nel «riallineamento» tra misure cautelari che, pur dovendo essere coeve, sono state separatamente adottate, determinando uno «slittamento all’indietro» della data di esecuzione del provvedimento cautelare successivo fino alla data di esecuzione di quello iniziale. Ciò in adesione alle prospettazioni provenienti tanto dalla più attenta dottrina quanto dalla più recente giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 23166 del 28/05/2020, COGNOME, in motivazione), da ritenersi corrette e condivisibili in quanto tali da considerare le varie ipotesi applicative dell’istituto che vanno ben oltre quella caratterizzata dalla medesimezza del fatto di cui alle diverse misure cautelari.
2.2. Quando nei confronti di un soggetto sono emesse in procedimenti diversi più ordinanze cautelari per fatti diversi in relazione ai quali esiste una
connessione qualificata, la «retrodatazione» opera per i fatti desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio nel procedimento in cui è stata emessa la prima ordinanza. I casi di connessione rilevanti a fini della retrodatazione sono, ai sensi dell’art. 297, comma 3, cod. proc. pen., solo quelli di concorso formale di reati, di reato continuato e di nesso teleologico tra reati commessi per eseguire gli altri, previsti dall’art. 12, comma 1, lett. b) e c) cod. proc. pen. Nel caso in cui le ordinanze cautelari adottate in procedimenti diversi riguardino invece fatti tra i quali non sussiste la suddetta connessione e gli elementi giustificativi della seconda erano già desumibili dagli atti al momento della emissione della prima, i termini della seconda ordinanza decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima solo se i due procedimenti sono in corso davanti alla stessa autorità giudiziaria e la loro separazione può essere frutto di una scelta del Pubblico Ministero (come ricordato di recente da Sez. U, n. 23166 del 28/05/2020, COGNOME, in motivazione, all’esito di una dettagliata ricostruzione dell’evoluzione normativa dell’istituto e alla luce della giurisprudenza di legittimità e costituzionale in tema di «contestazioni a catena»).
Ne consegue che la regola della retrodatazione concerne normalmente misure adottate nello stesso procedimento e può applicarsi a misure disposte in un procedimento diverso solo nelle ipotesi testé indicate (Sez. U, n. 23166 del 28/05/2020, COGNOME, in motivazione; Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Librato, Rv. 235909; Sez. U, n. 21957 del 22/03/2005, COGNOME, Rv. 231058). Qualora invece si tratti di procedimenti pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, la retrodatazione della seconda ordinanza non potrebbe operare in mancanza dell’effettiva sussistenza dell’invocata connessione qualificata tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari.
Nei termini di cui innanzi si esprimono difatti le citate Sezioni Unite n. 23166 del 2020, «COGNOME», le quali, richiamando le precedenti Sezioni Unite «Librato» (sentenza n. 14335 del 2007), osservano puntualmente che «la diversità delle autorità giudiziarie procedenti indica una diversità di competenza, e fa ritenere che i procedimenti non avrebbero potuto essere riuniti e che quindi la sequenza dei provvedimenti cautelari non è il frutto di una scelta per ritardare la decorrenza della seconda misura. Se la competenza appartiene a giudici diversi, il primo non ha ragione di disporre una misura cautelare per fatti di competenza del secondo, anche perché, a norma dell’art. 291, comma 2, cod. proc. pen., il giudice incompetente è tenuto a disporre la misura cautelare nel solo caso in cui «sussiste l’urgenza di soddisfare taluna delle esigenze cautelari previste dall’art. 274 cod. proc. pen., e questa urgenza manca se il giudice riesce a soddisfare le esigenze cautelari disponendo la misura per i fatti di propria competenza».
Tanto l’esistenza della connessione rilevante ex art. 297, comma 3, cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 22681 del 27/05/2008, COGNOME, in motivazione), quanto la «desunnibilità dagli atti» del primo procedimento degli elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi provvedimenti cautelari (Sez. 6, n. 12676 del 20/12/2006, dep. 2007, COGNOME, Rv. 236829) costituiscono quaestiones facti, la cui valutazione è riservata ai giudici di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità esclusivamente sotto il profilo della logicità e coerenza descrittiva delle emergenze processuali e probatorie, nonché della congruenza e non contraddittorietà delle relative analisi e dei pertinenti passaggi argomentativi (ex plurimis, Sez. U, n. 23166 del 28/05/2020, COGNOME, in motivazione).
Orbene, in coerenza con l’esegesi di cui innanzi, trattandosi di ordinanze cautelari emesse, per fatti diversi, in procedimenti (diversi) pendenti dinanzi a uffici giudiziari diversi, il Tribunale ha escluso la retrodatazione della seconda ordinanza in mancanza dell’effettiva sussistenza dell’invocata connessione qualificata tra i fatti oggetto dei due provvedimenti cautelari, segnatamente della continuazione tra i reati.
In merito all’esclusione del presupposto della connessione determinata dalla medesimezza del disegno criminoso, deve rilevarsi che con motivazione coerente e non manifestamente illogica i giudici di merito hanno fatto riferimento a una pluralità di elementi singolarmente vagliati e complessivamente considerati. Il riferimento è, in particolare, ai diversi contesti spazio-temporali degli illeciti oltr che alle differenti circostanze e modalità esecutive e alle diverse componenti soggettive. È stata valorizzata la commissione del reato in materia di stupefacenti causa del primo intervento cautelare nel diverso territorio di Melito il 9 luglio 2019, cessata dunque la ritenuta operatività del sodalizio di appartenenza dell’indagato sotteso alla seconda misura cautelare nonché a rilevante distanza di tempo dalla commissione dei reati fine, questi ultimi commessi in concorso con i sodali tra il maggio e l’agosto del 2018. Quanto innanzi è stato valutato in uno con le differenti componenti soggettive e modalità esecutive dei fatti di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990 sottesi alle due ordinanze cautelari. Ciò in relazione alle diverse piazze di spaccio coinvolte, alle non coincidenti basi logistiche utilizzate nonché alla consumazione del reato di cui alla prima ordinanza con soggetti non individuati, in luogo della consumazione dei reati fine del sodalizio in concorso con altri associati, e con modalità non caratterizzate da rapporti con il contesto della criminalità organizzata di riferimento, caratterizzante invece i reati di cui alla seconda ordinanza cautelare, commessi invece in un contesto caratterizzato dal controllo violento delle piazze di spaccio.
3.1. Premesso quanto innanzi occorre evidenziare che il motivo unico di ricorso sotto plurimi profili è inammissibile, ai sensi dell’art. 606, comma 3, cod. proc. pen., in quanto deducente censure diverse da quelle prospettabili in sede di legittimità (sul contenuto essenziale dell’atto d’impugnazione si vedano ex plurimis: Sez. 4, n. 10897 del 29/01/2025, Alfano, tra le più recenti, e Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584 – 01; si veda altresì Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, COGNOME Rv. 268822 – 01, in ordine ai motivi d’appello ma sulla base di principi pertinenti anche al ricorso per cessazione).
Ci si riferisce alle doglianze in fatto con le quali si prospettano anche erronee valutazioni probatorie del giudice di merito, deducenti altresì il travisamento non del significante del verbale d’arresto del 9 luglio 2019, da cui è scaturita la prima ordinanza cautelare, bensì del relativo significato che la difesa ne vorrebbe trarre in termini di modalità esecutive generalmente proprie di reati realizzati in esecuzione degli scopi dei sodalizi dediti al traffico di stupefacenti.
Da quanto analiticamente esplicitato nella precedente ricostruzione del fatto processuale emerge difatti che il ricorrente articola la doglianza sostituendosi ai giudici di merito e valutando come conducenti nel senso della medesimezza del disegno criminoso gli elementi probatori, da lui parcellizzati, unitariamente considerati dal Tribunale in senso inverso, con motivazione peraltro, come detto, esente da censure in sede di legittimità. Il riferimento è, in particolare, ai contesti spazio-temporali degli illeciti nonché a loro modalità esecutive e componenti soggettive.
Nella stessa sintesi del motivo il ricorrente sostiene che le circostanze fattuali da lui stesso valorizzate in ricorso il giudice di merito avrebbe dovuto trarre argomenti decisivi per ritenere in continuazione il reato in materia di stupefacenti del 9 luglio 2019, con riferimento al quale l’arresto dell’indagato sarebbe avvenuto a riscontro della partecipazione al sodalizio, con il reato associativo, pur contestato fino al giugno 2019, e con i reati fine, ancorché commessi da maggio ad agosto 2018. Il reato di cui all’arresto del 9 luglio 2019, per il ricorrente, non sarebbe altro che «la prosecuzione di un’attività associativa su un determinato territorio e piazza di spaccio».
Per escludere rilevanza alla discrasia temporale valorizzata dal Tribunale tra reato associativo (commesso fino al giugno 2019), reati fine (consumati fino all’agosto 2018) e reato sotteso alla prima ordinanza cautelare (commesso il 9 luglio 2019) il ricorrente peraltro suppone che la cessazione della permanenza dell’associazione al giugno 2019 sarebbe stata dettata da ragioni d’indagine. Diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale circa i disomogenei contesti illeciti di consumazione dei reati di cui ai due interventi cautelari, appare altresì in tesi difensiva rilevante la circostanza per la quale il reato sotteso alla prima
ordinanza cautelare, diversamente da agli altri, non sarebbe stato contestato come aggravato ex art. 416-bis.1 cod. pen. Sul punto si sostiene che, se contestata, l’aggravante non avrebbe retto in giudizio, per essere stati il pedinamento e il sequestro effettuati a carico solo dell’indagato e senza la presenza di affiliati al clan camorristico. Nei detti termini, peraltro, la censura contraddice la sua stessa articolazione laddove invece si argomenta la continuazione nonostante l’irrilevanza della diversa componente partecipative caratterizzante i reati. Il profilo di censura culmina infine nella congettura per cui la contestazione dell’aggravante avrebbe «disvelato la sottesa attività investigativa».
3.2. Gli ulteriori profili di censura si mostrano invece inammissibili in ragione del mancato confronto con la ratio decidendi sottesa alla sentenza impugnata (per l’inammissibilità del motivo di ricorso che non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, venendo meno in radice l’unica funzione per la quale è previsto e ammesso, ex plurimis: Sez. 4, n. 10897 del 29/01/2025, COGNOME, cit., tra le più recenti; Sez. 4, n. 19364 del 14/03/2024, COGNOME, Rv. 286468 – 01; Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, NOME, Rv. 254584 – 01).
Come emerge dall’evidenziato apparato motivazionale del provvedimento impugnato e differentemente da quanto dedotto in ricorso, il Tribunale mostra di aver considerato non solo i differenti contesti temporali del reato di cui all’arresto del 9 luglio 2019 e dei reati fine del sodalizio ma anche l’intervenuta consumazione del reato sotteso alla prima ordinanza dopo la cessazione della permanenza del sodalizio considerato dalla seconda ordinanza. Trattasi di sodalizio in seno al quale, come evidenziato dallo stesso ricorso, l’indagato, secondo la ricostruzione del Tribunale, avrebbe operato quale «spacciatore affiliato» fino al giugno 2019, quindi fino a data antecedente alla commissione del reato per il quale è stato arrestato. Sicché, non rende manifestamente illogica la motivazione dell’ordinanza impugnata il mero mancato esplicito riferimento, ai fini della disamina di quanto dedotto in sede di appello cautelare, al ruolo di organizzatore assunto dall’indagato.
In conclusione, all’inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende (misura ritenuta equa, ex art. 616 cod. proc. pen. come letto da Corte cost. n. 186 del 2000, in considerazione dei profili di colpa nella determinazione delle cause di inammissibilità emergenti dai ricorsi nei termini innanzi evidenziati).
Poiché dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del
1-ter, ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’articolo 94, comma
disp. att. cod.
proc. pen. – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perché provveda a quanto stabilito
dal comma
1-bis del citato articolo 94.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila euro in favore della Cassa delle
ammende. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94, comma disp. att. cod. proc. pen.
1-ter,
Così deciso il 3 luglio 2025
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