Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 18457 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 18457 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 26/02/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
COGNOME NOMECOGNOME nato a Livorno il 29/6/1960
avverso la sentenza del 18/4/2024 della Corte di appello di Firenze; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento della sentenza senza rinvio, quanto ai capi 15 e 18, per esser estinti per prescrizione, con rinvio alla Corte di appello per la rideterminazione della pena
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 18/4/2024, la Corte di appello di Firenze confermava la pronuncia emessa il 22/10/2020 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Livorno, con la quale NOME COGNOME era stato giudicato colpevole di plurime violazioni dell’art. 5, d. Igs. 10 marzo 2000, n. 74.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, a mezzo del proprio difensore, deducendo – con unico motivo – la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta
,., illogicità della motivazione. La Corte di appello, come già il Tribunale, avrebbe, per un verso, riconosciuto nel ricorrente una mera “testa di legno” della società, ma, per altro verso, omesso di fare corretta applicazione della giurisprudenza di legittimità in materia: in forza di questa, se è vero che l’amministratore di diritt risponde del reato per aver consapevolmente accettato la carica con i conseguenti doveri di vigilanza e controllo, è altresì vero che il dolo di evasione – da riscontrar anche in suo capo – deve avere ad oggetto anche l’ammontare dell’imposta evasa perché non dichiarata. Ebbene, la sentenza impugnata non avrebbe affrontato tale profilo soggettivo del reato, così da non potersi ritenere accertata la consapevolezza che l’imposta evasa dalla società fosse superiore alla soglia di 50.000 euro prevista dalla norma contestata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
La Corte di appello, nel ribadire che l’imputato aveva rivestito formalmente la carica di legale rappresentante della “RAGIONE_SOCIALE“, di fatto amministrata da coimputato NOME COGNOME, ha richiamato la costante giurisprudenza di legittimità in forza della quale la responsabilità penale dell’amministratore di diritto di una società tenuta al versamento delle imposte è fondata sui doveri connessi alla carica, per avere questi omesso di impedire un evento che aveva l’obbligo di prevenire, e che opera quando il prestanome abbia comunque agito al fine specifico di evadere le imposte o di consentire tale evasione ad altri (tra le molte, Sez. 3, n. 8015 del 21/1/2025, n.m.). Su tale punto, questa Corte, con indirizzo costante e qui da ribadire, ha sottolineato che il dolo specifico richiesto dall’art. 5 d. Igs. n. 74 del 2000 in esame, è di certo compatibile con il dolo eventuale, consistente nell’accettazione del rischio che l’omessa presentazione della dichiarazione fiscale – anche quando altri si occupi della concreta gestione dell’ente – possa comportare l’evento di evasione delle imposte dirette o sul valore aggiunto (tra le tante, Sez. 3, n. 44954 del 17/9/2024, n.m.).
4.1. Con ancor maggior precisione, la giurisprudenza della Corte di cassazione ha sostenuto che l’amministratore di diritto risponde del reato tributario punito a titolo di dolo specifico quale diretto destinatario degli obblighi di legge, anche se questi sia mero prestanome di altri soggetti che abbiano agito quali amministratori di fatto, atteso che la semplice accettazione della carica attribuisce allo stesso doveri di vigilanza e controllo, il cui mancato rispetto comporta responsabilità penale o a titolo di dolo generico, per la consapevolezza che dalla condotta omissiva possano scaturire gli eventi tipici del reato, o a titolo di dolo eventuale per la semplice accettazione del rischio che questi si verifichino (Sez. F, n. 42897
del 09/08/2018, Rv. 273939; Sez. 3, n. 7770 del 05/12/2013, Rv. 258850; cfr., altresì, Sez. 5, n. 50348 del 22/10/2014, COGNOME, Rv. 263225).
Con particolare rilievo nella vicenda in esame, poi, questa Corte ha affermato più volte che, in tema di reati tributari, la prova del dolo specifico d evasione, nel delitto di omessa dichiarazione di cui all’art. 5, d.lgs. 74 del 2000, può essere desunta dall’entità del superamento della soglia di punibilità vigente, unitamente alla piena consapevolezza, da parte del soggetto obbligato, dell’esatto ammontare dell’imposta dovuta (Sez. 3, n. 18936 del 19/01/2016, V., Rv. 267022), ammontare che, peraltro, può costituire oggetto di rappresentazione e volizione anche soltanto nella forma del dolo eventuale (cfr. Sez. 3, n. 7000 del 23/11/2017, dep. 2018, COGNOME, Rv. 272578).
Tanto premesso, la Corte di appello ha affrontato il motivo di gravame in punto di responsabilità con una motivazione del tutto solida, fondata su oggettive risultanze investigative e pienamente aderente alla giurisprudenza appena richiamata: come tale, dunque, una motivazione non censurabile in questa sede.
In particolare, a fronte di un motivo di appello che contestava il giudizio di colpevolezza sul presupposto che l’imputato sarebbe stato soltanto un prestanome, totalmente estraneo all’attività gestoria della società, con preclusione di ogni possibilità di controllo e di ingerenza nell’amministrazione della stessa, la sentenza ha innanzitutto richiamato gli indirizzi appena citati con riguardo ai doveri connessi all’assunzione della carica di legale rappresentante, in uno con la compatibilità tra dolo specifico (richiesto dalla norma) e dolo eventuale, ripetutamente affermata dalla giurisprudenza di questa Corte. Ancora, e con particolare significato, il Giudice di appello ha evidenziato che lo stesso imputato, nel dichiarare di non aver mai firmato alcunché, aveva però aggiunto “di essersi comunque preoccupato che gli adempimenti fiscali potessero non essere stati eseguiti, ma di non avere mai controllato in quanto l’COGNOME era sfuggente”. Ne emerge, dunque, la piena consapevolezza che le dichiarazioni potessero non essere presentate, peraltro per numerosi esercizi, con conseguente assunzione del rischio che tali comportamenti negativi si trasformassero in ripetuta evasione delle imposte (peraltro, per importi significativamente superiori alla citata soglia di punibilità, come da capi di imputazione), così da rendere evidente il dolo specifico richiesto dalla norma, anche nella forma del dolo eventuale.
7.1. Ancora sul punto, peraltro, il Collegio osserva che l’appellante non aveva formulato censure con riguardo alla pretesa mancata consapevolezza dell’ammontare dell’imposta evasa, limitandosi a contestare la sentenza di primo grado nei termini sopra richiamati; con la conseguenza che ulteriori deduzioni in fatto sul punto non possono essere proposte, per la prima volta, nel giudizio di legittimità.
8. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella
fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità»,
alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616
cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente
fissata in euro 3.000,00.
9. La Corte, infine, evidenzia che la dichiarazione di inammissibilità del ricorso impedisce di rilevare in questa sede eventuali prescrizioni maturate prima della
sentenza di appello, ma non rilevate né eccepite in quella sede, né dedotte con i motivi di ricorso (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, COGNOME, Rv. 266818).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2025
sigliere estensore
Il Presidente