Sentenza di Cassazione Penale Sez. 5 Num. 20725 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 5 Num. 20725 Anno 2024
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 22/03/2024
SENTENZA
sul ricorso proposto da: COGNOME NOME nato a MILANO il DATA_NASCITA
avverso la sentenza del 27/06/2023 della CORTE APPELLO DI MILANO;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere COGNOME;
letta la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, NOME COGNOME, che ha concluso per l’annullamento con rinvio limitatamente al trattamento sanzionatorio e per il rigetto nel resto;
letta la memoria in data 15 marzo 2024 con la quale i difensori dell’imputato, AVV_NOTAIO e NOME COGNOME AVV_NOTAIO, anche in replica alla requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, hanno insistito per l’accoglimento del ricorso;
RITENUTO IN FATTO
Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di Appello di Milano confermava la pronuncia di condanna di primo grado del ricorrente per i fatti di cui ai capi I e II dell’imputazione.
In particolare, secondo la prospettazione accusatoria recepita dalle decisioni di merito, l’imputato era stato chiamato a rispondere, innanzi tutto, del delitto di bancarotta fraudolenta per aver distratto alcune somme dal conto corrente della società RAGIONE_SOCIALE nella veste di consigliere delegato della stessa nel periodo dal 23 aprile 2007 al 23 marzo 2010 e, inoltre, del delitto di cui all’art 223, secondo comma, n. 1), I. fall., per aver cagionato il dissesto, in concorso con il Presidente del consiglio di amministrazione, della predetta società mediante operazioni dolose, commettendo fatti riconducibili nel novero di quelli puniti dall’art. 2621 cod. civ.
Avverso la richiamata sentenza il COGNOME propone ricorso per cassazione, affidandosi, con i difensori di fiducia, AVV_NOTAIO e NOME COGNOME, a cinque motivi di impugnazione, di seguito ripercorsi, entro i limiti di cui all’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con il primo motivo il ricorrente assume contraddittorietà ed illogicità della sentenza laddove la stessa afferma l’inesistenza sin dall’origine del capitale sociale dell’impresa fallita.
Ciò in quanto, per un verso, la Corte territoriale avrebbe confermato la relativa statuizione della decisione impugnata computando l’inesistenza di un credito IVA di euro 1.294.455,76 (pag. 7-8), per poi affermare (a partire da pag. 14) che non sarebbe stata rilevante l’eventuale assunta esistenza di tale credito alla data di costituzione della società poiché vi sarebbero state perdite per l’importo di euro 411.000,00. Il che, tuttavia, soggiunge la difesa dell’imputato, non avrebbe condotto ad un azzeramento del capitale sociale conferito di euro 700.000,00, atteso che la somma di circa 300.000,00 è comunque ben più elevata rispetto a quella necessaria per la costituzione di una società a responsabilità limitata.
2.2. Mediante il secondo motivo l’imputato lamenta mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine alla valorizzazione degli indizi emersi successivamente al marzo 2010, ossia alla data della cessazione
dalla carica di consigliere delegato del consiglio di amministrazione della fallita da parte di esso ricorrente.
Per un verso, il COGNOME sottolinea, infatti, come in più passaggi della decisione impugnata sia stato evidenziato che la crisi della società era conclamata già nell’anno 2011 e che fino all’anno 2014 l’amministratore non aveva impedito l’aggravamento del dissesto, pervenuto ad un passivo di oltre 18 milioni di euro, continuando a porre in essere le condotte distrattive. Senonché la decisione denunciata non si sarebbe avveduta, quanto alla sua specifica posizione, della circostanza che egli, sin dal marzo 2010, aveva dismesso ogni incarico nella società fallita.
Inoltre, anche nel periodo precedente, rileva ulteriormente il ricorrente, non aveva rivestito che una posizione meramente formale nel consiglio di amministrazione della società, senza assumere alcuna decisione sulla gestione della stessa, nella quale svolgeva un ruolo solo tecnico, coerente con le sue competenze di ingegnere.
2.3. Con il terzo motivo il COGNOME denuncia assenza di motivazione della decisione impugnata sull’affermazione della sua responsabilità penale a fronte della mancata considerazione delle doglianze spiegate in sede di gravame ed una pedissequa conferma, per relationem, della sentenza di primo grado.
In particolare, la carenza motivazionale atterrebbe alla valorizzazione delle dichiarazioni della teste NOME COGNOME, la quale aveva affermato nel corso dell’istruttoria che, sin dal 2007, era nota l’inesistenza del credito IVA a tutto il consiglio di amministrazione e che, di qui, l’operazione di conferimento del patrimonio di tre società in quello della fallita era volto a porre al riparo lo stesso dalle ripercussioni delle indagini della Guardia di finanza culminate con l’arresto del Professor COGNOME.
Le dichiarazioni della teste sarebbero infatti contraddette dal dato documentale, riconosciuto sin dalla decisione di primo grado, per il quale la contestazione alla RAGIONE_SOCIALE in liquidazione di una presunta frode IVA era intervenuta solo nel mese di novembre 2009.
Quanto alla distrazione correlata alle spese di gestione della vettura RAGIONE_SOCIALE, la decisione impugnata non avrebbe tenuto conto né dei chiarimenti del consulente tecnico di parte, dottor COGNOME, il quale aveva spiegato che l’Ing. COGNOME si era spostato per esigenze lavorative con detta vettura in conformità alle previsioni dello statuto della società, né che la stessa RAGIONE_SOCIALE aveva ridotto la spesa, come riferito all’udienza del 21 dicembre 2020, all’importo di euro 31.532,00.
La decisione impugnata, inoltre, non avrebbe considerato gli esiti della CTU svolta nel giudizio civile per azione di responsabilità dinanzi al Tribunale di Milano
nella quale era stato evidenziato che egli non avrebbe dovuto restituire nulla per aver sostenuto spese inerenti.
2.4. Con il quarto motivo l’imputato denuncia inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 192, comma 2, cod. proc. pen., poiché la sua responsabilità penale sarebbe stata affermata sulla scorta di indizi privi dei necessari presupposti di gravità, precisione e concordanza, non avendo egli responsabilità amministrative nella società ed avendo dismesso il proprio incarico nel consiglio di amministrazione già nel marzo 2010.
2.5. Il ricorrente denuncia, infine, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione al trattamento sanzionatorio per la ritenuta integrazione della circostanza aggravante di cui all’art. 219, primo comma, I. fall., poiché nel 2010, quando aveva lasciato la società, il passivo della stessa era significativamente inferiore all’importo di 18,5 milioni di euro accertato a seguito della dichiarazione di fallimento.
D’altra parte, anche a voler ritenere integrata la circostanza aggravante in questione, le circostanze attenuanti generiche avrebbero dovuto essere concesse in regime di prevalenza e non già di equivalenza rispetto ad essa considerato che la maggior parte delle distrazioni era stata a favore di componenti della famiglia COGNOME.
CONSIDERATO IN DIRITTO
All’esame dei motivi di ricorso occorre premettere che la sentenza di appello, nella sua struttura argomentativa, si salda con quella di primo grado sia attraverso ripetuti richiami a quest’ultima sia adottando gli stessi criteri utilizzat nella valutazione delle prove, con la conseguenza che le due sentenze, integrando una c.d. doppia conforme, possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale (ex multis, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218-01).
2. Il primo motivo è inammissibile per carenza di specificità.
Nell’assumere che, a voler ritenere esistente il credito IVA, il capitale sociale della fallita al momento della costituzione sarebbe stato sufficiente, la difesa del COGNOME infatti non si confronta con l’argomentazione principale spesa, nel ritenere priva di rilevanza la questione della consapevolezza dell’inesistenza di detto credito verso l’erario, a pag. 37 della sentenza di primo grado. A riguardo, è stato per vero congruamente evidenziato che, anche ove fosse stato sussistente tale credito, il totale delle perdite occultate sarebbe stato pari a 1,5
milioni di euro nell’anno 2009, ossia nell’ultimo anno di esercizio completo nel quale il ricorrente aveva fatto parte del consiglio di amministrazione della società fallita.
Talché, facendo riferimento solo alle perdite occultate nell’anno di costituzione della società e non a quelle maturate al momento nel quale il ricorrente ha lasciato il proprio incarico nella stessa, il motivo disvela la propria genericità (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 268822 01).
Il secondo motivo è manifestamente infondato in quanto entrambe le decisioni di merito hanno valorizzato una serie di elementi istruttori che hanno consentito di accertare – ancora una volta al di là delle questioni afferenti il credito IVA e le correlative propalazioni della teste NOME COGNOME – il ruolo pienamente operativo del COGNOME nell’ambito del consiglio di amministrazione.
La circostanza che l’imputato avesse un ruolo gestorio effettivo è stata corroborata, infatti, tanto dalle dichiarazioni dei testi esaminati nel corso del dibattimento (e, in particolare, quelle rese dai testi COGNOME, COGNOME, COGNOME, nonché dalla teste assistita COGNOME, come ripercorse a pag. 33 e 34 della sentenza di primo grado), quanto dalle risultanze dei verbali delle adunanze del consiglio di amministrazione alle quali non solo il ricorrente era presente (a differenza di quanto dedotto) ma aveva anche svolto in alcune occasioni il ruolo di segretario (nello specifico, aveva approvato i bilanci degli anni 2007, 2008 e 2009, e, inoltre, partecipato alle riunioni del Consiglio di Amministrazione in cui venivano deliberate iniziative, talora concretatesi in “ritocchi” dei bilanci, volte ad ottenere ingenti finanziamenti dalle banche).
Il terzo e il quarto motivo, suscettibili di valutazione unitaria, non sono fondati.
Occorre a riguardo premettere che, come è stato più volte ribadito nella giurisprudenza di legittimità, l’amministratore di società, che, contravvenendo all’obbligo espresso dall’art. 2392 cod. civ. di impedire non solo gli atti pregiudizievoli per la società ma anche quelli pregiudizievoli per i soci, i creditori o i terzi, non adempie al suo obbligo di garanzia, concorre, ex art. 40, secondo comma, cod. pen., per omissione, consistita nella mancata vigilanza e nella mancata attivazione per impedire l’adozione di atti di gestione pregiudizievoli, nei delitti fallimentari commessi da altri amministratori, dal momento che anche gli interessi tutelati dalle norme penali fallimentari sono compresi tra quelli affidati alle sue cure (Sez. 5, n. 36764 del 24/05/2006, COGNOME, Rv. 234607 – 01). In sostanza, l’amministratore è penalmente responsabile delle condotte di
tutti coloro che abbiano agito – in via di diritto o di fatto – per conto di un en successivamente fallito in tutti i casi nei quali, pur essendone inconsapevole, non abbia fatto tutto quanto in sua possibilità per attuare una efficace vigilanza ed un rigoroso controllo, ovvero non si sia dato un’organizzazione idonea non soltanto al raggiungimento degli scopi sociali, ma anche ad impedire che vengano posti in essere atti pregiudizievoli nei confronti dei soci, dei creditori e dei terzi (Sez. 5 n. 8260 del 08/11/2007, dep. 2008, Pirro, Rv. 241749 – 01).
In coerenza con le richiamate coordinate ermeneutiche, la responsabilità del COGNOME per le condotte ascritte è stata ragionevolmente argomentata dalle pronunce di merito in forza di plurimi elementi (con i quali, del resto, la difesa del ricorrente si confronta solo in parte).
Quanto, in particolare, all’omesso controllo nella veste di componente del consiglio di amministrazione, vengono in rilievo – tra le altre – le seguenti circostanze, adeguatamente valorizzate dalle decisioni rese nei gradi precedenti:
come emerso dalle concordi dichiarazioni dei testi escussi che lavoravano nella società fallita, NOME COGNOME ha cominciato a percepire, già durante la gestione del COGNOME, un compenso di rilevantissima entità (pari a circa 300.000 euro all’anno) non corrispondente alle mansioni esercitate, che erano rimaste quelle per le quali gli era in precedenza corrisposto uno stipendio di circa 3.000 euro mensili: rispetto a questo dato è risultato che l’imputato ha approvato i bilanci che avevano riconosciuto tale esorbitante compenso;
a fronte degli importi distratti per viaggi “di piacere” dei componenti della famiglia COGNOME, giustificati come viaggi di affari, la difesa si fonda sulla considerazione del consulente tecnico di parte secondo cui il ricorrente non avrebbe potuto avvedersene perché le relative somme erano una quota poco cospicua dei costi della società, ciò che risulta smentito ex actis a fronte di oltre 500.000 euro di spese a tale titolo;
il ricorrente non ha negato di essere consapevole della circostanza che l’immobile locato per il rilevante importo di 400.000 euro all’anno in INDIRIZZO era utilizzato prevalentemente da un’altra società, ma è rimasto inerte in consiglio di amministrazione.
Di conseguenza, è emersa, al di là di ogni ragionevole dubbio, la responsabilità del COGNOME quanto meno per avere, omettendo di attivare la propria posizione di garanzia ex art. 40 cod. peri., contribuii:o a far lievitare l’importo delle condotte distrattive poste in essere dai componenti della famiglia COGNOME, sia approvando i bilanci che omettendo di renderne edotto il collegio sindacale.
Per altro verso, l’imputato è stato correttamente ritenuto responsabile anche per la vicenda relativa alla distrazione per le spese di gestione della
vettura RAGIONE_SOCIALE per l’assorbente ragione che, finanche dopo aver lasciato il proprio ruolo nella società e per tutto l’anno 2011, ha continuato a porre a carico della fallita dette spese di gestione (pag. 43 della sentenza di primo grado).
Il quinto motivo è infondato. Esso censura la decisione impugnata laddove avrebbe ritenuto integrata la circostanza aggravante di cui all’art. 219, prima comma, I. fall., per aver cagionato un danno di rilevante gravità.
In realtà dalla lettura della sentenza del Tribunale (pag. 49) – confermata dalla sentenza impugnata – si evince con chiarezza che è stata piuttosto applicata la circostanza aggravante contemplata dal secondo comma n. 1) dello stesso art. 219 I. fall., correlata alla commissione da parte del colpevole di più fatti di bancarotta (c.d. continuazione fallimentare).
La rilevante entità della perdita ammontante nel 2009 a quasi 1,5 milioni di euro, invero, è stata, come emerge da un esame complessivo della motivazione, valorizzata, e congruamente, sul distinto versante della giustificazione della ritenuta equivalenza delle circostanze attenuanti generiche concesse, per l’appunto, perché la maggior parte delle distrazioni era avvenuta in favore di componenti della famiglia COGNOME – con la predetta circostanza aggravante.
Il generico cenno – in effetti non perspicuo – della sentenza impugnata ad una correlazione logica tra “l’aggravante di cui all’art. 219 L.F.” e l’ammontare dello stato passivo non può valere, nella sua genericità, a scardinare la non equivoca portata del dispositivo, nel quale dalla mera conferma della decisione di primo grado non si può trarre la conclusione dell’illegittimo riconoscimento d una aggravante non riconosciuta dal primo giudice, in difetto di impugnazione del P.M.
Nel complesso il ricorso deve essere pertanto rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 22 marzo 2024 Consigliere Estensore
Il
Il Presidente