Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 44961 Anno 2024
Penale Sent. Sez. 3 Num. 44961 Anno 2024
Presidente: NOME COGNOME
Relatore: COGNOME NOME
Data Udienza: 17/10/2024
– 224
SENTENZA
sul ricorso proposto da
GLYPH
COGNOME WalterCOGNOME nato in Svizzera il 7/2/1942
avverso la sentenza del 3/11/2023 della Corte di appello di Bologna; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; sentita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale NOME COGNOME che ha chiesto l’annullamento con rinvio limitatamente alla durata delle pene accessorie, con dichiarazione di inammissibilità nel resto;
udite le conclusioni dei difensori del ricorrente, Avv. NOME COGNOME in sostituzione dell’Avv. NOME COGNOME e NOME COGNOME che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 3/11/2023, la Corte di appello di Bologna, in riforma della pronuncia emessa il 4/10/2021 dal Tribunale di Ferrara, dichiarava non doversi procedere nei confronti di NOME COGNOME in ordine ai reati di cui ai capi a) e b),
perché estinti per prescrizione, e rideterminava nella misura del dispositivo la pena relativa alle ulteriori contestazioni, tutte concernenti il delitto di cui all’art. Igs. 10 marzo 2000, n. 74.
Propone ricorso per cassazione l’imputato, deducendo i seguenti motivi:
erronea interpretazione della legge penale e della Convenzione tra Italia e Svizzera sulla doppia imposizione. La Corte di appello non avrebbe adeguatamente valutato tutta la documentazione prodotta, dalla quale risulterebbe che il ricorrente – quanto alle annualità di interesse – avrebbe dovuto pagare le tasse soltanto in Svizzera, risultando questo il Paese non solo di residenza anagrafica, ma anche di domicilio, con intenzione di rimanervi in modo duraturo. Confrontando la disciplina nazionale e quella elvetica, risulterebbe, dunque, soltanto la seconda applicabile al caso in esame; ciò, peraltro, avrebbe trovato conferma nella deposizione dell’avvocato NOME COGNOME, del tutto trascurata in sentenza, il quale avrebbe ribadito la residenza del ricorrente in Svizzera, laddove avrebbe il proprio domicilio, oltre alla prevalenza di tutte le relazioni lavorative, familiari e socia con conseguente permanenza abituale nello stesso Paese elvetico. La Corte di appello, per contro, avrebbe preso in esame elementi del tutto inconferenti, senza peraltro considerare la mancanza di rapporti con il mercato italiano, a fronte, invece, di plurime relazioni con altri Stati; anche il riferimento – contenuto in sentenza – ai viaggi che lo Steiger avrebbe compiuto fuori dall’Italia risulterebbe meramente congetturale e privo di significato univoco. In presenza di un conflitto tra la disciplina nazionale e quella elvetica, e dunque dovendo applicare la citata Convenzione (il cui scopo è proprio quello di risolvere i casi di possibile doppia imposizione), risulterebbe evidente che il ricorrente dovrebbe versare il dovuto alle sole autorità svizzere, avendo in quel Paese non solo la residenza anagrafica’ ma anche il centro dei propri interessi vitali; Corte di Cassazione – copia non ufficiale
l’illegittimità della motivazione è poi dedotta con riguardo al profilo psicologico del reato. La Corte di appello non avrebbe esaminato affatto l’ampia documentazione prodotta, proveniente dalle autorità fiscali svizzere, dalla quale risulterebbe che – negli anni 2010/2015 – il ricorrente sarebbe stato soggetto fiscalmente residente in quel Paese, così da ingenerare in lui quantomeno la convinzione di non dover dichiarare nulla all’erario italiano. La mancata valutazione della documentazione prodotta, insieme al rigetto della richiesta di escussione di un commercialista svizzero, imporrebbero dunque l’annullamento della sentenza, per non avere considerato elementi che attesterebbero l’evidente consapevolezza dello Steiger di non violare la legge italiana. Nel caso di specie, dunque, si verterebbe proprio in ipotesi di ignoranza inevitabile (peraltro in materia complessa), ai sensi dell’art. 5 cod. pen., da leggere alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 364 del 1988; a fronte di due autorità che
ritengono il contribuente fiscalmente residente ciascuna nel proprio Stato, risulterebbe dunque evidente l’assenza del dolo del reato, e quindi viziata la sentenza impugnata;
violazione dell’art. 12-bis, d. Igs. n. 74 del 2000. La Corte di appello, dichiarando prescritti alcuni reati, avrebbe diminuito l’importo della somma confiscata per equivalente; confermando tale ultima misura, tuttavia, la sentenza avrebbe offerto una definizione errata del concetto di profitto, con particolare riguardo al reato contestato. Ed invero, nessun profitto deriverebbe dall’omessi) presentazione di cui all’art. 5 in rubrica, potendo questo originare soltanto da un futuro ed eventuale omesso versamento di quanto dovuto; la confisca disposta dai Giudici del merito, pertanto, avrebbe ad oggetto un vantaggio del tutto ipotetico e, al momento dell’omessa dichiarazione, non presente, in evidente contrasto con la giurisprudenza che nega potersi qualificare profitto un qualunque vantaggio futuro, immateriale o non ancora materializzato;
violazione dell’art. 12, d. Igs. n. 74 del 2000. La Corte di appello, pur dichiarando prescritti due reati e dunque riducendo la pena, non sarebbe intervenuta sulle sanzioni accessorie, la cui durata non è stabilita dalla legge in modo rigido e, dunque, dovrebbe esser sempre parametrata alla misura della pena principale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso risulta manifestamente infondato.
In ordine al primo motivo, la Corte ne rileva l’inammissibilità: la questione posta attiene esclusivamente al merito della vicenda, sul quale questa Corte non può interloquire, con particolare riguardo all’analisi degli elementi offerti dal dibattimento quanto alla residenza o alla dimora del ricorrente in Italia (o in Svizzera) negli anni di riferimento. La censura, in particolare, ripropone gli stessi argomenti offerti ai Giudici della cognizione, sul presupposto che tutto quanto prodotto attesterebbe che il ricorrente non solo sarebbe stato residente in Svizzera, ma in questo solo Paese avrebbe avuto i propri interessi vitali, sotto ogni profilo lavorativo, personale, familiare e sociale.
4.1. Questa doglianza di merito, come tale non proponibile in sede di legittimità, risulta peraltro efficacemente superata dalla sentenza impugnata, i cui numerosi argomenti sul punto non costituiscono momento di confronto nel ricorso’ cosicché il suo primo motivo non appare effettiva censura alla motivazione in esame.
4.2. In particolare, nessuna considerazione è svolta sulle pagg. 11-15 della pronuncia di appello, nelle quali la Corte – richiamata la disciplina interna di cui
all’art. 2, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e quella convenzionale (ratificata con la I. 23 dicembre 1978, n. 943), con i relativi criteri di riferimento – ha menzionato numerosi ed oggettivi indici volti ad attestare che il ricorrente doveva ritenersi soggetto stabilmente residente in Italia. Tra questi: a) la dimora abituale a Ferrara; b) la presenza di uno studio di design nella stessa città e di una casa estiva; c) l’avvenuta stipula, da parte del medesimo soggetto, di contratti relativi ad utenze domestiche, con riguardo alle quali venivano registrati consumi annui espressivi della costante presenza. Ancora, 1) contratti per erogazione di servizi vari (telefonici, televisivi, bancari, autostradali), tutti attivati ed usufruiti in 2) due vetture con targa svizzera, ma risultate abitualmente circolanti in Italia (grazie al Telepass) e rinvenute parcheggiate presso un’abitazione del ricorrente a Ferrara. Di seguito, la sentenza ha richiamato l’utilizzo delle carte di credito e l’emissione di assegni bancari, così riscontrando la pluralità di operazioni compiute nel nostro Paese. Analogamente, sono stati richiamati gli ingressi e le uscite dal territorio nazionale, tali da consentire di accertare che lo Steiger aveva qui trascorso mediamente 300 giorni all’anno.
4.3. Ancora, e con particolare significato, la Corte di appello ha sottolineato che il ricorrente non aveva contestato alcuno di questi dati fattuali, tra loro pienamente convergenti, concentrando la propria difesa – come in questa sede su taluni documenti rilasciati dalle autorità fiscali elvetiche, tali da attestare residenza del soggetto a Ginevra. Ebbene, contrariamente a quanto sostenuto nel secondo motivo di ricorso, la sentenza di appello ha preso in esame tale documentazione, ma – con argomento non manifestamente illogico e qui non censurabile – ha evidenziato che della stessa non si conoscevano le metodiche di compilazione, non risultando quali elementi fossero stati presi in esame per le conclusioni raggiunte. Dal che, la conferma della circostanza contestata, ossia che lo Steiger vivesse prevalentemente in Italia e qui avesse il centro dei propri interessi vitali, dunque riscontrandosi una dimora abituale. In tal modo, peraltro, è stato accertato anche il rispetto dei criteri convenzionali, ed in particolare dell’art. 4, comma 2, lett. a), in forza del quale una persona fisica, quando considerata residente di entrambi gli Stati contraenti, deve essere considerata residente di quello nel quale ha un’abitazione permanente; nel caso in cui disponga di un’abitazione permanente in ciascuno degli Stati contraenti, deve prevalere quello nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette (centro degli interessi vitali). Ebbene, alla luce di tutti gli elementi sopra richiamati, analizzata anche la situazione personale e lavorativa dei figli, oltre che ogni profilo afferente all’attività lavorativa svolta dal ricorrente, le sentenze hanno concluso con argomento solido e privo di vizi logici – che lo Steiger doveva essere ritenuto residente in Italia, con ogni conseguenza in termini fiscali.
Il primo motivo di ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile.
Alle stesse conclusioni, poi, il Collegio giunge anche sulla seconda censura, che coinvolge il profilo soggettivo del reato.
5.1. La tesi difensiva, secondo cui la documentazione rilasciata dalle autorità fiscali elvetiche avrebbe indotto nel ricorrente quantomeno un’erronea convinzione circa il proprio corretto agire, risulta soltanto un’illazione non supportata da alcun elemento. Analogamente, non può essere condivisa l’affermazione secondo cui la sentenza di appello non avrebbe esaminato affatto la documentazione prodotta dalla difesa, in quanto – come già sopra richiamato – la Corte si è misurata con tali attestazioni e, rimaste sconosciute le metodiche di compilazione, le ha ritenute evidentemente soccombenti rispetto ai numerosi ed oggettivi elementi di fatto di segno contrario, si ribadisce non contestati dall’imputato neppure in sede di appello. A ciò si aggiunga, poi, che l’attestazione rilasciata dall’autorità svizzera, secondo cui il ricorrente sarebbe stato soggetto alla legislazione fiscale di quel Paese, non può di certo esser ritenuta causa di ignoranza inevitabile circa gli obblighi tributari da assolvere in Italia, in quanto questi ultimi non risultano di per sé esclusi dal contenuto della stessa attestazione, per come richiamato nel ricorso.
5.2 Sul punto, peraltro, la sentenza ha ribadito che le società produttrici riconoscevano al ricorrente compensi e provvigioni che venivano accreditati sul conto corrente personale di questi, acceso presso una banca in Italia. Così da non risultare nessun elemento concreto che potesse sostenere una qualche scusabilità dell’errore nel quale lo stesso sarebbe incorso, eventualmente fondato sul personale convincimento dello Steiger di non dover osservare la normativa fiscale italiana.
5.2. In presenza di un quadro probatorio adeguatamente ritenuto completo,, la Corte di appello ha quindi rigettato la richiesta di integrazione istruttoria relativ all’escussione di un consulente/commercialista svizzero. L’ampiezza e il rilievo dei dati fattuali sopra richiamati, già descritti dal primo Giudice e ribaditi dal Collegio del gravame, sono stati infatti ritenuti del tutto sufficienti a costituire solido affidabile compendio istruttorio per fondare l’affermazione di responsabilità dell’imputato, così negando la tesi di una materia governata da normativa complicata e non facilmente comprensibile.
Il terzo motivo di ricorso risulta inammissibile: la confisca non ha costituito oggetto di gravame, sebbene disposta già con la sentenza del Tribunale, non potendo, pertanto, costituire materia di impugnazione per la prima volta in sede di legittimità.
Risulta manifestamente infondato, infine, anche l’ultimo motivo di ricorso, con il quale si contesta alla Corte di appello di aver confermato le sanzioni accessorie – specie quelle a durata variabile (ossia la quasi totalità di quelle
previste nell’art. 12, d. Igs. n. 74 del 2000) – pur in presenza di una sanzione ridotta rispetto alla sentenza di primo grado, conseguente alla dichiarata prescrizione di due condotte di reato.
7.1. La censura, infatti, si fonda sull’indirizzo giurisprudenziale secondo cui sono riconducibili al novero delle pene accessorie la cui durata non è espressamente determinata dalla legge penale quelle per le quali sia previsto un minimo e un massimo edittale ovvero uno soltanto dei suddetti limiti, con la conseguenza che la loro durata deve essere dal giudice uniformata, ai sensi dell’art. 37 cod. pen., a quella della pena principale inflitta (Sez. U, n. 6240 del 27/11/2014, B., Rv. 262328). Questo indirizzo, tuttavia, è stato successivamente superato, ancora dal Supremo Collegio, così affermandosi che la durata delle pene accessorie per le quali la legge stabilisce, in misura non fissa, un limite di durata minimo ed uno massimo, ovvero uno soltanto di essi, deve essere determinata in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 cod. pen. e non rapportata, invece, alla durata della pena principale inflitta ex art. 37 cod. pen. (Sez. U, n. 28910 del 28/2/2019, COGNOME, Rv. 276286).
7.2. Tanto premesso, il ricorso non contesta la violazione dell’art. 133 cod. pen., né dunque specifica quali dei criteri in esso contenuti sarebbero stati applicati in termini viziati, così che la censura deve esser giudicata inammissibile per mancanza di specificità.
Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 3.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2024 IUGd2;:rSigliere estensore GLYPH Il Presi ente