Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 23452 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 23452 Anno 2025
Presidente: COGNOME NOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 28/05/2025
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
AFLOROAIE NOME COGNOME nata in Romania il 15/02/1994 avverso la sentenza emessa in data 04/12/2024 dalla Corte di Appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Presidente COGNOME lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo dichiararsi l’inammissibilità del ricorso
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 23/10/2024, la Corte di Appello di Catanzaro ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Crotone in data 10/01/2024, con la quale RAGIONE_SOCIALE NOME COGNOME era stata condannata alla pena di giustizia in relazione al reato di cui all’art. 7, comma 2, d.l. n. 4 del 2019 (conv. dalla I. n. 26 del 2019), a lei ascritto con riferimento alla dichiarazione di aver risieduto in Italia negli ultimi dieci anni a far data dalla presentazione della richiesta del c.d. reddito di cittadinanza.
Ricorre per cassazione la RAGIONE_SOCIALE a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione, anche per travisamento, in relazione alla configurabilità del reato. In particolare, si censura la ritenuta sussistenza della prova della sottoscrizione del modulo da parte della ricorrente, essendo stata visualizzata, dagli operanti, solo la domanda in formato digitale nella banca dati, e non potendosi escludere che la domanda fosse stata presentata da altri soggetti (ad es. il marito). Sotto altro profilo, si evidenzia che l’INPS aveva una agevole possibilità di rifiutare l’erogazione, se davvero la ricorrente – come sostenuto in sentenza – avesse esibito il proprio documento di identità, rilasciato nel 2016.
2.2. Violazione di legge con riferimento alla ritenuta rilevanza della iscrizione della richiedente al registro anagrafico, essendo invece rilevante l’effettiva presenza sul territorio italiano. Si censura la mancanza di approfondimenti istruttori a tale riguardo.
Con requisitoria ritualmente trasmessa, il Procuratore Generale sollecita una declaratoria di inammissibilità del ricorso, per la manifesta infondatezza delle questioni proposte.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è parzialmente fondato.
Prima di prendere in considerazione le censure proposte nell’interesse della ricorrente, è necessario porre in evidenza le importanti pronunce che, nella materia in esame, sono recentemente intervenute con immediata incidenza, già in astratto, sulla configurabilità della fattispecie incriminatrice contestata all AFLOROAIE.
Va infatti immediatamente chiarito che le disposizioni in tema di “reddito di cittadinanza” – con particolare riferimento al requisito, che il richiedente doveva aver maturato al momento della domanda, della residenza nel territorio dello Stato per dieci anni, di cui due continuativi: cfr. art. 2, comma 1, d.l. n. 4 del 2019, conv. dalla I. n. 26 del 2019 – sono state recentemente oggetto di due rilevanti decisioni, emesse rispettivamente dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione, sent. 29 luglio 2024, cause riunite C-112 e C-223) e della Corte costituzionale (sent. n. 31 del 20 marzo 2025).
2.1. Con la prima decisione, la Corte di Giustizia ha così risposto al quesito proposto dal giudice di rinvio (Tribunale di Napoli), concernente la compatibilità delle disposizioni che qui rilevano con il diritto dell’Unione: «l’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta dei diritti fondamental
dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
Una completa disamina della sentenza della CGUE è ovviamente incompatibile con la presente trattazione. Ci si limiterà pertanto ad evidenziare, qui di seguito, gli aspetti che più direttamente rilevano ai fini della decisione odierna.
2.1.1. È opportuno anzitutto sottolineare – anche in vista di quanto si dirà a proposito della sentenza della Corte costituzionale (cfr. in fra, § 2.2) che il requisito della previa residenza decennale è stato censurato, dalla Corte di Giustizia, anche perché l’art. 4 della già citata direttiva individua in cinque anni il periodo d soggiorno, legale ed ininterrotto, del cittadino di un Paese terzo in uno Stato membro dell’Unione: requisito idoneo a comprovare un adeguato radicamento in quello Stato, e quindi ad attribuire al cittadino del Paese terzo lo status di soggiornante di lungo periodo, come tale avente «diritto alla parità di trattamento con i cittadini di detto Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale, conformemente all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), di detta direttiva» (cfr. il § 57 della motivazione). Pertanto, la Corte di Giustizia ha osservato che «uno Stato membro non può prorogare unilateralmente il periodo di soggiorno richiesto affinché tale soggiornante di lungo periodo possa godere del diritto garantito dall’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, senza violare quest’ultima disposizione» (§ 58).
2.1.2. Risulta con assoluta chiarezza, anche dal dispositivo e dai passaggi argomentativi testualmente riportati in precedenza, che la CGUE ha affrontato e deciso le questioni sollevate dal Tribunale di Napoli sul presupposto della riconduzione del c.d. reddito di cittadinanza tra le misure riguardanti «le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale».
Come meglio si vedrà esaminando la successiva sentenza della Corte costituzionale, tale inquadramento assume un rilievo centrale ai fini della odierna decisione, non solo perché fermamente contrastato dal Governo italiano nel corso del giudizio dinanzi alla Grande Sezione, ma anche – ed anzi soprattutto – per la peculiare posizione assunta da quest’ultima.
La sentenza della CGUE, infatti, ha richiamato le posizioni di marcato dissenso espresse dal Governo italiano, secondo il quale «il ‘reddito di cittadinanza’ di cui trattasi nei procedimenti principali non sarebbe una misura di protezione sociale o
di assistenza sociale il cui scopo sia semplicemente quello di garantire agli interessati un certo livello di reddito, ma costituirebbe una misura complessa volta soprattutto a favorire l’inclusione sociale e la reintegrazione degli interessati nel mercato del lavoro» (cfr. il § 25).
Prendendo atto di tale posizione del Governo italiano, la Grande Sezione ha tuttavia ritenuto che la stessa non le impedisse di trattare le questioni pregiudiziali sollevate, e soprattutto ha affermato la necessità di attenersi alla prospettazione offerta dal giudice del rinvio pregiudiziale, come detto imperniata sulla riconduzione del reddito di cittadinanza tra le misure riguardanti le prestazioni sociali, di assistenza sociale e di protezione sociale.
Si è quindi affermato, conclusivamente sul punto, che «è vero che il governo italiano contesta questa constatazione del giudice del rinvio. Tuttavia occorre ricordare che, secondo costante giurisprudenza, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici dell’Unione e i giudici nazionali la Corte è tenuta a prendere in considerazione il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali così come definito dalla decisione di rinvio. Pertanto, indipendentemente dalle critiche espresse dal governo di uno Stato membro nei confronti dell’interpretazione del diritto nazionale adottata dal giudice del rinvio, l’esame delle questioni pregiudiziali dev’essere effettuato sulla base di tale interpretazione e non spetta alla Corte verificarne l’esattezza» (§ 40 della motivazione).
2.2. Come già accennato, dopo la proposizione del ricorso della RAGIONE_SOCIALE è intervenuta la sentenza n. 31 del 2025 della Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 2 d.l. n. 2019 (conv. dalla I. n. 26 del 2019) «nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddito di cittadinanza dovesse essere residente in Italia ‘per almeno 10 anni’, anziché prevedere ‘per almeno 5 anni’».
Anche con riferimento a tale decisione, è necessario limitarsi, in questa sede, ad illustrare i passaggi argomentativi di maggior rilievo ai fini dell’odierna decisione (la questione di legittimità costituzionale del requisito di residenza per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi, era stata sollevata dalla Corte d’Appello di Milano – Sez. Lavoro, nell’ambito di un procedimento avviato da due richiedenti il reddito di cittadinanza e l’INPS).
Quel che interessa sin da subito evidenziare è il fatto che la Corte costituzionale ha preso in esplicita considerazione la sentenza della Grande Sezione della CGUE, ma ne ha preso le distanze, altrettanto esplicitamente, quanto all’inquadramento del r.d.c. tra le misure di assistenza sociale.
2.2.1. La Consulta ha invero ribadito, sulla scorta di alcune proprie decisioni precedenti, «la peculiarità strutturale e funzionale di questa misura, dove la
componente di integrazione al reddito è strettamente condizionata al conseguimento di obiettivi di inserimento nel mondo del lavoro e comunque di inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario».
In questa prospettiva, la sentenza ha passato in rassegna le disposizioni in tema di necessaria dichiarazione di disponibilità al lavoro da parte dei beneficiari maggiorenni, di percorsi di accompagnamento di costoro all’inserimento lavorativo e all’inclusione sociale, di obblighi ricerca attiva del lavoro e di accettazione di proposte congrue, ecc. All’esito di tale disamina, la Corte costituzionale ha in sintesi osservato che «gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà». In tale prospettiva, la sentenza n.. 31 ha intesto sottolineare che le precedenti decisioni sul tema avevano ritenuto non irragionevole non solo l’interruzione dell’erogazione del beneficio in caso di mancato rispetto degli impegni, ma anche le ulteriori condizionalità e preclusioni previste dalla normativa (mancata sottoposizione a misure cautelari e condanne per determinati reati nel decennio precedente, divieto di utilizzo dell’erogazione per giochi con vincite in danaro), oltre alla stessa temporaneità della misura.
Su tali basi, si è conclusivamente ritenuto «evidente che una simile struttura, fondata sulla temporaneità, precisi obblighi e soprattutto rigide condizionalità persino in grado, se disattese, di determinare il venir meno del diritto alla prestazione, risulterebbe del tutto inconciliabile con il carattere meramente assistenziale e quindi con le caratteristiche tipiche delle vere e proprie prestazioni di assistenza sociale, dove invece prevale l’esigenza, sostanzialmente incondizionata, di rispondere ai bisogni primari, «indifferenziabili e indilazionabili» (sentenza n. 166 del 2018), cui sono relative (ex plurimis, sentenza n. 42 del 2024 e ordinanza n. 29 del 2024)».
2.2.2. La Consulta ha quindi riaffermato, con assoluta chiarezza, la necessità di tener ferma la lettura costituzionalmente orientata, già esposta in precedenti pronunce, delle disposizioni in tema di r.d.c., «senza che a ciò possa ritenersi d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D.».
Al riguardo, la Corte costituzionale ha richiamato i passaggi della sentenza della CGUE nei quali, come si è visto (cfr. supra, § 2.1), la Grande Sezione ha ritenuto di doversi attenere alla prospettazione del giudice del rinvio pregiudiziale, il quale aveva ricondotto il r.d.c. tra le misure di assistenza sociale, precisando di
non sentirsi gravata dall’onere di verificarne l’esattezza. Sul punto, la Consulta evidenzia che è «solo sulla scorta di tale premessa – che espressamente riconosce come tale interpretazione sia suscettibile di verifica da parte degli organi a cui invece istituzionalmente spetta, secondo l’ordinamento nazionale, proprio verificarne l’esattezza – la sentenza è giunta a ritenere che ‘il reddito di cittadinanza di cui trattasi nei procedimenti principali costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta’».
Le conclusioni della Corte costituzionale non potrebbero essere più chiare, laddove si afferma che: «in definitiva, la sentenza della Corte di giustizia non ha verificato l’esattezza dell’interpretazione proposta dal giudice del rinvio, ovvero dal Tribunale di Napoli, in ordine alla natura del Rdc, ma ha correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno. Del resto, se è indiscutibile che alla Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al f di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto».
2.2.3. Così ricostruito il sistema, la Corte costituzionale ha comunque ritenuto fondata la questione, sollevata (in subordine) con riferimento all’art. 3 Cost., del requisito della residenza per almeno dieci anni richiesto ai cittadini di Paesi terzi: un requisito che è stato ritenuto privo di proporzionalità e di ragionevole giustificazione, specie se accostato a quello della residenza per cinque anni richiesto per l’ottenimento, da parte di tale categoria di cittadini, del permesso di lungo soggiorno.
Quel che interessa sottolineare, in questa sede, è che la Consulta ha ulteriormente precisato che «non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile», ed ha aggiunto che «un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata».
A tale ultimo proposito, la Corte costituzionale ha sottolineato che «la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati
membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratta, anche in considerazione dell’esigenza di salvaguardare ‘la sostenibilità delle finanze pubbliche’, purché ‘la durata del soggiorno legale sia proporzionata’».
In tale quadro complessivo, la sentenza n. 31 ha ritenuto di ridurre a cinque anni il requisito della previa residenza, evidenziando che proprio la durata decennale aveva determinato l’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia, definita dopo l’introduzione della misura del “reddito di inclusione” ancorato, appunto, ad una previa residenza quinquennale. Il termine di cinque anni, del resto, era già stata definito «non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la ‘relativa stabilità della presenza sul territorio’; non è poi di certo irrilevante che esso sia anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che «testimoni il ‘radicamento del richiedente nel paese in questione’».
La sentenza n. 31 ha conclusivamente osservato che, per effetto di tale proprio intervento “sostitutivo”, si giunge a ricomporre «armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espunt con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea» (cfr. sul punto supra, § 2.1).
2.3. Alla luce dell’esposizione che precede, pur inevitabilmente sommaria, emerge con assoluta evidenza la diversità di impostazione che caratterizza le due pronunce.
Da un lato la CGUE, muovendo dal presupposto che il r.d.c. costituisca una misura di assistenza sociale, ha concluso per la contrarietà, al diritto dell’Unione, sia delle disposizioni che introducano il requisito della previa residenza per dieci anni di cui gli ultimi due continuativi, sia di quelle che puniscano «con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
D’altro lato, la Corte costituzionale ha ribadito la propria lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di r.d.c., evidenziando la non riconducibilità dell’istituto alle misure di assistenza sociale, per le peculiari connotazioni della sua disciplina (temporaneità, impegni anche lavorativi, decadenza per il loro mancato rispetto o per la perdita dei requisiti di onorabilità,
ecc.) del tutto incompatibili con gli interventi nel settore dell’assistenza sociale. Da tale presupposto ricostruttivo, è stata desunta la compatibilità, con il sistema costituzionale, di un requisito (la previa residenza, peraltro ridotta da dieci a cinque anni) dimostrativo di un sufficiente radicamento del richiedente nel territorio dello Stato.
Tali conclusioni sono state raggiunte sottolineando, tra l’altro, che la CGUE non aveva in alcun modo verificato la fondatezza della prospettazione del Tribunale rimettente, e che del resto era stata proprio la Grande Sezione ad aver «correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno» (cfr. supra, § 2.2.2).
Ritiene il Collegio che non vi siano ragioni per discostarsi dall’impostazione della Corte costituzionale, in relazione sia a quanto appena ricordato in ordine ai rapporti tra le Corti interne e gli organi di giustizia sovranazionale, sia al concreto inquadramento delle disposizioni in tema di r.d.c. (avuto riguardo alle peculiari connotazioni della disciplina rispetto ai principi in tema di assistenza sociale), sia anche alla ritenuta piena compatibilità, con il sistema, di un requisito comprovante un apprezzabile radicamento del richiedente.
A ben vedere, del resto, la divergenza tra le due Corti non attiene tanto al merito della questione che qui rileva, quanto soprattutto ai presupposti ricostruttivi, in relazione ai quali, peraltro la CGUE – come già più volte ricordato – non ha ritenuto di verificare in alcun modo l’esattezza dell’impostazione prospettata dal giudice del rinvio pregiudiziale. Ciò consente di ritenere, tra l’altro, che la presente decisione non si ponga in effettivo contrasto con le opposte conclusioni raggiunte da una recente sentenza di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 13345 del 05/03/2025, Pena Abreu Rv. 287933 – 01), dal momento che tale sentenza è stata pronunciata anteriormente all’intervento della Corte costituzionale.
2.4. In tale complessiva cornice ermeneutica e ricostruttiva, non può che riaffermarsi la piena conformità ai principi costituzionali e sovranazionali della disposizione volta a sanzionare penalmente la non rispondenza al vero delle dichiarazioni rese, in sede di richiesta del beneficio, con riferimento alla previa residenza (pur nel limite di cinque anni, quanto alla durata).
Tutto ciò impone di ritenere tuttora penalmente rilevante la condotta contestata alla RAGIONE_SOCIALE nella sola parte concernente la dichiarazione di esser stata presente in Italia da più di dieci anni avendo, invece, risieduto da meno di cinque anni (si tratta della dichiarazione resa in data 07/05/2020, rispetto ad una residenza stabilita in data 11/02/2016).
Quanto all’altra dichiarazione del 31/12/2021, resa cioè dopo aver maturato i cinque anni di residenza, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato, dovendo trovare applicazione, mutatis mutandis, i principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con riferimento alle modifiche legislative in tema di false comunicazioni sociali (cfr. Sez. U, n. Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003, Giordano, Rv. 224605 – 01). Si deve cioè ritenere che, per effetto della sentenza n. 31 del 2025 della Corte costituzionale, che ha ridisegnato i contorni della fattispecie incriminatrice nel senso prima indicato, vada esclusa la persistenza del rilievo penale delle condotte, poste in essere prima della decisione della Consulta, che non siano più riconducibili alla rimodellata fattispecie incriminatrice.
Così delineato il perimetro della rilevanza penale della condotta ascritta alla RAGIONE_SOCIALE, ritiene il Collegio che le censure difensive, che possono essere valutate congiuntamente, siano prive di fondamento.
3.1. Per ciò che riguarda il primo motivo, volto a porre in discussione il fatto che sia stata la ricorrente a presentare la richiesta di accedere al beneficio, sottoscrivendo l’apposito modulo, si tratta di una doglianza palesemente reiterativa e volta a censurare il merito delle concordi valutazioni dei giudici di merito, da valutare congiuntamente secondo i noti principi in tema di “doppia conforme” (cfr. la quarta pagina della sentenza impugnata, priva di numerazione, e pag. 3 seg. della sentenza di primo grado): cfr. in particolare la piena attendibilità attribuita dal Tribunale di Crotone alla deposizione dell’operante, nella parte in cui aveva precisato che la domanda della RAGIONE_SOCIALE, per essere inserita nel sistema informatico, doveva di certo essere stata ritualmente sottoscritta. A fronte di ciò, meramente esplorativo risulta l’assunto della difesa, secondo cui la sottoscrizione del modulo poteva essere stata effettuata dal marito della ricorrente.
3.2. Quanto poi alla seconda questione proposta – concernente l’irrilevanza della formale iscrizione nei registri anagrafici di un determinato comune, per la necessità di dar rilievo alla effettiva residenza nel territorio dello Stato da parte del richiedente il beneficio – assume rilevanza quanto affermato dal Tribunale (pag. 10) in ordine al fatto che, da un lato, la difesa non aveva offerto alcun elemento idoneo a comprovare la residenza in Italia della ricorrente a partire da una data anteriore al 11/02/2016, e quindi a porre in dubbio la esaustività dell’iscrizione anagrafica presa in considerazione dagli operanti; d’altro lato, la stessa RAGIONE_SOCIALE non aveva ritenuto di offrire, in giudizio, una propria versione alternativa in ordine alla effettiva durata del periodo di residenza, in termini quindi da contrastare (o almeno a porre in dubbio) la ricostruzione accusatoria basata sull’iscrizione anagrafica.
Si tratta di rilievi che devono essere condivisi, dal momento che la difesa ricorrente avrebbe ben potuto esercitare il proprio diritto alla prova attraverso
testi, documentazione varia ecc. in grado di superare il rilievo accusatorio delle risultanze dei registri anagrafici, non illogicamente ritenuti idonei a comprovare –
in assenza di contrarie indicazioni provenienti dall’interessata – la mancanza del requisito della previa residenza in Italia già da una data precedente. Sul punto,
cfr. Sez. 2, n. 6734 del 30/01/2020, Bruzzese, Rv. 278373 – 01, secondo cui
«nell’ordinamento processuale penale, a fronte dell’onere probatorio assolto dalla pubblica accusa, anche sulla base di presunzioni o massime di esperienza, spetta
all’imputato allegare il contrario sulla base di concreti ed oggettivi elementi fattuali, poiché è l’imputato che, in considerazione del principio della c.d. ‘vicinanza
della prova’ può acquisire o quanto meno fornire, tramite l’allegazione, tutti gli elementi per provare il fondamento della tesi difensiva»).
4. Le considerazioni fin qui svolte impongono di ritenere che, limitatamente alla dichiarazione del 07/05/2020, il ricorso della RAGIONE_SOCIALE debba essere
rigettato.
Per ciò che riguarda il trattamento sanzionatorio per tale residua parte della condotta, non vi è necessità di un annullamento con rinvio per la necessaria rideterminazione, potendo a ciò provvedere direttamente questa Suprema Corte attraverso la conferma, da un lato, della pena di anni uno, mesi quattro di reclusione individuata dal Tribunale (e da quest’ultimo condizionalmente sospesa, con decisione confermata dalla Corte d’Appello), applicando il minimo edittale diminuito nella misura massima di un terzo per effetto dell’applicazione delle attenuanti generiche; d’altro lato, deve essere eliminato l’aumento di giorni quindici applicato, a titolo di continuazione interna, dal primo giudice.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla condotta posta in essere con la dichiarazione del 31 dicembre 2021 perché il fatto non è previsto dalla legge come reato. Rigetta nel resto il ricorso e ridetermina la pena, già condizionalmente sospesa, in anni uno e mesi quattro di reclusione.
Così deciso il 28 aggio 2025 Il Consiglier, tensore