Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 26403 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 26403 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME COGNOME
Data Udienza: 17/06/2025
SENTENZA
Sul ricorso proposto da:
NOME nato in Marocco il 26/05/1983
avverso la sentenza emessa il 15/10/2024 dalla Corte d’Appello di Firenze visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere NOME COGNOME;
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata
RITENUTO IN FATTO
Con sentenza del 15/10/2024, la Corte d’Appello di Firenze ha confermato la sentenza emessa con rito abbreviato in data 03/07/2023, dal G.u.p. del Tribunale di Pistoia, con la quale NOME era stato condannato alla pena di giustizia in relazione al reato di cui agli artt. 2 e 7 d.l. n. 4 del 2019 (conv. I. n. 26 del 2019).
Ricorre per cassazione il COGNOME a mezzo del proprio difensore, deducendo:
2.1. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata applicazione dei principi affermati dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 29/07/2024 (cause riunite 112/2022 e 223/2022), dai quali doveva trarsi la conclusione della irrilevanza penale delle dichiarazioni non rispondenti al vero rese in ordine al requisito della previa residenza.
2.2. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato. Si censura la sentenza per non avere adeguatamente considerato le difficoltà linguistiche ed i dubbi cagionati dalle espressioni utilizzate dalla normativa di settore, e per il rilievo dato alla presunt conoscenza della lingua italiana da parte del ricorrente.
2.3. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla mancata applicazione dell’art. 131-bis cod. pen. Si censura la sentenza impugnata per non aver considerato le precarie condizioni del ricorrente ed avere viceversa valorizzato l’importo percepito, di entità non tale da costituire un danno ingente per la collettività.
Con requisitoria tempestivamente trasmessa, il Procuratore Generale sollecita l’annullamento della sentenza impugnata, per un nuovo esame nel merito alla luce dei principi affermati dalla Corte di Giustizia e, da ultimo, dalla Cort costituzionale con la sentenza n. 31 del 2025.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Il ricorso è infondato.
Il RAGIONE_SOCIALE è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di cui agli artt. 2 e 7 d.l. n. 4 del 2019 (conv. dalla I. n. 26 del 2019) aver falsamente dichiarato, al fine di ottenere l’erogazione del c.d. reddito di cittadinanza, di aver risieduto i Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due (al momento della domanda di erogazione, presentata il 14/06/2021) in modo continuativo.
Dalle sentenze di merito emerge che, in realtà, il ricorrente era giunto in Italia dal Marocco ed aveva risieduto nel comune di S. Colombano al Lambro dal 13/02/2009 al 17/12/2009, poi dal 06/12/2011 al 04/09/2014 (data di cancellazione per irreperibilità) nel comune di Montemurlo, ed infine era “ricomparso” nel comune di Quarrata in data 12/02/2021; inoltre, dalla documentazione prodotta in giudizio dalla difesa, emerge un rapporto lavorativo presso la RAGIONE_SOCIALE dal 10/01/2020 al 31/03/2020, e poi dal 05/10/2018 al 30/04/2019 (cfr. pag. 3 della sentenza impugnata).
2.1. Come ha sottolineato il P.G. nella propria requisitoria, le disposizioni in tema di “reddito di cittadinanza” – con particolare riferimento al requisito maturato dal richiedente al momento della domanda, della residenza nel territorio
dello Stato per dieci anni, di cui due continuativi: cfr. art. 2, comma 1, d.l. n del 2019, conv. dalla I. n. 26 del 2019 – sono state recentemente oggetto di due importanti decisioni, emesse rispettivamente dalla Corte di Giustizia (Grande Sezione, sent. 29 luglio 2024, cause riunite C-112 e C-223) e della Corte costituzionale (sent. n. 31 del 20 marzo 2025).
2.2. Con la prima decisione, cui ha fatto cenno anche il ricorrente, la Corte di Giustizia ha risposto al quesito proposto dal giudice di rinvio (Tribunale di Napoli), concernente la compatibilità delle disposizioni che qui rilevano con il diritt dell’Unione, nel senso che «l’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiv 2003/109/CE del Consiglio, del 25 novembre 2003, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, letto alla luce dell’articol 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dev’essere interpretato nel senso che esso osta alla normativa di uno Stato membro che subordina l’accesso dei cittadini di paesi terzi soggiornanti di lungo periodo a una misura riguardante le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale al requisito, applicabile anche ai cittadini di tale Stato membro, di aver risieduto in detto Stato membro per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due in modo continuativo, e che punisce con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
Una completa disamina della sentenza della CGUE è ovviamente incompatibile con la presente trattazione.
Ci si limita pertanto ad evidenziare, qui di seguito, i due aspetti che più direttamente rilevano ai fini della decisione odierna, sottolineando altresì che i requisito della previa residenza decennale è stato censurato, dalla Corte di Giustizia, anche perché l’art. 4 della già citata direttiva individua in cinque anni periodo di soggiorno, legale ed ininterrotto, del cittadino di un Paese terzo in uno Stato membro dell’Unione, quale requisito idoneo a comprovare un adeguato radicamento in quello Stato, e quindi ad attribuire al cittadino del Paese terzo lo status di soggiornante di lungo periodo, come tale avente «diritto alla parità di trattamento con i cittadini di detto Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza sociale e la protezione sociale conformemente all’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), di detta direttiva» (cfr. il § 57 della motivazione). Pertanto, «uno Stato membro non può prorogare unilateralmente il periodo di soggiorno richiesto affinché tale soggiornante di lungo periodo possa godere del diritto garantito dall’articolo 11, paragrafo 1, lettera d) della direttiva 2003/109, senza violare quest’ultima disposizione» (§ 58).
2.2.1. Risulta con assoluta chiarezza, anche dal dispositivo e dai passaggi argomentativi testualmente riportati in precedenza, che la CGUE ha affrontato e deciso le questioni sollevate dal Tribunale di Napoli sul presupposto della
riconduzione del c.d. reddito di cittadinanza tra le misure riguardanti «le prestazioni sociali, l’assistenza sociale o la protezione sociale».
Come meglio si vedrà esaminando la successiva sentenza della Corte costituzionale, tale inquadramento assume un rilievo centrale ai fini della odierna decisione, non solo perché fermamente contrastato dal Governo italiano nel corso del giudizio dinanzi alla Grande Sezione, ma anche – ed anzi soprattutto – per la peculiare posizione assunta da quest’ultima.
La sentenza della CGUE, infatti, ha richiamato le posizioni di marcato dissenso espresse dal Governo italiano, secondo il quale «il ‘reddito di cittadinanza’ di cui trattasi nei procedimenti principali non sarebbe una misura di protezione sociale o di assistenza sociale il cui scopo sia semplicemente quello di garantire agli interessati un certo livello di reddito, ma costituirebbe una misura complessa volta soprattutto a favorire l’inclusione sociale e la reintegrazione degli interessati ne mercato del lavoro» (cfr. il § 25).
Prendendo atto di tale prospettazione, la Grande Sezione ha tuttavia ritenuto che la stessa non fosse ostativa alla trattazione delle questioni pregiudiziali sollevate, e soprattutto ha affermato la necessità di attenersi alla ricostruzione del giudice del rinvio pregiudiziale, imperniata – come già posto in evidenza – sulla riconduzione del reddito di cittadinanza tra le misure riguardanti le prestazioni sociali, di assistenza sociale e di protezione sociale.
Si è anche affermato, conclusivamente, che «è vero che il governo italiano contesta questa constatazione del giudice del rinvio. Tuttavia occorre ricordare che, secondo costante giurisprudenza, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici dell’Unione e i giudici nazionali la Corte è tenuta a prendere in considerazione il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali così come definito dalla decisione di rinvio. Pertanto, indipendentemente dalle critiche espresse dal governo di uno Stato membro nei confronti dell’interpretazione del diritto nazionale adottata dal giudice del rinvio, l’esame delle questioni pregiudiziali dev’essere effettuato sulla base di tale interpretazione e non spetta alla Corte verificarne l’esattezza» (§ 40 della motivazione).
2.3. Come già accennato, dopo la proposizione del ricorso del RAGIONE_SOCIALE, è intervenuta la sentenza n. 31 della Consulta, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per contrasto con l’art. 3 Cost., dell’art. 2 d.l. n. 4 del 2019 (con dalla I. n. 26 del 2019) «nella parte in cui prevedeva che il beneficiario del reddit di cittadinanza dovesse essere residente in Italia ‘per almeno 10 anni’, anziché prevedere ‘per almeno 5 anni’».
Anche con riferimento a tale decisione, è necessario limitarsi, in questa sede, ad illustrare i passaggi argomentativi di maggior rilievo ai fini dell’odier
decisione (la questione di legittimità costituzionale del requisito di residenza per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due continuativi, era stata sollevata dalla Cort d’Appello di Milano – Sez. Lavoro, nell’ambito di un procedimento avviato da due richiedenti il reddito di cittadinanza e l’INPS).
Quel che interessa sin da subito evidenziare è il fatto che la Corte costituzionale ha preso in esplicita considerazione la sentenza della Grande Sezione della CGUE, ma ne ha preso le distanze, altrettanto esplicitamente, quanto all’inquadramento del r.d.c. tra le misure di assistenza sociale.
2.3.1. La Consulta ha invero ribadito, sulla scorta di alcune proprie decisioni precedenti, «la peculiarità strutturale e funzionale di questa misura, dove la componente di integrazione al reddito è strettamente condizionata al conseguimento di obiettivi di inserimento nel mondo del lavoro e comunque di inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario».
In questa prospettiva, la sentenza ha passato in rassegna le disposizioni in tema di necessaria dichiarazione di disponibilità al lavoro da parte dei beneficiari maggiorenni, di percorsi di accompagnamento di costoro all’inserimento lavorativo d..,e all’inclusione sociale, di obblighiricerca attiva del lavoro e di accettazione proposte congrue, ecc. All’esito di tale disamina, la Corte costituzionale ha in sintesi osservato che «gli strumenti apprestati non consistono in meri sussidi per rispondere alla situazione di povertà, dal momento che il beneficio economico erogato è inscindibile da una più complessa e qualificante componente di inclusione attiva, diretta a incentivare la persona nell’assunzione di una responsabilità sociale, che si realizza attraverso la risposta positiva agli impegni contenuti in un percorso appositamente predisposto e che dovrebbe condurre, per questa via, all’uscita dalla condizione di povertà». In tale prospettiva, le precedent decisioni sul tema avevano ritenuto non irragionevole non solo l’interruzione dell’erogazione del beneficio in caso di mancato rispetto degli impegni, ma anche le ulteriori condizionalità e preclusioni previste dalla normativa (mancata sottoposizione a misure cautelari e condanne per determinati reati nel decennio precedente, divieto di utilizzo dell’erogazione per giochi con vincite in danaro), oltre alla stessa temporaneità della misura.
Su tali basi, si è conclusivamente ritenuto «evidente che una simile struttura, fondata sulla temporaneità, precisi obblighi e soprattutto rigide condizionalità persino in grado, se disattese, di determinare il venir meno del diritto alla prestazione, risulterebbe del tutto inconciliabile con il carattere meramente assistenziale e quindi con le caratteristiche tipiche delle vere e proprie prestazioni di assistenza sociale, dove invece prevale l’esigenza, sostanzialmente incondizionata, di rispondere ai bisogni primari, «indifferenziabili e indilazionabili
(sentenza n. 166 del 2018), cui sono relative (ex plurimis, sentenza n. 42 del 2024 e ordinanza n. 29 del 2024)».
2.3.2. La Consulta ha quindi riaffermato, con assoluta chiarezza, la necessità di tener ferma la lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di R.d.c., «senza che a ciò possa ritenersi d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D.».
Al riguardo, la Corte costituzionale ha richiamato i passaggi della sentenza della CGUE nei quali, come si è visto (cfr. supra, § 2.2), la Grande Sezione ha ritenuto di doversi attenere alla prospettazione del giudice del rinvio pregiudiziale, che aveva ricondotto il R.d.c. tra le misure di assistenza sociale, ritenendo che ad essa non spettasse verificarne l’esattezza. Sul punto, la Consulta evidenzia che è «solo sulla scorta di tale premessa – che espressamente riconosce come tale interpretazione sia suscettibile di verifica da parte degli organi a cui invece istituzionalmente spetta, secondo l’ordinamento nazionale, proprio verificarne l’esattezza – la sentenza è giunta a ritenere che ‘il reddito di cittadinanza di c trattasi nei procedimenti principali costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo 1, lettera d), della direttiva 2003/109, let alla luce dell’articolo 34 della Carta’».
Le conclusioni della Corte costituzionale non potrebbero essere più chiare, laddove si afferma che: «in definitiva, la sentenza della Corte di giustizia non ha verificato l’esattezza dell’interpretazione proposta dal giudice del rinvio, ovvero dal Tribunale di Napoli, in ordine alla natura del Rdc, ma ha correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno. Del resto, se è indiscutibile che al Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto».
2.3.3. Così ricostruito il sistema, la Corte costituzionale ha comunque ritenuto fondata la questione, sollevata (in subordine) dal rimettente con riguardo all’art. 3 Cost., del requisito della residenza per almeno dieci anni richiesto ai cittadini d Paesi terzi, ritenuto privo di proporzionalità e di ragionevole giustificazione, specie se accostato al requisito della residenza per cinque anni richiesto per l’ottenimento, da parte di tale categoria di cittadini, del permesso di lungo soggiorno.
Quel che interessa sottolineare, in questa sede, è che la Consulta ha ulteriormente ribadito che «non trattandosi di una prestazione meramente
assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile», precisando che «un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata». A tale ultimo proposito, la Corte costituzionale ha sottolineato che «la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratt anche in considerazione dell’esigenza di salvaguardare ‘la sostenibilità delle finanze pubbliche’, purché ‘la durata del soggiorno legale sia proporzionata’».
In tale quadro complessivo, la sentenza n. 31 ha ritenuto di ridurre a cinque anni il requisito della previa residenza, evidenziando che proprio la durata decennale aveva determinato l’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia, definita grazie all’introduzione della misura del “reddito di inclusio ancorato, appunto, ad una previa residenza quinquennale. Il termine di cinque anni, del resto, era già stata definito «non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la ‘relativa stabilità della presenza sul territorio’; non è poi di certo irrilevante che esso s anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che «testimoni il ‘radicamento del richiedente nel paese in questione’».
La sentenza n. 31 ha conclusivamente osservato che il proprio intervento “sostitutivo” ha avuto l’effetto di ricomporre «armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause riunite C112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espu con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea» (cfr. sul punto supra, § 2.1).
2.4. Alla luce dell’esposizione che precede, pur inevitabilmente sommaria, emerge con assoluta evidenza la diversità di impostazione che caratterizza le due pronunce.
Da un lato la CGUE, muovendo dal presupposto che il r.d.c. costituisca una misura di assistenza sociale, ha senz’altro concluso per la contrarietà, al diritto dell’Unione, sia delle disposizioni che introducano il requisito della previa residenza per dieci anni di cui gli ultimi due continuativi, sia di quelle che eventualmente puniscano «con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
D’altro lato, la Corte costituzionale ha ribadito la propria lettur costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di r.d.c., evidenziando la non riconducibilità dell’istituto alle misure di assistenza sociale, per le peculiari connotazioni del tutto incompatibili con tale tipologia di intervento (temporaneità, impegni anche lavorativi, decadenza per il loro mancato rispetto o per la perdita dei requisiti di onorabilità, ecc.), e la conseguente compatibilità, con il sistem costituzionale, di un requisito (la previa residenza, peraltro ridotta da dieci cinque anni) che dimostri un sufficiente radicamento del richiedente nel territorio dello Stato. Tali conclusioni sono state raggiunte sottolineando che la CGUE non aveva in alcun modo verificato la fondatezza della prospettazione del Tribunale rimettente, e che del resto era stata proprio la Grande Sezione ad aver «correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno» (cfr. supra, § 2.3.2).
Ritiene il Collegio che non vi siano ragioni per discostarsi dall’impostazione della Corte costituzionale, in relazione sia a quanto appena ricordato in ordine ai rapporti tra le Corti interne e gli organi di giustizia sovranazionale, sia al concre inquadramento delle disposizioni in tema di r.d.c., avuto riguardo alle peculiari connotazioni della disciplina rispetto ai principi in tema di assistenza sociale, sia anche alla ritenuta piena compatibilità, con il sistema, di un requisito comprovante un apprezzabile radicamento del richiedente.
A ben vedere, del resto, la rilevata divergenza del percorso argomentativo tracciato dalle due Corti non attiene propriamente al merito della questione che qui rileva, dal momento che la CGUE ha ritenuto espressamente di non dover verificare, in alcun modo, l’esattezza dell’impostazione prospettata dal giudice del rinvio pregiudiziale: ciò consente di ritenere, tra l’altro, che la presente decision non si ponga in effettivo contrasto con le opposte conclusioni raggiunte da Sez. 2, n. 13345 del 05/03/2025, Pena COGNOME Rv. 287933 – 01, dal momento che tale sentenza è stata pronunciata anteriormente all’intervento della Corte costituzionale.
In tale complessiva cornice ermeneutica e ricostruttiva, non può che riaffermarsi la piena conformità ai principi costituzionali e sovranazionali della disposizione volta a sanzionare penalmente la non rispondenza al vero delle
dichiarazioni rese, in sede di richiesta del beneficio, con riferimento alla previa residenza (pur nel limite di cinque anni, quanto alla durata).
Da tutto ciò consegue la persistente rilevanza penale della condotta contestata al RAGIONE_SOCIALE, sia perché i periodi di residenza in Italia documentati non raggiungono, nel loro complesso, i cinque anni (anche a tener conto dei rapporti lavorativi di cui alla produzione difensiva: cfr. supra, § 2), sia perché – in ogni caso – non risulta in alcun modo comprovato l’ulteriore requisito della residenza continuativa in Italia nei due anni precedenti la data di presentazione della domanda (14/06/2021).
3. Il secondo motivo è infondato.
Come ricordato anche dalla sentenza impugnata, questa Suprema Corte ha avuto modo di chiarire che «in tema di false dichiarazioni finalizzate all’ottenimento del reddito di cittadinanza, l’ignoranza o l’errore circa sussistenza del diritto a percepirne l’erogazione, in difetto dei requisiti a tal f richiesti dall’art. 2 d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, legge 28 marzo 2019, n. 26, si risolve in un errore su legge penale, che non esclude la sussistenza del dolo ex art. 5 cod. pen., in quanto l’anzidetta disposizione integra il precetto penale di cui all’art. 7 del citato d.l. (Sez. 2 Sentenza n. 23265 del 07/05/2024, COGNOME, Rv. 286413 – 01, la quale, in motivazione, ha ulteriormente precisato che non ricorre neanche un caso di inevitabilità dell’ignoranza della legge penale, non presentando la normativa in tema di concessione del reddito di cittadinanza connotati di cripticità tali da fa ritenere l’oscurità del precetto).
Tali coordinate interpretative sono state correttamente applicate dai giudici di merito. Devono ritenersi condivisibili, in particolare, i passaggi argomentativi della sentenza impugnata dedicati alla inconsistenza della tesi della confondibilità dei concetti di “residenza”, “permesso di soggiorno”, ecc., specie considerando che il richiedente un beneficio ancorato a requisiti specifici ha l’onere di verificare, anche se non madrelingua, il possesso di questi ultimi prima di presentare la dichiarazione (cfr. pag. 6 seg. della sentenza impugnata).
Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi quanto alla residua censura.
La Corte territoriale ha motivato la mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all’art 131-bis cod. pen. in termini immuni da censure deducibili i questa sede, sottolineando sia il significativo importo indebitamente percepito (oltre duemila Euro), sia la conseguente irrilevanza della non abitualità della condotta, dal momento che l’entità dell’abusiva percezione risultava appunto ostativa all’applicazione della causa di non punibilità.
Le considerazioni fin qui svolte impongono il rigetto del ricorso, e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 17 giugno 2025
Il Consigli
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‘estensore GLYPH
Il Presidente