Sentenza di Cassazione Penale Sez. 3 Num. 27716 Anno 2025
Penale Sent. Sez. 3 Num. 27716 Anno 2025
Presidente: COGNOME
Relatore: NOME
Data Udienza: 18/06/2025
SENTENZA
sul ricorso proposto da
NOME COGNOME nato a Kersignane (Mali) il 01/01/1971
avverso la sentenza emessa in data 22/01/2025 dalla Corte di Appello di Catanzaro visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso. udita la relazione svolta dal Consigliere NOME COGNOME.
lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore NOME COGNOME che ha concluso chiedendo l’annullamento con rinvio alla Corte d’appello di Catanzaro.
RITENUTO IN FATTO
1 Con decisione del 6 marzo 2024 il Tribunale di Lamezia Terme, dopo aver riconosciuto NOME COGNOME responsabile del reato di cui all’art. 7, comma 2, d.l. n. 4 del 2019 (conv. dalla I. n. 26 del 2019), a lui ascritto, con riferimento alla dichiarazione di aver risieduto in Italia negli ultimi dieci anni a far data dalla presentazione della richiesta del c.d. reddito di cittadinanza, lo assolveva per particolare tenuità del fatto.
Con sentenza del 22/01/2025, la Corte di Appello di Catanzaro, adita dall’imputato per ottenere l’assoluzione con formula piena, ha confermato la pronuncia del giudice di primo grado.
Avverso quest’ultima pronuncia, l’imputato, a mezzo del proprio difensore, per cassazione presentando un’impugnazione articolata nei seguenti motivi.
3.Nel primo motivo di ricorso si lamenta il vizio di violazione di legge in relazione all’art. 136 Cost., poiché la Corte d’appello non avrebbe considerato, seppur sollecitata a ciò dalle conclusioni scritte del difensore, che nelle more del procedimento era intervenuta la sentenza della Corte di Giustizia dell’unione Europea del 29 luglio 2024, nelle cause C-112/22 e C-223/22, che ha stabilito che sia il requisito della residenza decennale, per l’accesso al reddito di cittadinanza, sia la correlata sanzione penale per falsa dichiarazione sul possesso di tale requisito sono incompatibili con il diritto europeo ed il principio di non discriminazione.
Pertanto, in virtù della valenza di rango costituzionale delle pronunce della CGUE che hanno lo stesso effetto dell’abolitio criminis, l’imputato non può essere perseguito penalmente per aver dichiarato falsamente il requisito di residenza decennale, poiché tale requisito è stato dichiarato non conforme al diritto europeo e violativo del principio di non discriminazione, codificato anche nell’ordinamento italiano all’art. 3 Cost.
Con il secondo motivo di ricorso si lamenta la violazione di legge con riferimento agli artt. 192, commi 1 e 2 e 530, cod. proc. pen.
Si deduce che la sentenza di condanna è stata emessa in assenza di elementi idonei a ricondurre all’imputato la paternità della richiesta del beneficio. Dall’esame degli atti risulterebbe unicamente che la domanda è stata inoltrata per il tramite di un intermediario abilitato, senza che vi sia prova che quest’ultimo abbia agito su incarico o su richiesta dell’imputato.
5.Nel terzo motivo di ricorso si lamenta la manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte in cui esclude che la condotta penalmente rilevante sia riconducibile a un errore scusabile. Ciò in quanto l’imputato si sarebbe rivolto a un intermediario qualificato per ottenere informazioni sulla procedura e sui requisiti necessari per accedere al beneficio, ma quest’ultimo avrebbe omesso di informarlo dell’assenza del requisito della residenza, inducendolo così in errore circa la necessità di tale presupposto.
Nei motivi nuovi proposti in data 30/5/2025, nell’interesse del ricorrente si dava atto del deposito della decisione della Corte costituzionale n. 31/2025.
Si evidenziava che alla luce del dictum della Consulta, la condotta del COGNOME era divenuta priva di rilevanza penale, giacché dall’istruttoria era emerso che questi, residente in Italia sin dal 10/12/2014, al momento della presentazione
dell’istanza del beneficio, ovvero in data 29/01/2021, risultava in possesso del requisito della residenza quinquennale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il ricorso è fondato nei termini che seguono.
L’esame delle censure sollevate nell’interesse dell’imputato, impone una sintetica analisi delle pronunce sovranazionali e nazionali richiamate dal ricorrente che, nella materia oggetto del presente giudizio, hanno inciso in modo significativo, già sul piano astratto, sulla configurabilità della fattispecie incriminatrice contestata a COGNOME. (cfr. Sez. 3, n. 23449 e n. 23452 del 28/5/2025).
Le disposizioni relative al “reddito di cittadinanza” – con specifico riferimento al requisito della residenza decennale nel territorio dello Stato, di cui almeno due anni continuativi, previsto dall’art. 2, comma 1, del dl. n. 4 del 2019, convertito nella I. n. 26 del 2019 – sono state, infatti, oggetto di due importanti decisioni: una della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (Grande Sezione, sentenza 29 luglio 2024, cause riunite C-112 e C-223) e una della Corte costituzionale (sentenza n. 31 del 20 marzo 2025).
2.1. Nella decisione citata, la Corte di Giustizia ha affermato che l’art. 11, par. 1, lett. d), della direttiva 2003/109/CE, letto alla luce dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, osta a una normativa nazionale che subordini l’accesso dei soggiornanti di lungo periodo a prestazioni sociali (come il reddito di cittadinanza) al requisito di una residenza decennale, di cui due anni continuativi; e preveda sanzioni penali per dichiarazioni false relative a tale requisito.
Secondo la Corte, tale normativa costituisce una discriminazione indiretta nei confronti dei cittadini di Paesi terzi, in quanto il requisito della lunga residenza è idoneo a escludere in modo sproporzionato proprio questi soggetti, senza che ciò sia giustificato da un obiettivo legittimo e proporzionato.
La Corte di Giustizia ha censurato il requisito della residenza decennale anche alla luce dell’art. 4 della direttiva 2003/109/CE, che fissa in cinque anni il periodo di soggiorno legale e ininterrotto necessario per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo.
Tale status comporta il diritto alla parità di trattamento con i cittadini dello Stato membro, in particolare per quanto riguarda le prestazioni sociali, l’assistenza e la protezione sociale (cfr. § 57). La Corte ha quindi osservato che uno Stato membro non può unilateralmente estendere tale periodo senza violare la direttiva (cfr. § 58).
2.1.2. Giova evidenziare che dal dispositivo e dai passaggi motivazionali sopra richiamati, emerge che la Corte ha qualificato il reddito di cittadinanza come misura rientrante tra le prestazioni sociali, l’assistenza e la protezione sociale.
Deve essere, tuttavia precisato che tale qualificazione, lungi dall’essere espressione di una precisa scelta interpretativa della Corte, è risultata imposta dalla necessità di attenersi alla prospettazione offerta dal giudice del rinvio, che aveva ricondotto il reddito di cittadinanza nell’ambito delle prestazioni sociali.
La stessa CGUE ha, infatti, ricordato che «secondo costante giurisprudenza, nell’ambito della ripartizione delle competenze tra i giudici dell’Unione e i giudici nazionali la Corte è tenuta a prendere in considerazione il contesto materiale e normativo nel quale si inseriscono le questioni pregiudiziali così come definito dalla decisione di rinvio. Pertanto, indipendentemente dalle critiche espresse dal governo di uno Stato membro nei confronti dell’interpretazione del diritto nazionale adottata dal giudice del rinvio, l’esame delle questioni pregiudiziali dev’essere effettuato sulla base di tale interpretazione e non spetta alla Corte verificarne l’esattezza (v., in tal senso, sentenze del 21 giugno 2016, New Valmar, C-15/15, EU:C:2016:464, punto 25, e del 21 dicembre 2023, Cofidis, C340/22, EU:C:2023:1019, punto 31)»(cfr. § 40).
2.2. Come già accennato, successivamente alla proposizione del ricorso da parte di NOME COGNOME, è intervenuta la sentenza n. 31 del 2025 della Corte costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 del dl. n. 4/2019 (conv. in I. n. 26/2019), nella parte in cui subordinava il riconoscimento del reddito di cittadinanza al requisito della residenza decennale, anziché quinquennale, per contrasto con l’art. 3 Cost.
In questa decisione la Consulta ha preso espressamente in considerazione la sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea, pur discostandosene quanto alla qualificazione del reddito di cittadinanza come misura di assistenza sociale.
2.2.1. In linea con precedenti pronunce, i Giudici delle leggi hanno ribadito la natura peculiare del reddito di cittadinanza, sottolineando come la componente economica sia strettamente legata a finalità di inserimento lavorativo e inclusione sociale, che richiedono il coinvolgimento attivo del beneficiario. In tale prospettiva, la sentenza n. 31 del 2025 ha richiamato le disposizioni che impongono ai beneficiari maggiorenni la dichiarazione di disponibilità al lavoro, la partecipazione a percorsi di accompagnamento, l’obbligo di ricerca attiva di un impiego e l’accettazione di offerte congrue.
All’esito di tale analisi, la Corte ha osservato che il reddito di cittadinanza non si configura come un mero sussidio assistenziale, ma come una misura complessa, fondata su una logica di inclusione attiva e responsabilizzazione del beneficiario, finalizzata al superamento della condizione di povertà. In tale ottica,
la Consulta ha ritenuto non irragionevoli non solo l’interruzione del beneficio in caso di inadempimento degli obblighi previsti, ma anche le ulteriori condizionalità e preclusioni normative (quali l’assenza di condanne o misure cautelari nel decennio precedente, o il divieto di utilizzo del beneficio per giochi con vincite in denaro), nonché la stessa temporaneità della misura.
Su tali basi, la Corte ha concluso che una struttura così articolata, fondata su obblighi stringenti e condizionalità tali da comportare la perdita del beneficio in caso di inadempimento, risulta incompatibile con la nozione di prestazione meramente assistenziale, la quale si caratterizza, invece, per l’incondizionata risposta a bisogni primari e indifferibili (cfr. sentenze n. 166/2018, n. 42/2024 e ord. n. 29/2024).
2.2.2. La Consulta ha quindi riaffermato, con assoluta chiarezza, la necessità di tener ferma la lettura costituzionalmente orientata, già esposta in precedenti pronunce, delle disposizioni in tema di r.d.c., «senza che a ciò possa ritenersi d’ostacolo la recente sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, grande sezione, 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D.».
Al riguardo, la Corte costituzionale ha richiamato i passaggi della sentenza della CGUE nei quali, come si è visto la Grande Sezione ha ritenuto di doversi attenere alla prospettazione del giudice del rinvio pregiudiziale, il quale aveva ricondotto il r.d.c. tra le misure di assistenza sociale, precisando di non sentirsi gravata dall’onere di verificarne l’esattezza. Sul punto, la Consulta evidenzia che è «solo sulla scorta di tale premessa -che espressamente riconosce come tale interpretazione sia suscettibile di verifica da parte degli organi a cui invece istituzionalmente spetta, secondo l’ordinamento nazionale, proprio verificarne l’esattezza – la sentenza è giunta a ritenere che il reddito di cittadinanza di cui trattasi nei procedimenti principali costituisce una misura rientrante nell’ambito di applicazione dell’articolo 11, paragrafo I, lettera d), della direttiva 2003/109, letto alla luce dell’articolo 34 della Carta».
La Consulta afferma chiaramente che: «in definitiva, la sentenza della Corte di giustizia non ha verificato l’esattezza dell’interpretazione proposta dal giudice del rinvio, ovvero dal Tribunale di Napoli, in ordine alla natura del Rdc, ma ha correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno. Del resto, se è indiscutibile che alla Corte di giustizia spetta l’interpretazione dei trattati e del diritto derivato, al fine di assicurarne l’uniforme applicazione in tutti gli Stati membri, è parimenti indiscutibile che l’interpretazione della Costituzione è riservata a questa Corte, così come la funzione di nomofilachia del diritto nazionale lo è alla Corte di cassazione, essendo orientate ad assicurare anche la certezza del diritto».
2.2.3. Così ricostruito il sistema, la Corte costituzionale ha comunque ritenuto fondata la questione, sollevata (in subordine) con riferimento all’art. 3 Cost., del requisito della residenza per almeno dieci anni richiesto ai cittadini di Paesi terzi: un requisito che è stato ritenuto privo di proporzionalità e di ragionevole giustificazione, specie se accostato a quello della residenza per cinque anni richiesto per l’ottenimento, da parte di tale categoria di cittadini, del permesso di lungo soggiorno.
Quel che interessa sottolineare, in questa sede, è che la Consulta ha ulteriormente precisato che «non trattandosi di una prestazione meramente assistenziale, un requisito di radicamento territoriale non è di per sé implausibile», ed ha aggiunto che «un requisito di residenza pregressa, peraltro, non appare, di per sé, determinare una violazione del divieto di discriminazione indiretta e delle relative disposizioni del diritto dell’Unione, che pure vengono in considerazione nella questione in esame. Per quanto un tale requisito ponga di fatto il cittadino italiano in una posizione più favorevole, non di meno la discriminazione indiretta ben può ritenersi giustificata quando sussistono ragioni che la rendono necessaria e proporzionata».
A tale ultimo proposito, la Corte costituzionale ha sottolineato che «la recente raccomandazione del Consiglio del 30 gennaio 2023, relativa a un adeguato reddito minimo che garantisca l’inclusione attiva, consente chiaramente agli Stati membri, per l’accesso a prestazioni aventi struttura e funzioni analoghe a quelle del Rdc, il ricorso al criterio selettivo basato sulla residenza protratta, anche in considerazione dell’esigenza di salvaguardare “la sostenibilità delle finanze pubbliche”, purché “la durata del soggiorno legale sia proporzionata”».
In tale quadro complessivo, la sentenza n. 31 ha ritenuto di ridurre a cinque anni il requisito della previa residenza, evidenziando che proprio la durata decennale aveva determinato l’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia, definita dopo l’introduzione della misura del “reddito di inclusione” ancorato, appunto, ad una previa residenza quinquennale. Il termine di cinque anni, del resto, era già stata definito «non irragionevole, ai sensi dell’art. 3 Cost., da questa Corte nella sentenza n. 19 del 2022, in quanto dimostra la “relativa stabilità della presenza sul territorio”; non è poi di certo irrilevante che esso sia anche quello previsto dall’art. 16, paragrafo 1, della direttiva 2004/38/CE e quello che, da ultimo, è stato indicato dalla stessa sentenza della Corte di giustizia del 29 luglio 2024, nelle cause riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., in riferimento a cittadini di Paesi terzi, come periodo che «testimoniil “radicamento del richiedente nel paese in questione”».
La sentenza n. 31 ha conclusivamente osservato che, per effetto di tale proprio intervento “sostitutivo”, si giunge a ricomporre «armonicamente anche il rapporto con la sentenza della Corte di giustizia 29 luglio 2024, nelle cause
riunite C-112/22, C. U. e C-223/22, N. D., dal momento che, in riferimento a qualsiasi cittadino, sia italiano, sia degli altri Stati membri, sia di Paesi terzi, viene espunto con efficacia erga omnes dall’ordinamento nazionale il requisito della residenza decennale, ritenuto, da tale sentenza, contrastante, in riferimento però ai soli cittadini di Paesi terzi, con l’ordinamento dell’Unione europea»
2.3. Alla luce dell’esposizione che precede, pur inevitabilmente sommaria, emerge con assoluta evidenza la diversità di impostazione che caratterizza le due pronunce.
Da un lato la CGUE, muovendo dal presupposto che il r.d.c. costituisca una misura di assistenza sociale, ha concluso per la contrarietà, al diritto dell’Unione, sia delle disposizioni che introducano il requisito della previa residenza per dieci anni di cui gli ultimi due continuativi, sia di quelle che puniscano «con sanzione penale qualsiasi falsa dichiarazione relativa a tale requisito di residenza».
D’altro lato, la Corte costituzionale ha ribadito la propria lettura costituzionalmente orientata delle disposizioni in tema di r.d.c., evidenziando la non riconducibilità dell’istituto alle misure di assistenza sociale, per le peculiari connotazioni della sua disciplina (temporaneità, impegni anche lavorativi, decadenza per il loro mancato rispetto o per la perdita dei requisiti di onorabilità, ecc.) del tutto incompatibili con gli interventi nel settore dell’assistenza sociale. Da tale presupposto ricostruttivo, è stata desunta la compatibilità, con il sistema costituzionale, di un requisito (la previa residenza, peraltro ridotta da dieci a cinque anni) dimostrativo di un sufficiente radicamento del richiedente nel territorio dello Stato.
Tali conclusioni sono state raggiunte sottolineando, tra l’altro, che la CGUE non aveva in alcun modo verificato la fondatezza della prospettazione del Tribunale rimettente, e che del resto era stata proprio la Grande Sezione ad aver «correttamente rimesso tale verifica al sistema giurisdizionale e costituzionale che è deputato a garantire l’uniforme applicazione del diritto interno» (cfr. supra, § 2.2.2).
Il Collegio, ritiene di non doversi discostare dall’impostazione seguita dalla Corte costituzionale, sia in relazione ai rapporti tra giurisprudenza interna e sovranazionale, sia con riguardo alla qualificazione normativa del reddito di cittadinanza, tenuto conto delle sue peculiari caratteristiche rispetto alle prestazioni di assistenza sociale, sia infine in ordine alla legittimità di un requisito volto a comprovare un significativo radicamento del richiedente nel territorio nazionale.
Va peraltro osservato che la divergenza tra la Corte costituzionale e la CGUE non riguarda tanto il merito della questione rilevante nel presente giudizio,
quanto piuttosto i presupposti ricostruttivi. In proposito va rimarcato che la Corte di giustizia non ha ritenuto di verificare la correttezza dell’impostazione offerta dal giudice del rinvio, il che consente di escludere un effettivo contrasto con la successiva sentenza della Corte costituzionale. Ne consegue che la presente decisione non si pone in conflitto con la pronuncia di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 13345 del 5/3/2025, Pena Abreu, Rv. 287933 – 01), emessa anteriormente all’intervento della Consulta.
4.Tanto premesso è possibile valutare le censure difensive.
Il secondo motivo di ricorso, il cui esame precede logicamente quello del primo, riguardando la paternità della richiesta del beneficio, è manifestamente infondato.
Esso si limita a riproporre censure già valutate dai giudici di merito, le cui conclusioni, conformi tra primo e secondo grado, vanno lette congiuntamente secondo i principi della “doppia conforme” (cfr. quarta pagina della sentenza impugnata e pag. 3 ss. della sentenza di primo grado).
In particolare, entrambi i giudici di merito hanno ritenuto pienamente attendibile la deposizione dell’operante, che ha chiarito come la domanda presentata da NOME COGNOME per essere inserita nel sistema informatico, dovesse necessariamente essere stata sottoscritta in modo rituale. A fronte di ciò, l’ipotesi difensiva secondo cui la sottoscrizione sarebbe stata effettuata autonomamente dall’intermediario appare meramente esplorativa e priva di riscontro.
6.Accertata l’imputabilità della richiesta del beneficio all’odierno ricorrente, deve ora valutarsi il primo motivo di ricorso.
Alla luce del complessivo quadro ermeneutico e ricostruttivo di riferimento, va, dunque, ribadito l’orientamento di Questa Corte nel senso della piena conformità ai principi costituzionali e sovranazionali della disposizione di cui all’art. 7, comma 1, del d.l. 28 gennaio 2019, n. 4, conv. nella legge 28/3/2019, n. 26, che prevede una sanzione penale per le dichiarazioni non veritiere rese in sede di richiesta del r.d.c., con particolare riguardo al requisito della residenza, pur se nel limite di cinque anni, quanto alla durata. (Sez. 3, n. 23449 e n. 23452 del 28/5/2025).
Calando il principio enunciato nel caso concreto, per verificare se la condotta del COGNOME presenti profili penalmente sanzionabili, appare necessario prendere le mosse dal capo d’imputazione.
Va osservato che l’imputato è stato condannato ai sensi della disposizione citata perché «al fine di ottenere indebitamente il beneficio economico del
reddito di cittadinanza di cui all’art. 3, rendeva e utilizzava dichiarazioni false ed attestanti circostanze non veritiere, nello specifico afferenti al requisito di avere
risieduto in Italia per almeno dieci anni, di cui gli ultimi due, avuto riguardo al momento della presentazione della domanda (29.01.2021) e per tutta la durata
dell’erogazione del beneficio in modo continuativo, con ciò percependo indebitamente la complessiva somma di euro 750.000».
La formulazione dell’accusa comporta che, contrariamente a quanto richiesto dal ricorrente, l’epilogo decisorio non può essere l’annullamento senza rinvio;
infatti, una eventuale dichiarazione di irrilevanza penale della condotta dell’imputato da parte dì Questa Corte, presupporrebbe che dagli elementi
processuali disponibili emerga con sufficiente chiarezza che la residenza dell’imputato, sia pur nei cinque anni di riferimento, abbia presentato le
caratteristiche richieste dalla legge.
In base al tenore dell’imputazione, infatti, la possibilità di considerare irrilevante, ai fini sanzionatori, la dichiarazione resa, non può prescindere dalla
verifica della sussistenza requisito della “continuatività” della permanenza sul territorio dello Stato, nella declinazione prevista dalla norma, che, al pari di quello temporale, costituisce presupposto di legittimità della richiesta.
Tale profilo, tuttavia, non risulta con evidenza nella fattispecie in esame.
Pertanto, trattandosi di un accertamento di fatto, che in quanto tale è precluso a questo Collegio, si impone l’annullamento con rinvio della decisione impugnata affinché i giudici di merito verifichino la sussistenza di tale requisito per poter pervenire ad una assoluzione dell’imputato con formula piena.
7.11 disposto annullamento con rinvio rende superfluo l’esame del terzo motivo di ricorso.
8.Per queste ragioni la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro. GLYPH
Depositata in Canceller
Così deciso in Roma, in data 18/06/2025
oggi, 2 9 LOS. 2025